John Barleycorn Must Die dei Traffic

 

Famoso pezzo dei Traffic, tratto dallo storico album John Barleycorn Must Die, del 1970. E’ una canzone tradizionale diffusa in Inghilterra e in Scozia, incentrata su questo personaggio popolare, che è poi lo spirito e la impersonificazione della birra e del whisky.

E’ una allegoria della produzione del whisky, il liquore di tutti gli inglesi, dalla semina fino al raccolto; John Barleycorn è lo “spirito del grano”, la spiegazione mitica del mistero contenuto nel continuo rinnovarsi della vita: dai semi del grano vecchio (che muore) nascerà l’anno successivo il nuovo raccolto. L a nascita del grano nuovo, e quindi del cibo, era soggetto ad attenzioni particolari e sacrifici propiziatori rituali. Nella morte di John Barleycorn è racchiuso il ciclo della mietitura, il grano crescente doveva essere mietuto, quando finiva era finito il raccolto, il mietitore che mieteva l’ultimo covone simbolicamente uccideva il raccolto di quell’anno, e quindi uccideva lo spirito del grano, e quindi in qualche modo prendeva su di sé la sventura della fine della vita, della morte. Ma lo spirito sarebbe rinato l’anno dopo, bisognava che morisse in modo certo per garantirne la rinascita, e quindi doveva essere inscenata una uccisione simbolica e inappellabile (nella canzone è il “voto solenne”), con le forme e la brutalità del sacrificio. Queste modalità simboliche descritte nel testo della canzone sono quelle usate campagne inglesi del Devonshire e della Scozia fino ai primi decenni del ‘900. Il brano è stato ripreso un po’ da tanti. gruppi rock storici, bella la versione dei Jethro Tull.

John Barleycorn John Barleycorn)
There were three men came out of the west, their fortunes for to try C’erano tre uomini che venivano da occidente, per tentare la fortuna
And these three men made a solemn vow e questi tre uomini fecero un solenne voto
John Barleycorn must die John Barleycorn deve morire
They’ve plowed, they’ve sown, they’ve harrowed him in loro avevano arato, avevano seminato, loro l’avevano ficcato nel terreno
Threw clods upon his head e avevano gettato zolle di terra sulla sua testa
And these three men made a solemn vow e questi tre uomini fecero un solenne voto
John Barleycorn was dead John Barleycorn era morto
They’ve let him lie for a very long time, ‘til the rains from heaven did fall lo lasciarono giacere per un tempo molto lungo, fino a che scese la pioggia dal cielo
And little Sir John sprung up his head and so amazed them all e il piccolo sir John tirò fuori la sua testa e lasciò tutti stupiti
They’ve let him stand ‘til Midsummer’s Day ‘til he looked both pale and wan loro l’avevano lasciato steso fino al giorno di mezza estate (2) e fino ad allora lui era sembrato pallido e smorto
And little Sir John’s grown a long long beard and so become a man e al piccolo sir John crebbe una lunga lunga barba e così divenne un uomo
They’ve hired men with their scythes so sharp to cut him off at the knee loro avevano assoldato uomini con falci veramente affilate per tagliargli via il collo
They’ve rolled him and tied him by the way, serving him most barbarously l’avevano avvolto e legato tutto attorno, trattandolo nel modo più brutale
They’ve hired men with their sharp pitchforks who’ve gripped him to the heart avevano assoldato uomini con i loro forconi affilati che l’avevano conficcato nella terra
And the loader he has served him worse than that e il caricatore lo trattò peggio di tutti
For he’s bound him to the cart perché lo legò al carro
They’ve wheeled him around and around a field ‘til they came onto a barn e andarono con il carro tutto intorno al campo finché arrivarono al granaio
And there they made a solemn oath on poor John Barleycorn e fecero un solenne giuramento sul povero John Barleycorn
They’ve hired men with their crabtree sticks to cut him skin from bone assoldarono uomini con bastoni uncinati per strappargli via la pelle dalle ossa
And the miller he has served him worse than that e il mugnaio lo trattò peggio di tutti
For he’s ground him between two stones perché lo pressò tra due pietre
And little Sir John and the nut brown bowl and his brandy in the glass e il piccolo sir John con la sua botte di noce e la sua acquavite nel bicchiere

28 GIUGNO 1980 TORINO BOB MARLEY e the Wailers : Un flash back nei ricordi di gioventù

 

BOB MARLEY & the Wailers 28 GIUGNO 1980 : Un flash back nei ricordi di gioventù

bob marley ticket

28 GIUGNO : il concerto del re del reggae è previsto per le ore 21:00 ma l’apertura dei cancelli è alle ore 15:00 sei ore prima, noi siamo li puntuali, sul prato calpestato dai grandi del calcio arriviamo a due passi dal palco, da qui non mi muovo nemmeno con le cannonate, che, peraltro, non tardano a farsi comparire…..di tutte le dimensioni e forme, cylum con foulard indiani, pipette, spini, cannoni di tutte le dimensioni, ho visto un cannone retto con due mani, il profumo penetrante e acre della Maria è nell’aria e ci avvolge. In quel frangente ho scoperto come possa, a volte, non essere dannoso il fumo passivo…… Si susseguono sul palco numerosi artisti, Roberto Ciotti bluesman milanese, Pino Daniele, la Average White band riempiono l’attesa che diventa sempre più febbrile, siamo un bel gruppo di amici, si ride, si chiacchiera, il tempo scorre, il sole tramonta e disegna nel cielo colori vivacissimi che ricordano la bandiera giamaicana, quasi a suggellare questa magia, siamo in attesa di un grande artista, un grande uomo capace di comunicare sentimenti, pace, e buone vibrazioni, capace di parlare ai popoli africani per proporre loro un riscatto comune, sono molto emozionato, finalmente è buio, quando sul palco salgono i Wailers, sistemano gli strumenti e  salgono in fila le coriste le I-Threes: Marcia Griffiths, Judy Mowatt e Rita Marley.abbigliate con colori molto sgargianti in perfetto stile africano, parte il ritmo sincopato in levare del reggae che ha stregato milioni di giovani occidentali, storie di strada, di povertà, di fede, d’amore raccontate da un grande profeta di pace. Dopo una intro  dei Waliers di 16 minuti, finalmente calca la  scena il mitico BOB, rigorosamente con pantaloni e camicia jeans e le sue inconfondibili dreadlocks (treccine rasta ) lavorate dalle mani e dalla saliva della fedelissima moglie Rita, anche lei nel coro. Attacca  con il primo brano,  “Marley Chant” e comincia la sua danza reggae fatta di saltelli un po’ accelerati al ritmo di Natural Mystic e poi  di Positive vibrations  è una grande ovazione quella delle 70 mila persone assiepate che fanno luce con cerini e accendini, è un bellissimo colpo d’occhio e  quasi non mi ero accorto che lo stadio è stracolmo e io sono sotto il palco a ballare, a cantare, con il mio inglese ridicolo, passi del testo imparato a memoria di cui conosco al massimo il senso delle strofe; ma che importa, la carica umana ed artistica del mio mitico Bob rompe qualsiasi steccato e qualsiasi inibizione, ti spara al cuore come spara metaforicamente allo sceriffo (I shot the sceriff ), ti aiuta a superare le tue paure e le tue debolezze ( Lively up yuorself ) ti incita alla lotta ( get up stand up ), una guida spirituale che mi fa venire in mente il saggio padre di famiglia che ti conduce tra le brutture del mondo, mostrandole, ma che ti da la speranza che un giorno se ne possa venire fuori. La grande Redenzione del popolo Rasta ( redemption song ), la sublimazione della ganja, l’erba sacra, il ritorno verso l’Etiopia di tutti i popoli africani per ritrovare il Messia ( Exodus ) reincarnato nel Negus Hailiè Selassiè, credo che sia una ricerca non solo del popolo Rasta ma di tutti noi. Questi sono i miei pensieri mentre sono affascinato dal ritmo e dalla voce nasale di Bob Marley che mi conduce in territori inconsueti e a me sconosciuti. Sono veramente appagato, il saluto e il ringraziamento di Bob mi colgono di sorpresa, non è possibile che questo incanto sia terminato, non basta il bis di “No woman,no cry”, e di “Positive vibrations” a sedare la mia eccitazione, avrei continuato ad ascoltarlo per tutta la notte nonostante la stanchezza, lui esce di scena ma continua il sottofondo reggae dei Wailers che per qualche minuto abbassano la tensione, anche queste accortezze fanno grande un artista, non si lascia all’improvviso il proprio pubblico ma se ne decomprime lo stato d’animo a poco a poco. Una giornata che mi ha lasciato un segno indelebile che, però, senza prenderci troppo sul serio, abbiamo concluso con una birra gelata per toglierci l’arsura di una notte incandescente in una Torino che per una notte si è colorata d’arcobaleno. One love! Robert Nesta Marley.

Scaletta:

I-Threes Intro: 01. Jam 02. Precious World 03. Slave Queen 04. Steppin´ Outta Babylon

Bob Marley & The Wailers: 01. Marley Chant 02. Natural Mystic 03. Positive Vibration 04. Revelation 05. I Shot The Sheriff 06. War / No More Trouble 07. Zimbabwe 08. Zion Train 09. No Woman No Cry 10. Jamming 11. Exodus 12. Redemption Song 13. Natty Dread 14. Work 15. Could You Be Loved 16. Is This Love 17. Roots, Rock, Reggae

Per l’ascolto dell’audio del concerto di Bob Marley fate partire dal minuto 16:00, prima intro solo con i Wailers e Coriste.   JANKADJSTRUMMER

bob marley 1

 

AMANTEA Agosto 2012 – CONCERTO Di ROY PACI e ARETUSKA per la notte Bianca scritta da Jankadjstrummer

roy paci

Agosto 2012  NOTTE BIANCA AD AMANTEA : CONCERTO Di ROY PACI & ARETUSKA

Il lungo terrazzo di casa Carino domina l’immensa  piazza Cappuccini, da qui  il colpo d’occhio è splendido, un mastodontico  palco occupato ai lati dagli strumenti classici del rock mentre al centro una consolle di DJ spara musica disco,  giù una marea umana occupa lo spazio antistante e l’intera strada fino a perdersi all’orizzonte, sono ad Amantea, alla consueta Notte Bianca estiva in attesa del concerto di Roy Paci & Aretuska, insieme a me, in terrazza, oltre ai padroni di casa e tanti amici di sempre, una masnada di giovani rampolli  scalmanati che stappano vino e si divertono ballando senza sosta…beata gioventù, reggerà la struttura della terrazza a queste sollecitazioni …mi chiedo; dal palco gli organizzatori parlano di 20 mila persone, prevalentemente giovani, nello stesso momento in cui  sale la band,  si serrano le fila, il pubblico si compatta, dall’alto è bello coglierne  l’entusiasmo. Parte la trascinante musica del trombettista siciliano che, già dalle prime note, riesce a coinvolgere il pubblico che gradisce ed apprezza il suo sarcasmo, la sua ironia ma in special modo il suo ritmo travolgente; Paci riesce a divertire, a far ballare, con entusiasmo, la piazza come pochi sanno fare nel panorama della musica italiana, suoni dirompenti intervallati da chiacchiere a ruota libera dissacranti e a volte anche esilaranti tanto per esorcizzare i gravi problemi che ci affliggono: l’economia, il razzismo, l’ambiente che ironicamente pensa di risolvere urlando alla folla festante “  Non c’è niente di meglio che un tuffo nel bellissimo mare calabrese “ ignorando o facendo finta di non sapere che la “ Goletta verde” ha consegnato alla Calabria una bella “bandiera nera”, ma si sa, gli artisti spesso cercano il consenso della platea e  Rosario (Roy) Paci da Augusta (SR ) classe 1969, dimostra che sul palco è un vero trascinatore, un animale capace di attirare un pubblico così eterogeneo e conquistarlo con la sua musica. Il “sicilianazzu “ come più volte si definisce dal palco, oltre ad essere un ottimo trombettista è anche compositore e arrangiatore, un figlio del popolo che viene dalla gavetta e che non si è mai montato la testa , ha sempre esplorato la musica in tutte le sue sfaccettature dal jazz d’avanguardia alla musica popolare del Brasile e alla cumbia uruguayana senza tralasciare i suoni di “Mama Africa”, un suono globale costruito in tanti anni di serio lavoro di sperimentazione che solo in questi ultimi anni è riuscito a dare i suoi frutti migliori. Certo Roy Paci deve molto alle eccellenti collaborazioni con i migliori  gruppi di patchanka i Macaco, i Mau Mau e  con lo stesso Manu Chao che gli ha affidato la tromba solista nell’album “ Proxima Station…Experanza” e nel tour che ne è seguito agli inizi del 2000. Ma veniamo al concerto che ha infiammato la piazza nepetina, ha sfoderato tutti i suoi maggiori successi proponendo i brani più conosciuti, utilizzati come sigla in tre edizioni  di Zelig, il programma di  Claudio Bisio: “ Toda Joia, toda belleza”, “ Viva la Vida” e ” defendemos la Alegria” ma proponendo un progetto che, probabilmente,  più  lo entusiasma e da cui è più influenzato in questo momento: il Folk della sua terra e in generale di tutto il sud Italia, cosi con la fierezza di siciliano esporta le sue tradizioni musicali: Ciuri Ciuri, Mezzogiorno di Fuoco, Malarazza diventano danze accelerate in cui si fondano il suo dialetto siciliano con quello pugliese- salentino di un rapper di cui “aimè non conosco il nome” peraltro molto bravo.  Roy Paci chiama a raccolta più volte il suo pubblico, lo incita, lo esalta, lo invita alla danza sfrenata, la folla, come in un rito catartico, lo segue cantando e battendo a tempo le mani, stregato da questo paffuto con baffetto e mosca da “uomo d’onore”  che non lesina incitazioni alla lotta contro tutte le mafie,  ai pregiudizi, alle ipocrisie di una società in declino ma sempre con l’allegro  ritmo dello ska e del raggae. Sono le 2:00 del mattino, c’è ancora spazio per un bis prolungato che culmina con due classici pescati nella tradizione, che ben rappresentano le due anime del concerto: la forte passione civile con la voglia di divertirsi e ballare. Due brani che hanno rappresentano l’apoteosi ,il punto più alto del concerto: l’inno partigiano “ Oh bella ciao” in versione speedy, cantata in coro  dal pubblico con le braccia tese, un segno di riscatto e di speranza per un mondo senza guerre e per la rinascita di una nuova società.  Poi  “ One step Beyond “  una hit degli anni ’60 ripresa dai Madness  e riproposta pedissequamente in versione originale  per rimarcare che lo Ska dopo tanti anni rappresenta  una delle più belle espressioni di  danza moderna. Una menzione particolare spetta alla band composta, prevalentemente, da giovani musicisti siciliani agguerriti, spiritosi e coinvolgenti. Il concerto è terminato con lunghi saluti e strette di mano alle prime file a suggellare la disponibilità e il forte legame che, per una notte, è riuscito ad instaurare con il suo pubblico, bisogna dare atto agli organizzatori che sia l’ anno scorso con il concerto di Dolcenera  che quest’anno con Roy Paci & Aretuska  hanno colpito nel segno regalando agli Amanteani e ai tanti turisti una bella notte di musica. Da parte mia, che dire, un bicchiere di vino fresco ed un brindisi, con rima baciata istantanea fatta per me da un giovane poeta che di cognome fa Aloe, sembrava dovesse essere l’ultimo atto di una notte Bianca nella mia Amantea, ma mi sbagliavo, mi aspettava  ancora una lunga passeggiata per tutta Via Margherita con il mio amico Pino P a parlare di musica ed arte, sorseggiando una pinta di birra fresca e addentando un panino con la mortadella tagliata con una affettatrice degli anni ’50 nel nuovo negozio di alimentari  di Mazzuca…. alle ore 4:00 come ai tempi del liceo.

JANKADJSTRUMMER

 

AMANTEA – DISCOTECA IL FAUNO 1972 – I RICORDI DI UN GIOVANE ROCKER AL CONCERTO DELLA  PREMIATA FORNERIA MARCONI scritto da Jankadjstrummer    

AMANTEA – DISCOTECA IL FAUNO – I RICORDI DI UN GIOVANE ROCKER AL CONCERTO DELLA  PREMIATA FORNERIA MARCONI

Agosto 1972 – Discoteca estiva “ IL FAUNO “ ad Amantea nell’allora perla del Tirreno approda la Premiata Forneria Marconi, gruppo rock semisconosciuto, all’epoca passava in radio a malapena la hit “ Impressioni di settembre “, io avevo comprato il 45 giri, sul retro un altro capolavoro “ La carrozza di Hans “. Un loro concerto aveva per me un fascino indescrivibile si trattava di organizzarsi, il prezzo del biglietto d’entrata era per me proibitivo inoltre c’era la distanza 6/7 km da percorrere o in bici o con l’autostop, gli unici mezzi di locomozione consentiti. Cosi mi feci coraggio e chiesi a mio cugino che faceva il vigile urbano di procurarmi un biglietto, lui si offrì di accompagnarmi e poi venirmi a riprendere con la sua “ Diane 6 tipo familiare “. Ero felice, eccitato, varcai la soglia della discoteca, considerato un sogno per i 15 enni dell’epoca, e mi trovai catapultato in un ambiente buio, spoglio, qualche albero d’ulivo qua e la, tavoli, una pista tonda non molto grande adornata con un pergolato, ricordo che il locale non mi fece una buona impressione forse perché era sempre stato idealizzato da noi ragazzi, un posto pieno di “bagnanti” con molte ragazze, potenziale occasione di conoscenze femminili, che faceva viaggiare la fantasia di noi adolescenti in piena crisi ormonale, il locale non era per niente affollato qualche centinaio di personale sedute su delle sedie di ferro e qualche sparuto nugolo di giovani in piedi ai lati del palco, tutto lontanissimo da tutto quello che avevo immaginato. Io mi posizionai quasi sotto il palco da un lato, finalmente dopo un paio d’ore di attesa e di accordo/ strumenti, salgono sul palco prima il batterista Franz Di Cioccio con in mano le bacchette, il chitarrista Franco Mussida, il tastierista Flavio Premoli e il bassista Giorgio “Fico” Piazza e violinista e flautista Mauro Pagani ed iniziano il concerto con brani tratti dal loro primo album, Storia di un minuto del 1972, considerato la quintessenza del progressive italiano, sia per contenuti che per la sua energia. I brani che propongono sono molto d’atmosfera, molto dilatati,  che non scaldano per niente il pubblico del        “ FAUNO” nonostante il suono sia validissimo, forse perché  l’improvvisazione e le lunghe suite prendono  il posto delle brevi canzoni beat che il pubblico era abituato ad ascoltare. I primi pezzi che propongono hanno una struttura classicheggiante, “Grazie Davvero”, in cui una dolce chitarra acustica traccia la melodia principale, accompagnata dal mellotron, che simula una orchestra di archi, tesse trame quasi oniriche;  passa nell’indifferenza del pubblico anche la sinfonia di “Dove.. quando”,che parte con un canto dolce accompagnato da una chitarra acustica ed un flauto, continua con l’organo di Premoli e il violino di Pagani, per poi scatenarsi in una elegantissima e classica esecuzione di pianoforte, segue lo stesso destino. Il pubblico non è per niente in delirio, molti assistono distrattamente al concerto, i camerieri indaffarati a servire da bere ai tavoli illuminati dalle luci psichedeliche del palco, il progressive rock della PFM molto originale venato da belle melodie e da influenze musicali squisitamente mediterranee comincia a dare calore al pubblico che si infiamma con “ E’ festa “ una sorta di tarantella rock molto corposa caratterizzata da bei riff di moog. Ora l’atmosfera è completamente diversa, parte “La carrozza di Hans” che, inizia come una semplice ballata ma che si scatena poi con un meraviglioso assolo di chitarra alla King Crimson e in una brillante improvvisazione jazz-prog con il violino di Pagani che tesse dolci melodie . Questo pezzo, scritto da Mussida durante un viaggio in camioncino tra Torino e Milano, vinse il Festival di Avanguardia e Nuove Tendenze di Viareggio nel 1971 ( da cui è tratto il video inserito).  Unico punto debole della band era il canto, che soffriva dell’assenza di un vero e proprio front-man capace di tenere il palco, sarà stato questo il motivo dello scarso coinvolgimento emotivo con il pubblico. Per finire “Impressioni di settembre” preceduta da un breve pezzo strumentale, caratterizzato da coretti su una base di chitarra acustica, prima, e da un riff di chitarra elettrica all’incalzare della batteria, poi la suggestiva ballad con un testo scritto da Mogol e svariati spunti progressive, marcati dall’impiego del moog, strumento introdotto per la prima volta in Italia poco tempo prima. Gli accordi semplici, suonati dalla chitarra acustica, delineano un’atmosfera delicata e coinvolgente, soprattutto nelle strofe; il ritornello, invece, è più infuocato, con l’aiuto del geniale arrangiamento del sintetizzatore. La poesia che traspare dalle parole di Mogol non fa che accentuare l’epica melodia del brano di Mussida e Pagani, che divenne presto uno dei loro cavalli di battaglia e un classico della musica italiana. Con questo brano, ripetuto poi con la sola musica, terminò il concerto, poco meno di un ora di musica e via con i saluti di rito. Da quella contrada di Coreca, sotto quelle montagnole di tufo, era passata una meteora  che mi ha lasciato spiazzato tanto da avermi lasciato un dubbio che mi porto ancora adesso: il contratto prevedeva una breve apparizione o il poco entusiasmo del pubblico ha ridimensionato la performance? Certo io comunque fui felice di aver ascoltato la musica che sarebbe stata la mia colonna sonora di quegli anni. Il tempo di comprarmi una aranciata e fui raggiunto da mio cugino. Durante il tragitto per tornare a casa mi chiese che tipo di musica facesse questo complesso perché  non li aveva mai sentiti nominare, timidamente gli risposi: “ rock” e lui prontamente mi rispose che a breve ci sarebbe stato, in un altro locale di Amantea, lo spettacolo di Minnie Minoprio,( avvenente soubrette dell’epoca) di farmi vedere che mi avrebbe fatto passare gratis, SIC!

jankadjstrummer

 

PFM 1PFM

THE CLASH Something about England – Con la Brexit sempre più soli! scritto da Jankadjstrummer

 

 

sandinista

THE CLASH – SOMETHING ABOUT ENGLAND 

Questo  non è sicuramente una hit  dei Clash ma  è un brano un pò insolito inserito nel loro capolavoro più maturo che è  “SANDINISTA” del 1980.

Di questo brano JOE STRUMMER disse:
“There are some stupid tracks, there are some brilliant tracks. The more I think about it, the happier I am that it is what it is.”

“Ci sono alcune tracce stupide, ci sono alcune tracce brillanti. Più ci penso, più sono felice che sia quello che è ”.

Il brano venne composto come al solito da Joe Strummer e Mick Jones, e  cantato in coppia,  Mick Jones al piano, Topper Headon alla batteria, ed è  cantato come una sorta  di botta e risposta da Strummer e Jones  e arricchito da una sezione fiati in grande stile Gary Barnacle ( poi utilizzato da David Bowie, Elvis Costello e Jamoroquai ), suo padre Bill  e David Yates,  un brano che non mi risulta sia stato mai suonato dal vivo.

Un brano intenso e non minimale  perché ricco di suoni e sfumature che lo rendono avvolgente, si regge su  una immaginaria conversazione tra Mick Jones e un vecchio avvolto in un soprabito sporco (Joe Strummer) che racconta la storia dell’Inghilterra dalla prima guerra mondiale al 1980 dal punto di vista dei perdenti di ogni epoca,  un racconto  impietoso in cui prevalgono  le ingiustizie, le storture e le disgrazie. Un testo politico, lucido, lirico  che si conclude con una frase che calza benissimo con quello che sta succedendo in Inghilterra in questo periodo, a dimostrazione che gli errori quasi sempre si ripetono inesorabili ” An’ old England was all alone ( e la vecchia Inghilterra rimase sola) come ora del resto sta succedendo con la Brexit.

 

QUALCOSA SULL’INGHILTERRA

Dicono che gli immigrati rubano le borchie
alle macchine dei rispettati gentiluomini
Dicono che sarebbero rose e fiori
se l’Inghilterra fosse di nuovo degli inglesi

Beh ho visto un soprabito sudicio
ai piedi del pilastro della strada
c’era appoggiato un vecchio
di quelli che il tempo non logora
Mentre la notte era lacerata dalle sirene
I lampeggianti blu giravano veloci
Dalla discoteca una chiamata a un’ambulanza
I bar chiusero tutti in fretta

Il mio silenzio fissava il soffitto
vagando per la stanza singola
Pensai che il vecchio mi avrebbe potuto aiutare
spiegandomi la sua malinconia
“Credi davvero che sia una novità?
Ci credi davvero?”
mi schernì il vecchio
“ti dirò un paio di cose.”

“Mi sono perso la guerra del 14-18
ma non il dolore che ne è seguito
Mio padre morto, mia madre fuggita via
i miei fratelli presero una brutta strada
Gli anni 20 passarono, il nord era stremato
lo sciopero della fame marciò verso sud
Non se ne fece parola al ricevimento in giardino
Le signore si portavano la torta alla bocca
v Cominciò l’altra guerra e la mia nave partì
con ordini di battaglia scritti in rosso
Nei cinque lunghi anni di pallottole e granate
Abbiamo lasciato dieci milioni di morti
I pochi superstiti tornarono alla vecchia Picadilly
noi ciondolavamo zoppicando intorno a Leicester Square
Il mondo era occupato a ricostruire
E gli architetti se ne fregavano

Ma come potevamo sapere quando ero giovane
tutti i cambiamenti che ci aspettavano?
Tutte le foto nei portafogli sui campi di battaglia
E adesso il terrore del sole scientifico
C’erano padroni e servi, e servi e cani
Vi hanno insegnato a fare il saluto militare
Ma tra scioperi e carestie e guerra e pace
L’Inghilterra non ha mai colmato quel divario

Allora lasciami adesso, la luna è alta nel cielo
Ma ricorda le storie che ti racconto
I ricordi che hai rivangato
Sono su lettere inoltrate dall’inferno.”
Le strade erano ormai deserte
Le gang si trascinavano verso casa
Le luci si spensero nelle camere
E la vecchia Inghilterra rimase sola.

They say immigrants steal the hubcaps
Of the respected gentlemen
They say it would be wine an’ roses
If England were for Englishmen again

Well I saw a dirty overcoat
At the foot of the pillar of the road
Propped inside was an old man
Whom time would not erode
When the night was snapped by sirens
Those blue lights circled fast
The dancehall called for an’ ambulance
The bars all closed up fast

My silence gazing at the ceiling
While roaming the single room
I thought the old man could help me
If he could explain the gloom
You really think it’s all new
You really think about it too
The old man scoffed as he spoke to me
I’ll tell you a thing or two

I missed the fourteen-eighteen war
But not the sorrow afterwards
With my father dead and my mother ran off
My brothers took the pay of hoods
The twenties turned the north was dead
The hunger strike came marching south
At the garden party not a word was said
The ladies lifted cake to their mouths

The next war began and my ship sailed
With battle orders writ in red
In five long years of bullets and shells
We left ten million dead
The few returned to old Piccadily
We limped around Leicester Square
The world was busy rebuilding itself
The architects could not care
v But how could we know when I was young
All the changes that were to come?
All the photos in the wallets on the battlefield
And now the terror of the scientific sun
There was masters an’ servants an’ servants an’ dogs
They taught you how to touch your cap
But through strikes an’ famine an’ war an’ peace
England never closed this gap

So leave me now the moon is up
But remember all the tales I tell
The memories that you have dredged up
Are on letters forwarded from hell
The streets were by now deserted
The gangs had trudged off home
The lights clicked off in the bedsits
An’ old England was all alone

 

 

10 giugno 2012 Bruce Springsteen a Firenze ferma la pioggia Scritto da JANKADJSTRUMMER“

10 giugno 2012 Bruce Springsteen a Firenze ferma la pioggia

Ripenso a distanza di qualche anno al concerto di Firenze e ho davanti agli occhi la nitidissima immagine del Boss su quella passerella che dal palco lo porta in mezzo alla folla dei fans, a braccia aperte verso il cielo, che urla “come on” alla pioggia che incessante si scarica su di lui e sul suo pubblico. L’indomabile Bruce ha condiviso la pioggia insieme ai 44 mila accorsi allo Stadio Franchi per vederlo, saltando su e giù dal palco, correndo avanti e indietro per sentire il contatto con loro, quello vero, dispensando sorrisi, scherzando con tutti, ricevendo regali dalle prime file, cartelli e richieste di brani, tutto in maniera tranquilla e senza la necessità di interventi della security. Dalla mia postazione in tribuna riuscivo a vedere tutto quello che succedeva sotto il palco e vi assicuro che ho visto una sua autentica partecipazione, un entusiasmo impressionante nel riuscire a coinvolgere ma più di ogni altra cosa a concedersi completamente al suo pubblico; Springsteen in ogni suo gesto sprigiona passione e amore, trascina e si lascia trascinare dall’affetto e dalla gioia che sente intorno a lui. Certo la pioggia poteva rovinare una festa della musica ma questo non è avvenuto anzi è stato l’elemento che ha reso l’avvenimento epico, ha caricato di magia una fantastica notte di follia. Ma veniamo alla cronaca della serata che non lasciava presagire una simile evoluzione, arrivo allo Stadio intorno alle 19:00 in compagnia della mia amica Nuccia con cui non vedo un concerto dai tempi della new wave, i CURE al Palasport se non ricordo male, siamo pieni di entusiasmo, una birretta, qualche crackers e continui messaggini di amici sparsi per lo stadio. Parte finalmente la musica di “c’era una volta il West” di Ennio Morricone che è la intro di questo Wrecking Ball Tour, i musicisti, vestiti rigorosamente di nero, salgono in fila indiana sul palco accompagnati dai battiti di mano del pubblico fino ad una vera e propria ovazione all’entrata in scena di Bruce con la chitarra imbracciata che, con un italiano stentato, saluta il suo pubblico e parte con un one- two mozzafiato : “Badlands” poi “No Surrender”: due classici; Con la mia solerzia avevo provveduto a stampare la scaletta del concerto di Milano ma capisco immediatamente che non sarà la stessa, nel frattempo i tre megaschermi affidati ad una regia impeccabile passano, sullo sfondo, bellissime inquadrature dello stadio con le colline e il cielo scuro carico di nuvole; dai coni di luce sul palco si cominciano ad intravedere leggere gocce di pioggia ma sembra non importare a nessuno. Partono due brani del suo ultimo lavoro, Springsteen da vero mattatore, spalle al pubblico, dirige la sua E street Band salvo poi correre sulla passerella a sentire il calore dei fans contagiati dalla sua grinta e dalla sua energia. E’ chiaro che è impossibile stare seduti, bisogna assolutamente muoversi, ballare, cantare in coro con lui, partecipare attivamente alla festa.

La pioggia continua a cadere leggera ma incessante, i brani scorrono uno dietro l’altro senza pause, l’intesa con i musicisti è profonda, gli sguardi, i richiami evidenziano un legame fraterno che rende la musica calda e forse anche un po’ magica, la voce graffiante e potente fende la scura notte fiorentina, a questo punto viene fuori l’anima nera di Bruce con Spirit in the Night con E-Street Shuffle, con «Shackled and Drawn e poi con il bellissimo gospel di «My City of Ruins» di Curtis Mayfield, su questo brano presenta la band come la sua famiglia compresi Clarence Clemmons e Danny Federici volati in cielo, una sezione fiati e 3 vocalist reclutati per questo tour e visto che la moglie non c’è, chiede: <Dov’è Patti? Sarà a casa con i figli! >. Ma non manca di certo il rock quando in scaletta pesca dal passato “ Born in the Usa” , “Born to Run”, “Dancing in the Dark”, come pesca dal passato quando intona ben 5 o 6 cover “burning love “di Elvis Presley, Trapped di Jimmy Cliff , “Honky tonk women” dei Rolling Stones, la grandezza del Boss sta anche in questo, rendere umilmente omaggio ai grandi nomi che hanno fatto la storia del rock. Non mancano le ballate, la poesia sofferta di “the river” di “ the rising” brani coinvolgenti e suggestivi tanto da far dimenticare che la pioggia è diventata più insistente e martellante. Bruce aggredisce la vita con la sua musica che, a volte, diventa sofferta e disperata e a volte, invece, fa vibrare il cuore e l‘anima ma senza nessuna voglia di arrendersi ai drammi e alla sofferenza ma che trova nella sua passione la forza del riscatto.

I tempi sono stati molto duri – afferma- quando introduce la toccante “Jack of All Trades” in cui racconta di un disperato che non riesce a trovare lavoro nonostante avesse la capacità di fare tanti mestieri,la gente -afferma – ha perso il lavoro e la casa. So che anche qui è stato durissimo e anche il terremoto ha contribuito alla tragedia, questa è una canzone per tutti quelli che stanno lottando”.

E’ la terza volta che “partecipo” ad un concerto del Boss e ogni volta rimango affascinato dall’energia che riesce a sprigionare, la sua musica, la sua personalità ha un potere fortissimo, quello di emozionare, di commuovere ma anche di trasmettere gioia e benessere lui è tutto questo, è la vera essenza del rock, l’unione magica tra musica e pubblico, non credo ci siano altri musicisti capaci di creare una simile sinergia e mi convinco sempre di più che il rock è vivo e Bruce lo incarna non facendosi per niente intimorire dal diluvio che cade impetuoso sullo Stadio Franchi di Firenze anzi domandolo e facendosi accarezzare da quelle gocce fredde d’acqua e stringendo col suo pubblico un legame unico, in chiusura, con una interminabile e travolgente Twist and Shout dei Beatles e “ Who’ll stop the rain” dei Creedence Clearwater Revival.

Arrivederci a presto grande Boss.

JANKADJSTRUMMER“

 

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RIASCOLTATI PER VOI : FRANKIE HI NGR – Verba manent – 1993 da Jankadjstrummer

 

RIASCOLTATI PER VOI : FRANKIE NI NGR – Verba manent – 1993
1.Intro
2.Faccio la mia cosa
3.Storia di molti
4.Combatto la tua idea
5.Etna
6.Disconnetti il potere
7.Omaggio, tributo, riconoscimento
8.Calma… calma…
9.Il bianco e il nero
10.Libri di sangue (versione album)
11.Pace e guerra
12.Potere alla parola
13.Fight da faida
14.Libri di sangue (radio mix)
15.Potere alla parola (release 2.1)
16.Esco
Son passati esattamente 26 anni dall’uscita di Verba manent, primo disco di Frankie NI NRG che, all’epoca, ricordo di aver ascoltato tanto e quando un amico mi ha parlato di un brano che lo aveva colpito per le tematiche trattate “ libri di sangue “, contenuto nel disco, sono stato spinto da un
desiderio irrefrenabile di riascoltare il disco che avevo registrato in “cassetta”. Partiamo dal titolo Verba Manent, una parafrasi di quel detto latino “Verba volant, scripta manent” che sta per
“le parole volano, ciò che è scritto rimane”. Qui in un gioco di parole si parla di “Verba manent”ovvero “le parole che rimangono”, nell’Intro del disco, Frankie ne spiega il motivo, dice che l’album si presenta come documento e non come disco musicale. Quando parte il primo pezzo ho una sensazione di compiere un viaggio carico di insidie in cui Frankie, senza peli sulla lingua, mi scuote, mi fa riflettere e lo fa estrema naturalezza. Francesco Di Gesù, questo è il suo vero nome, usa per esprimersi il rap che affonda le sue radici
nella cultura orale dei neri americani che diventa sia gioco musicale, blues, gospel ma anchestrumento di protesta sociale e politica. Lui riesce ad esprimere con le parole tutto ciò che ha in mente, usa metafore, figure retoriche molto incisive e non esita a dire quello che pensa. In Verba
Manent i suoi messaggi arrivano dopo aver assimilato bene ciò che descrive perchè avere la capacità di usare metafore cariche di autoironia di ogni genere e costruire rime assolute e perfette
per descrivere sempre in maniera totale il suo singolo messaggio non sempre risulta immediato, bisogna tornarci su, assaporare con calma il suo stile, per Frankie non esiste nessuna altra via che il rap per portare coraggio e voglia di cambiare alla moltitudine di giovani che lo seguono. Dicevo del
coraggio che per me è uno dei temi portanti del disco, coraggio che non riesce a venire fuori perchè bloccato da un grosso macigno che è la paura, quella che assale un po’ tutti, che limita i nostri movimenti, che non ci fa sfruttare le nostre potenzialità e che viene pure controllata da chi possiede
il potere in un pugno (Potere Alla Parola). Le tracce trattano temi che all’epoca erano pressappoco conosciuti (siamo nel 1993)e che denotano una capacità di leggere il mondo che cambia, temi come l’immigrazione clandestina obbligata da parte di chi è costretto a lasciare la propria terra per continuare a rincorrere i propri sogni; omaggi, tributi e riconoscimenti a persone a lui vicine che cancellano il sentimento d’invidia, dato che esso appartiene ad un universo troppo assurdo per essere reale, e troppo reale per essere vissuto. (STOP ALL’INVIDIA). Si parla di mafia in
“Fight da faida”, col tempo diventato uno dei cavalli di battaglia di Frankie, è una cruda quanto reale denuncia verso il sistema corrotto mosso come una qualsiasi marionetta dalla piovra mafiosa e camorristica: “è la vigilia di una rivoluzione/ alla voce del Padrino, ma don Vito Corleone oggi è
molto più vicino/ sta seduto in Parlamento! ”, il tutto accompagnato dal particolarissimo suono dello scacciapensieri. La cosa che si apprezza molto in questo lavoro è l’uso dello skit molto utilizzato dagli artisti hip-hop che consiste nel riportare all’inizio o alla fine del brano discorsi celebri fatti da
noti uomini del passato, come in “Calma… Calma…” supportata da una base musicale molto bella e da una testo che sembra scritto oggi:
“A tutti quelli che vedono nella divisione una possibile soluzione a tutti i problemi e in particolare a quelli che mascherano i propri interessi personali dietro quelli “comuni”. Indipendentemente dal fatto che siedano in Parlamento per volontà di un elettorato o semplicemente perché qualcuno più in alto di loro gli ha dato un gran calcio in culo…”.
Ma il brano del disco che fa salire l’adrenalina è Libri di sangue:
Il sound del brano è molto sobrio ed è coadiuvato dal preciso per quanto a tratti semplicistico lavoro di Dj Stile ma il testo è un pugno
nello stomaco, violento nelle sue invettive ma ha un grande pregio quello di far provare delle sensazioni “che danno da pensare” che servono come stimolo per una riflessione sulla idiozia umana che genera ogni tipo di guerra, ancora non siamo certi se si tratta del peggior istinto umano o peggio il frutto di una logica razionale ma fatto sta che in ogni angolo del modo si combatte, si muore , la canzone è preceduta da “Il bianco e nero”, che contiene un discorso contro il razzismo del presidente Sandro Pertini, e su questo concetto che si muove Frankie sviscerando l’ennesimo tema scottante in bilico tra lo sfruttamento delle donne e il razzismo, in Libri di sangue c’è anche una citazione su Rodney King,il tassista afroamericano passato alle cronache del 1991 per essere stato pestato da alcuni agenti di polizia dopo essere stato fermato per eccesso di velocità, “colpevole del crimine di esser nato nero nella buia capitale dell’impero del denaro.”
Nel brano si spazia in maniera versatile su numerosi argomenti denotando l’alto grado culturale di Frankie,tirando in ballo, la Zulu Nation (l’organizzazione dei rappers che professa l’uguaglianza tra gli
uomini, il rispetto per la madre terra, la giustizia universale, la condanna del razzismo e dell’ odio), ma anche il disprezzo per i potenti, la giustizia e tanti altri argomenti sintetizzati in modo preciso in una singolo brano.
L’album è da considerare assolutamente una pietra miliare del genere, sia perché in Italia ancora oggi è difficile trovare album di una certa caratura, con testi tanto sofisticati ma allo stesso tempo concisi. Nel lavoro di Frankie non c’è spazio per le storielle che parlano di sparatorie tra gangster,
donne facili e collane d’oro ma solo per il ritratto di una società vista sull’orlo di un inevitabile collasso, ma che può salvarsi solo con la forza dell’informazione e della parola Il disco si conclude con una frase
“mi sembra d’aver capito che tra dieci secondi avremo il silenzio”
quasi a volerci dire che il viaggio è terminato ma questo per me non è stato un viaggio dievasione ma una riflessione sulle nostre pene e sulle nostre paure.
Jankadjstrummer
Libri di sangue
C’è chi la chiama intolleranza quest’ombra che avanza, che incalza, che aumenta di potenza: figlia di arroganza e di ignoranza, ragione di vita di chi ha perso la coscienza e crede ciecamente nella supremazia di una razza sulle altre: no, non è la mia questa visione della vita,
e la partita non è vinta finché non è finita ed io l’ho appena cominciata.
Una manciata di dadi è stata tirata e la valanga di facce numerate non si è ancora fermata, non si ha il risultato: ci han provato a stabilirlo a priori chi è dentro e chi è fuori, chi è uno e chi è zero, chi è bianco e chi è nero.
Ma questa è l’opinione di una parte, non è la più importante,
è solo quella del più forte e non abbiamo scampo di fronte alla morte.
Far come il gatto e il topo non è lo scopo di questo gioco di ruolo
guidato da un master senza scrupoli, l’odio fra i popoli, i forti sui deboli;
che sono abili a crearsi alibi indimostrabili, che accampano ragioni futili ma incontestabili, che negano tutti i diritti ai propri simili
in nome di una giustizia propria degli uomini soltanto nella forma, non negli intenti: sei grosso? Ti rispetto se no calci sui denti.
Diversi nell’aspetto siamo scritti in mille lingue… ma siam libri di sangue… tutti libri di sangue…
Siamo libri di sangue, volumi di storia futura, diversa cultura ma identica natura: è inutile negarlo, questi sono i fatti, il prologo e l’epilogo uguali per tutti: farabutti, politici corrotti, uomini dotti, mafiosi, poliziotti;
non c’è spazio per nessuna distinzione, siam tutti membri di una stessa nazione ZULU.
E quando un uomo è nudo è nudo e nessuno può dire se quest’uomo sia buono o cattivo, figurati se importa poi come si vesta: una bestia in divisa resta una bestia, chiamata a tutelare i diritti di chi?
È successo a brother Rodney King, colpevole del crimine di esser nato nero nella buia capitale dell’impero del denaro.
Colpo su colpo, battuto come un polpo, legato, incaprettato e trascinato per lo scalpo documentato,
l’hanno filmato, pagine d’odio scritte sul selciato,
vergate col sangue di un uomo innocente, impotente,
che con quei bastardi no c’entrava niente,
ma cara gente quotidianamente, succede anche in Italia,
ma non si sente.
Lentamente, inesorabilmente la sabbia del tempo ricopre la mente.
Ogni giorno d’ogni mese d’ogni anno
in tutto il mondo la violenza comanda le azioni di uomini e nazioni:
sesso, razza, religioni,
non mancano occasioni per odiare,
ma dobbiamo ricordare che siamo libri di sangue.. tutti libri di sangue…
Pagine e pagine e pagine di sentimenti, emozioni, decisioni, ripensamenti:
fitte pagine scritte, anime trafitte dal dolore di vedersi diversi, 
costretti a inscenare una farsa perversa in questo universo
di sole comparse percorso dall’odio
o fingi o sei perso!
No, mi rifiuto di accettare questa logica contorta di chi non vuole amare
ma vuole giudicare dalla copertina una persona:
seduti in poltrona
individui come questi governano il mondo
e lo sfondo si riempie di morte e sconforto,
il rapporto s’incrina: inevitabilmente discendiamola china.
Già lunga è la lista di ottusi soprusi ma più passa il tempo più crescon gli abusi su
donne umiliate dai capi d’azienda sei “brava” c’hai il posto,
se no alzi le tende!
Su uomini nati lontano, troppo a sud per tendergli la mano:
carcasse fumanti sui campi di sole,
migliaia di gole gonfie di parole di dolore,
spine nel cuore di quelli che vedon marcire i propri fratelli,
popoli usati come merce di scambio:
mi oppongo. A patti non scendo con questa realtà
e non mi va… e non mi va… e non mi va che “patibolo” sia il titolo del nuovo capitolo che stiamo
per scrivere:
forza, capitelo!
Usiamo più il cuore e un po’ meno le spranghe,
perché siam libri di sangue…

 

FIGHT DA FAIDA
Padre contro figlio / fratello su fratello / partoriti in un avello /come carne da macello / uomini con anime /sottili come lamine /taglienti come il crimine /rabbiosi oltre ogni limite /eroi senza una terra
che combattono una guerra /tra la mafia e la camorra /Sodoma e Gomorra /Napoli e Palermo succursali dell’inferno /divorate dall’interno / in eterno /da un tessuto tumorale /di natura criminale e mentre il mondo sta a guardare /muto senza intervenire . Basta alla guerra fra famiglie fomentata
dalle voglie /di una moglie colle doglie /che oggi dà la vita ai figli /e domani gliela toglie rami spogli dalle foglie /che lei taglia come paglia /e nessuno se la piglia: è la vigilia , di una rivoluzione /alla voce del Padrino /ma don Vito Corleone /oggi è molto più vicino: sta seduto in Parlamento. E’il momento /di sferrare un’offensiva /terminale decisiva /radicale distruttiva oggi uniti
più di prima alle cosche /fosche attitudini losche /mantenute dalle tasse /alimentate dalle tasche: basta una busta /nella tasca giusta /in quest’Italia così laida /you gotta fight da faida! you gotta fight
da faida! you gotta fight da faida! you gotta fight da faida! Sud non ti fare castrare /dal potere criminale /che ti vuole fermare: guastagli la festa /abbassagli la cresta /guarda la sua testa /rotolare nella cesta . Libera la mente da ogni assurdo pregiudizio: è l’inizio della fine del supplizio che da
secoli ti domina /ti ingoia e ti rivomita /potere di quei demoni che noi chiamiamo uomini /che uccidono altri uomini /che sfruttano noi giovani /che tagliano le ali agli angeli più deboli /Potere che soggioga /potere della droga /potere di uno Stato /che di tutto se ne frega: strage di Bologna Ustica
Gladio /cumuli di scheletri ammassati in un armadio Odio il tuo seme germoglia nella terra /fecondato dal sangue della guerra e la camorra indomita ricca e strafottente /continua ad uccidere la
gente /Tombe ecatombe /esplosioni di bombe /raffiche di mitra falcidia di bande /Cosenza Potenza /carne morta in partenza /consacrata alla violenza /senza opporre resistenza Alpi Salento /un solo movimento: pugni sul sistema /pretendiamo un cambiamento; ridateci la terra /basta con la
guerra. Dalla strada l’intifada you gotta fight da faida! you gotta fight da faida! you gotta fight da
faida! you gotta fight da faida!
Tri tri tri setti fimmini e un tarì u’ tarì ch’è pocu pocu setti fimmini e
u’baccocu /u’ baccocu è duci duci /setti fimmini e la nuci e la nuci è dura dura setti fimmini e la
mula e la mula avi li denti /setti fimmini e u’ serpenti e u’ serpenti è avvilinatu setti fimmini e u’
granato e u’ granato è a coccia /a coccia setti fimmini e la boccia e la boccia è sciddicusa setti
fimmini e la busa e la busa è fina fina /setti fimmini e l’antrina e l’antrina ecca acqua setti fimmini e
la vacca e la vacca avi li corna setti fimmini e la donna /e la donna scinni i’ scali /setti fimmini e u’
rrinali e u’ rrinali è tunnu tunnu /setti fimmini e lu munnu e lu munnu è tri tri tri setti fimmini e un
tarì / you gotta fight da faida!
you gotta fight da faida! you gotta fight da faida! you gotta
fight…fight…fight…

LA PREMIATA DITTA BRUNORI SaS – Recensione dei primi 3 album da Jankadjstrummer

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BRUNORI SAS   VOLUME 1

Dario Brunori, cantautore, imprenditore mancato, ha costituito una società, la “ Brunori Sas” ed è con questa ragione sociale che ha pubblicato il suo primo disco “ Vol. 1”, con cui ha incassato l’ambito Premio Ciampi  2009 come miglior disco d’esordio.  Questo giovane cantautore calabrese colpisce per la sua semplicità, per le sue canzoni pop, cantabili da tutti oltre che per la  ricerca musicale fatta con spontaneità e sincerità. Lui si definisce ”un  neo-urlatore italiano”, con questo lavoro esorcizza le paure e i drammi legati ad una precarietà lavorativa ormai irreversibile che tocca i 30enni di oggi  “E’ il mutuo il pensiero peggiore del mondo. Tasso fisso, con l’euribor c’è chi sta impazzendo da un anno. Cosa vuoi che scriva? Di cosa vuoi che canti?” (“Come Stai”). Si sprecano le citazioni riguardanti il vissuto e la quotidianità della nostra Italia degli anni ’80 e ’90  trattata con molta ironia, palloni arancioni “super Santos” sulla spiaggia,  la Fenech, Novella 2000 tutta una carrellata di personaggi che hanno fatto la storia italiana, canzoni popolari in cui lo spirito di Rino Gaetano rivive. Ottimo il brano “Guardia 82”, uno spaccato della provincia calabrese dove i ricordi estivi sono legati ai primi amori e alle inquietudini giovanili, i rimpianti di una spensieratezza adolescenziale ormai svanita.   Molto carina la stralunata e qualunquista “ Paolo” che richiama alla memoria in grande Ivan Graziani, “Nanà” pezzo in cui se la prende con la retorica degli artisti mediocri e  “stella d’argento” una cover degli anni ‘60 cantata, se non ricordo male, da Fred Buongusto qui riproposta molto melodica ed originale che starebbe bene intonata in compagnia e con un bel bicchierone di vino fresco, intorno ad un falò sulla spiaggia di Guardia Piemontese. La grandezza di Brunori sta nel fare proprie le esperienze dei cantautori italiani  e rileggerli con un suo stile se vogliamo canzonatorio, graffiante ma anche diretto ed essenziale. Sono delle coloratissime foto “Polaroid” che colgono le nostre inquietudini e la nostra pura quotidianità. Musicalmente Vol. 1 si presenta come un lavoro cantautorale, chitarra, voce e minimo accompagnamento fatto di lievi incursioni di fiati, l’essenziale che rende il cantato anzi l’urlato pungente ed impertinente, impertinenza che viene richiamata anche nella copertina del disco che ritrae un adolescente in canottiera anni ‘70 che  fa la faccia buffa all’obiettivo, quasi una foto autobiografica. Dario Brunori è senz’altro un artista da seguire con attenzione perché sono sicuro che presto avrà il successo che si merita.

  1. Il pugile
  2. Italian dandy
  3. Nanà
  4. Paolo
  5. Come stai
  6. Guardia ’82
  7. L’imprenditore
  8. Di così
  9. Stella d’argento

BRUNORI  SaS  VOL. 2°   “ POVERI CRISTI”

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TRACKLIST

  1. Il giovane Mario
    2. Lei, lui, Firenze
    3. Rosa
    4. Una domenica notte
    5. Il suo sorriso (con Dente)
    6. La mosca
    7. Bruno mio dove sei
    8. Animal colletti (con Dimartino)
    9. Tre capelli sul comò
    10. Fra milioni di stelle

Aspettavo il disco che confermasse il valore della premiata Ditta Brunori Sas, dopo 2 anni, finalmente, è arrivato, il 17 giugno 2011 uscirà il secondo Volume dell’irriverente cantautore calabrese. Ho avuto, in anteprima, il disco ed è sorprendente constatare la sua crescita e la sua maturità raggiunta, Dario con questo lavoro si lascia tentare dalla tradizione del cantautorato italiano vedi De Andrè di Storia di un impiegato o il Guccini di Stanze di vita quotidiana per proporre una sorta di concept album sui “poveri cristi” nostrani. Dieci storie di tutti i giorni che scavano nelle vicende semplici ma al tempo stesso tragiche di personaggi che fanno i conti con i problemi quotidiani e con le piccole e grandi vicende umane che li attanagliano. La leggerezza con cui tratta questi temi è la chiave di volta di tutto l’album, i drammi umani raccontati si trasformano spesso in paradossali tragicomiche come nel brano” Il giovane Mario” che sogna di risolvere i problemi economici familiari con le slot-machine, sente il peso di una vita di stenti e la sua sconfitta umana diventa malessere interiore, tragedia, cerca di farla finita legandosi al lampadario con un cappio al collo, senza tener conto, però, della  fragilità del solaio; questo è un esempio dei 10  poveri cristi che affollano questo lavoro del Brunori, storie semplici vissute da persone semplici e trattate con profonda ironia. Storie di normale quotidianità, in cui si fondono sentimenti contrapposti leggiadria e crudezza nei racconti o la rabbia e i buoni sentimenti dei personaggi.  Le canzoni di Brunori sfiorano sempre il grottesco ma sono densi di malinconia,  commuovono ma con il sorriso sulle labbra, in questo, come ebbi a dire nella recensione del 1° volume, trovo il suo punto di riferimento, il suo nume tutelare, nella poetica di Rino Gaetano. In brani come Rosa o Tre capelli sul comò risulta evidente il richiamo alle sonorità e al modo di approccio lirico tipico del cantautore crotonese tuttavia questo non mi sembra per niente un limite anzi ritengo che sia un elemento caratterizzante di una ritrovata vena nel panorama dei nuovi cantautori che la dice lunga sulla rinascita della poesia italiana. In poveri cristi si urlano le debolezze, le gioie ma anche la voglia di vivere, la rabbia, l’indignazione delle persone comuni a cui Brunori riesce a dar voce. Vi segnalo una dolce e commovente “ Bruno dove sei” dedicata al suo padre morto in cui emergono i valori della famiglia e del rispetto ma senza nessuna retorica, e “Il suo sorriso”, in duetto con Dente, brano carico di ironia, un tentativo ben riuscito di fare una canzone pop fuori dai clichè tipici della canzone italiana. Questo Vol 2° mette un po’ a nudo i sentimenti personali, non c’è più tempo per la nostalgia dell’estate passata al mare di Guardia Piemontese o per i primi impulsi amorosi adolescenziali, è il tempo di far emergere le contraddizioni di una società instabile partendo dalle persone comuni, dalle storie personali non rinunciando mai agli insegnamenti dei grandi cantautori italiani.

Un disco che consiglio con forza! Buon ascolto da Jankadjstrummer

 

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BRUNORI SaS  – vol. 3° – Il cammino di Santiago in taxi “…. passando da Belmonte Calabro.

E’ uscito da qualche giorno il terzo capitolo o volume del cantautore calabrese “il cammino di Santiago in taxi“, sono già al 4° ascolto e sto scoprendo che ci sono molte novità rispetto ai suoi primi due album, non fosse altro che per la purezza del suono che Dario Brunori ha affidato  al tecnico giapponese  Taketo Gohara considerato ormai il deus ex machina del sound alternativo e alla location scelta per registrare il disco: un ex convento seicentesco di frati Cappuccini a Belmonte Calabro, una scelta – afferma il cantautore- capace di rompere la routine di una classica sala di registrazione ma che dà a  lui e la sua band stimoli nuovi che solo  la tranquilla campagna calabrese è capace di offrire.  Altro elemento caratterizzante  di queste undici tracce scelte è quel duplice risultato di scrivere testi e musica di ispirazione cantautorale ma nello stesso tempo adattarlo ad una band come la sua già ben rodata e con l’aggiunta di strumenti nuovi ( batteria elettronica ,basso, tastiere), un buon supergruppo che ha acquistato sempre più quote nella sua società in accomandita semplice.  Anche l’approccio alle canzoni è cambiato, non più ballate accompagnate con la chitarra acustica ma l’utilizzo del piano che, per certi versi, addolcisce e rende più intimo il suono. I testi sono sempre pieni di semplicità e forse di un pizzico di ingenuità anche quando con fervida ironia scava nella quotidianità delle famiglie o nella deriva della società italiana. Non si tratta di un disco di rottura perché c’è molto del Brunori del passato: la malinconia, le storie, la religione, le abitudini ma anche la nostalgia del falò sulla spiaggia o della gita scolastica in pulman, ma  in questo vol.3° si ritrova una forte dimensione interiore dell’artista preso com’è dalle sue paure e dalle angosce comuni a tutta una generazione di disillusi sempre in conflitto tra impegno  e voglia di evasione. In questo, secondo me, sta l’essenza nel cammino di Santiago in taxi, la voglia di lottare, soffrire di raggiungere la meta agognata ma con comodità senza quella esigenza frenetica che sono lo stereotipo delle nuove generazioni. I brani sono molto belli ma richiedono un ascolto continuo e più concentrazione perché sono un caledeoscopio di storie diverse, citazioni, immagini cinematografiche che si assaporano solo con un po’ di decantazione. Siamo in presenza di un Brunori molto maturo e cresciuto artisticamente a cui va perdonata la mancanza di quella sana rabbia che è patrimonio della gente del sud  ma che viene compensata con una lucida analisi spesso canzonatoria della società italiana alle prese con una crisi epocale.

Track By track

1)      Arrivederci Tristezza:  un pianoforte lieve e un intenso testo vive nella eterna lotta tra ragione ed intelletto che  sfocia nel finale  in una liberatoria  vittoria del sentimento in una apoteosi di archi e vibrofono.

2)      Mambo Reazionario: ha il giusto ritmo e le atmosfere alla Rino Gaetano, testo pungente contro il conformismo di chi alla lotta, agli ideali oggi cedono alla famiglia come nido tranquillo e alla  voglia di benessere “ colui che si piega alle leggi del mercato e compra il divano cammellato, accostando Che Guevara a Pinochet che ballano felici sulle basi di Beyoncè”

3)      Kurt Cobain: lo spunto è la breve vita del cantante dei Nirvana: una profonda riflessione su come la popolarità  spinga a vivere una vita di eccessi e come questa spesso diventa frustrazione in soggetti deboli che non sopportano di interpretare il ruolo del mito.

4)      Le quattro volte : sono il susseguirsi delle stagioni della vita che si ripetono sempre uguali tanto da produrre forti frustrazioni ma Brunori concede una via d’uscita: “si può nascere un’altra volta e poi rinascere ancora un’altra volta, se ti va”.

5)      Il Santo Morto è il  classico brano di Brunori, un brano che è un collage di frasi, citazioni che vanno dalle immagini pubblicitarie ( Pulcino Pio, Nonna Pina e le sue tagliatelle ) ad altre messe in bocca a personaggi famosi, “Giordano Bruno  disse “come on baby Light my fire and Stand by me”  esercizi che rimandano allo stile Battiato.

6)       Il manto corto è un brano strumentale in cui è ben in evidenza un sax quasi jazzato che ricorda le sonorità afro- beat della Ju-Ju music nigeriana anni ’70. Gradevole riempitivo.

7)      Maddalena e Madonna è una delle più belle canzoni del disco, una storia romantica, che gioca sul nome dell’”amica” e della Madonna, carica di nostalgia per tempi passati “davanti al Bibò” e  ”  la voglia di andare ancora e c’era l’amore che cambiava il colore del cielo, il sapore del vino, l’odore dell’aria al mattino era solo per te che scrivevo cazzate su un foglio a quadretti”,  qui Dario Brunori  rivela di aver sotto mano da qualche anno questa lirica, ma di essere riuscito a ‘chiuderla’ solo ora “perché dentro di me si agita un ‘Dario’che detesta l’attitudine nostalgica e passatista e un ‘Dario’ che ci starebbe a mollo dalla mattina alla sera”.

8)      In “Nessuno” viene fuori il  Brunori più profondo, più intimo, emergono le sue debolezze anche quando cerca di nascondersi e si cruccia sia per sua mancanza di personalità ed anche per quando si commuove “solo se non c’è nessuno”, una sorta di autoanalisi dei suoi comportamenti  pubblici e privati.

9)      In Pornoromanzo c’è una forte allusione alla “Lolita” di Nabokov, una sorta di storia d’amore tra un professore e la giovane studentessa, brano rockeggiante caricato volutamente di spavalda sessualità.

10)  La vigilia di Natale è una sorta di riflessione sulla normalità familiare,sulla piatta quotidianità e la voglia di fuggire dalla mediocrità della vita sognando “ancora quella casa al mare”. E’ qui che si nota la bravura del Brunori autore, scrivere un testo, se vogliamo, crudo, amaro in cui la nostalgia prevale ma che regale forti emozioni.

11)  Sol come sono sol:  è una canzone d’amore che tratta dell’amore infelice, a ritmo di valzer ,di un promesso sposo lasciato all’altare. Brunori si diverte nel titolo a giocare con le note e con le parole e forse prende in giro Jovanotti e quel suo “io lo so che non sono solo anche quando sono solo”,  in un pezzo drammaticamente ironico che raccontare il fallimento di un matrimonio.

TRACKLIST

  1. Arrivederci tristezza
  2. Mambo reazionario
  3. Kurt Cobain
  4. Le quattro volte
  5. Il santo morto
  6. Il manto corto
  7. Maddalena e Madonna
  8. Nessuno
  9. Pornoromanzo
  10. Vigilia di Natale
  11. Sol come sono Sol

JANKADJSTRUMMER

Leonard Cohen, la cronaca dello show di Lucca del 09 luglio 2013 completa di una scheda sul poeta a cura di jankadjstrummer

Leonard Cohen cronaca dello show di Lucca del 09 luglio 2013 

Magnetico, impeccabile e in una atmosfera magica il concerto di Leonard Cohen a Lucca, tanto che per le tre ore mi dimentico dei disagi causati dalla scelta dell’Organizzazione di creare il parterre dei posti numerati molto rialzato che non permette una visuale decente del palco, quando Cohen lo calca, puntualissimo alle 21, l’emozione è palpabile, perchè insieme a questo quasi ottantenne elegante con giacca, gilet e Borsalino entra anche la sua leggenda ed il pubblico lo accoglie con un boato. Cohen si toglie il cappello e se lo porta al petto “Grazie per la bellissima accoglienza, qui è bellissimo, non so quando tornerò ma posso dire che questa sera vi darò tutto quello che ho”, sorride e partono le prime note di ‘Dance me to the end of love’, la esegue in ginocchio davanti alla chitarra, poi uno sguardo alle sue coriste e ancora un sorriso. Tutto è perfetto, senza tentennamenti, eleganza estetica, soft, senza sfarzi anche nella musica della band che lo accompagna, musicisti di comprovata qualità Sharon Robinson (voce) Rosco Beck (basso,voce ), Alexandru Bublitchi (violino), Neil Larsen (tastiere, organo, e armonica), Mitch Wattkins (chitarre), Charlie e Hattie Webb, The Webb Sisters (voce, chitarre, arpa), Rafael Gayol (batterie e percussioni) e John Bilezijkjan (oud). Fortunatamente dai grandi schermi posti ai lati del palco è possibile vedere questo grande gentleman dal viso scavato e dalla corporatura esile dotato di una voce profonda e tenebrosa ma nel contempo vellutata, quasi un personaggio d’altri tempi capace, però, di arrivare ed affascinare anche il pubblico giovane accorso numeroso a conferma che il dualismo che contraddistingue le sue liriche, quel misto di sacro e profano che è sempre stato il suo segno distintivo risulta di estrema attualità. La scaletta dei brani pesca dagli anni Sessanta fino ai giorni nostri e mostra la perfezione di una musica fatta di altissime liriche e melodie senza tempo, parte “Everybody knows”, il pubblico si scalda e lo accompagna con il battito di mani e lui si inchina per ringraziare, arriva “Who by the fire” preceduta da uno stupendo assolo di oud, poi ritmi incalzanti, arpe che impreziosiscono la voce incantatrice di Cohen. C’è spazio per il nuovo album “Old ideas” con l’ accattivante “The gypsy’s wife ” a suggellare il legame tra la sua anima gitana e la Spagna. Il concerto vola via veloce, Cohen riesce a calamitare il pubblico e ad irretirlo, si inginocchia, canta, recita e saltella danzando su di un tappeto persiano le varie : “ the Future” The darkness” e la intensa “ Anthem” introdotta dalla recitazione di un verso che è l’essenza del suo sentire: “Forget your perfect offering ,there is a crack in everything”, Cohen si porta la mano sul cuore perché come dice nel brano “è da lì che viene la luce”. La prima parte del concerto sfuma con i ringraziamenti e con una frase che smorza la tensione emotiva: “Non andate via, torniamo da 15 minuti”, c’è tempo per spostarsi e sorseggiare una birra fresca tra la calca nei vari punti ristoro intorno alla grande piazza Napoleone ormai diventata palcoscenico naturale della estate Lucchese. il concerto riprende con Cohen che saluta il pubblico agitando la mano e imbracciando la chitarra e intonando le note di “Suzanne” occhi chiusi e atmosfere eteree, Il pubblico segue in religioso silenzio, con il fiato sospeso, prima di applaudire per un tempo che sembra infinito e trovando il tempo di fare una dedica a Fabrizio De André che l’ha tradotta e pubblicata sul suo album “Canzoni” Per “If it be your will ” Cohen recita alcuni versi della canzone (“If it be your will that I-speak no more and my voice be still as it was before.. From this broken hill I will sing to you From this broken hill All your praises-they shall ring If it be your will To let me sing”. “Se è un tuo desiderio che io non parli più e che la mia voce sia ancora com’era prima, non parlerò più/ aspetterò fino a che/ non si parlerà in mio favore /se questo è un tuo desiderio che una voce sia vera/ da questa accidentata collina/ tutte le tue lodi risuoneranno se questo è un tuo desiderio/ per lasciarmi cantare. Qui è forte un senso della fede che lui solo riesce a trasmettere l’assoluta devozione per chi è più grande di noi, da umile servo a cui è stata concessa il dono della voce, la canzone, a sorpresa, la lascia cantare alle due coriste, le Webb Sisters accompagnate solo da arpa e chitarra. Una esecuzione magistrale, emozionantissima di rara perfezione musicale che il pubblico ha apprezzato tributando loro un applauso infinito, li accanto un Cohen attonito con il capo chino e il cappello sul cuore. Da brivido. Ma non c’è tempo per romantiche sdolcinatezze, Cohen si toglie la giacca e ci regala una strepitosa “So long, Marianne” che il pubblico canta insieme a lui quasi a suggellare la magia e quel flusso d’amore che solo lui è capace di trasmettere e il pubblico lo sa bene tanto che gli riserverà un applauso senza fine. Si riparte con il basso e la batteria ad annunciare “First we take in Manhattan” , e ancora “Bird on wire” Chelsea N°2 e Sisters of mercy esecuzioni intense che donano emozioni e brividi in questa notte torrida. A questo punto Leonard tira un po’ il fiato, cede il microfono e lascia la scena a Sharon Robinson per una versione commovente di “Alexandra Leaving” che non fa rimpiangere la versione originale, questo secondo set si chiude con un crescendo che lascia senza fiato: prima il classico romantico-pop “I’m Your Man”, eseguito con l’energia di un ventenne e tanta ironia quando riesce ad esaltarsi nei diversi ruoli che si disegna per compiacere la sua amata che poi rappresenta quello che si può definire la donna ideale; nessun cenno di stanchezza, tutto sommato sono passate un paio d’ore dall’inizio, così parte quella che viene considerata una preghiera senza tempo,una versione asciutta, spirituale di Hallelujah cantata con una intensità da pelle d’oca e solo in questo momento si capisce perchè così tanti musicisti la considerano una delle più belle canzoni di sempre e perché un po’ tutti la vogliono cantare e poi “Take this Waltz” ( prendi questo valzer ) una famosissima poesia di Garcia Lorca tradotta da Cohen, qui eseguita con grazia estrema. Infine regala una perfetta esecuzione di “Famous blue raincoat ” capace di spezzare il cuore a tutti e non solo agli amanti delusi. Sembra che sia finito tutto ma l’estasi che Cohen e la sua band riescono a donare continua con dei bis che diventano un’apoteosi, una sublimazione dei sentimenti. Il concerto di questo elegante crooner si chiude con brani che quasi mai vengono inseriti in scaletta: la rarissima cover de The Drifters “Save the last dance for me”, poi “I tried to leave you” per concludere “Closing time”. Oltre tre ore di concerto memorabile che senza voler esagerare è stato un viaggio nella poesia di Jikan,il Silenzioso cosi come venne chiamato quando fu ordinato monaco buddista e si interrogava sui suoi stati d’animo per capire perchè in certi momenti mi sentiva particolarmente malinconico, condizione che gli ha premesso di scrivere e di cantare con la sua voce seducente le sue immortali poesie o se vogliamo al poeta che scriveva canzoni.

Dal vostro Jankadjstrummer

 

LA VOCE DALLA LAMA AFFILATA”

Ogni volta che decido di scrivere qualcosa su Leonard Cohen mi assale una forma di pudore e di inadeguatezza che mi fa pensare di non essere all’altezza di parlare di poesia, perché un conto è parlare di musica rock con piglio leggero quasi canzonatorio altro conto è addentrarsi in territori sconosciuti per riuscire a tradurre i sentimenti, le emozioni che si provano leggendo una poesia o ascoltando un brano di Cohen. Questa volta, però, ho deciso di provarci perché ritengo che sia doveroso far conoscere meglio ai lettori del sito questo straordinario cantautore e poeta ma anche abile romanziere. Leonard Cohen è nato in Canada (Monthreal 21/09/1934), da una famiglia di origine ebrea, inizia la sua carriera nel 1956 pubblicando un libro di poesie e dedicandosi alla musica solo a partire dal 1967 dopo essersi trasferito negli USA. Nel 1968 pubblica il suo primo disco “Songs of Leonard Cohen” che ebbe un buon successo.. I lavori successivi sono “Songs from a Room” (1969), “Songs of love and hate” (1971) e “Live songs” (dal vivo). Poi entra in un periodo di crisi personale dal quale esce pochi anni più tardi con la pubblicazione di “New skin for the old ceremony” (1974). Alla fine degli anni ’80 vive in California, a Los Angeles. Dopo l’apocalittico album “The Future” (1992) Cohen decide di ritirarsi in un monastero buddista in California; trascorre così un periodo di meditazione e si prende cura dell’anziano maestro Roshi, dal 1993 fino al 1999. Dopo quasi dieci anni di silenzio discografico la sua casa discografica pubblica i dischi live “Cohen Live” (1994) e “Field Commander Cohen” (2000, registrazioni di concerti del 1978), e “More Greatest Hits” (1997). Dopo il 2000 si rimette al lavoro con la sua vecchia collaboratrice Sharon Robinson e pubblica all’età di 67 anni l’album “Ten New Songs” (2001). Parallelamente all’attività musicale c’è quella letteraria che riassumo brevemente: La sua prima collezione di poesie, “Let Us Compare Mythologies”, viene pubblicata nel 1956 quando è ancora studente universitario. “The Spice Box Of Earth” (1961), la sua seconda collezione, lo lancia verso la fama internazionale, poi nei primi anni ’60 pubblica due romanzi, “The favourite game” (1963) e “Beautiful Losers” (1966). Poi un libro di poesie “The Parasites of Heaven” in cui compaiono alcuni testi (tra cui la celebre “Suzanne”) che successivamente diventeranno canzoni. “Impossibile ascoltare un suo album quando fuori splende il sole” ammonivano i critici, perchè quando Cohen parla dei suoi turbamenti religiosi o delle sue malinconiche crisi esistenziali la sua voce è un rasoio pronto a fendere gli stati d’ animo, le passioni e i sentimenti.     “Per sua natura, una canzone deve muovere da cuore a cuore”. È questa la poetica e la filosofia con cui Leonard Cohen ha costruito non solo la sua carriera artistica, ma la sua stessa vita. La sua musica si avvicina alla poesia, al sentimento delle cose non dette, alle allusioni, alle metafore, un linguaggio che è solo dei poeti. Tanti sono stati gli artisti rock che hanno riconosciuto di essere stati fortemente influenzati dalla musica di questo cantore, Nick Cave, Morrisey ma anche molti altri hanno attinto dal suo repertorio ma in generale dalla sua poetica e dal suo modo di esprimere le inquietudini. Mi piace ricordare “Hallelujah” resa ancor più famosa e struggente da Jeff Buckley, Suzanne ripresa magistralmente da Fabrizio De Andrè ma anche I’m your man nella interpretazione di Nick cave. Il tempo per Cohen ha un suo ritmo: “Di solito tendo alla tristezza. Per alcune canzoni ho impiegato diversi anni. Nessuna di essa è stata un parto facile, dopo tutto questo è il nostro lavoro. Tutto il resto va spesso in malora, in bancarotta totale, e così quel che rimane è il lavoro, ed è quello che faccio per tutto il tempo, lavorare, creare l’opus della mia vita. Il nostro lavoro è l’unico territorio che possiamo governare e rendere chiaro. Tutte le altre cose rimangono confuse e misteriose”. Cohen nei suoi lavori affronta l’amore, la passione, il viaggio, la sofferenza, la solitudine, e i sentimenti di un uomo che divora letteralmente le sensazioni che prova, con uno straordinario talento che incanta e affascina chi lo legge e lo ascolta. Il suo bagaglio musicale nasce della chanson francese di Jacques Brel e George Brassens, ma il forte influsso dato dalle sue radici ebraiche, gli fa prediligere anche molti temi biblici. Cohen è un poeta che parla contemporaneamente con delicatezza e una forza stilistica unica donando grande profondità ai suoi versi, teneri e passionali, fragili e risoluti al tempo stesso, confermando, ancora una volta la sua grande sensibilità e l’acutezza nel sentire, nel percepire, nel raccontare quella vita che ama con tutto il suo essere e senza riserve.

GLI  ALBUM DI LEONARD COHEN

  • Songs of Leonard Cohen (Columbia, 1968) > ottimo
  • Songs From A Room (Columbia, 1969)
  • Songs Of Love And Hate (Columbia, 1971) > ottimo
  • Live Songs (Columbia, 1972)
  • New Skin For The Old Ceremony (Columbia, 1973)
  • Best of Leonard Cohen (Columbia, 1975)
  • Death Of A Ladies’ Man (Columbia, 1977)
  • Recent Songs (Columbia, 1979)
  • Various Positions (Columbia, 1984)
  • I’m Your Man (Columbia, 1988) > ottimo
  • The Future (Columbia, 1992)
  • Cohen live (Columbia, 1994)
  • Field Commander Cohen (Columbia, 2000)
  • Ten New Songs (Columbia, 2001)
  • The Essential Cohen (anthology, Columbia, 2002)
  • Dear Heather (Columbia, 2004)
  • Live in London ( 2008 )

 

RIASCOLTATI PER VOI – King Crimson – In The Court Of Crimson King

 

RIASCOLTATI PER VOI  –  King Crimson – In The Court Of Crimson King

in the court

In The Court Of The Crimson King” è il capolavoro assoluto del progressive rock inglese, l’album d’esordio diventato subito una pietra miliare del genere. Capolavoro già dalla copertina affidata all’artista Barry Goodberg morto giovanissimo dopo un anno dalla pubblicazione. Raffigura  idealmente l’uomo schizoide  del XXI° secolo che urla la sua follia. Siamo nel  1969, un periodo in cui sulla scena britannica sono già fioriti gruppi progressive quali i Genesis, gli YES e i Pink Floyd. Siamo in piena era progressive, genere musicale influenzato molto dal jazz e dalla  musica classica Il genio di Robert Fripp unito alla sua prima formazione, guidata dal paroliere  Peter Sinfield, sfornano con cura queste cinque tracce, incatenate tra di loro, nel tentativo di creare un classico “concept album “.

Il filo conduttore dell’album sta nella ricerca del suono che viene fatta con puntigliosità, quindi ogni nota è studiata, ponderata per dare il risultato migliore, originalità a tutti i costi che porta a risultati veramente grandiosi. Una delle novità di questo suono è dato dall’utilizzo del mellotron, una sorta di sintetizzatore, che sarà usato anche dai Pink Floyd, con cui si riproducono elettronicamente suoni simili a quelli degli archi e dei cori. E’ grazie anche a questo strumento che Fripp e soci riescono ad aprire la musica rock alle melodie e al ventaglio di possibilità che la musica classica, il jazz, e l’elettronica riescono a dare. L’inizio dell’album è qualcosa di travolgente : La voce distorta di Greg Lake, futuro leader degli Emerson, Lake & Palmer, mette un tassello del puzzle con  “21th Century Schizoid Man” un brano  aggressivo, una esplosione di suoni che mette alle corde l’ascoltatore con la sua progressione musicale. Un inizio disarmante, una composizione frenetica, ma allo stesso tempo melodica, che si incastra alla perfezione con la seconda traccia dell’album: “I Talk To The Wind” in cui i toni sono più dolci, l’atmosfera è eterea, sognante, il flauto di Ian McDonald che si fonde con la tranquillità della voce di Lake, poi l’umore cambia immediatamente resta la melodia ma si è colpiti dalla triste “Epitaph” con un testo ancora una volta pregno di pessimismo e di malinconia.Vi propongo qui, il testo tradotto per  rendere l’idea dello stato d’animo e dell’intensità lirica.

Il muro su cui scrivono i profeti
Si sta rompendo le cuciture
Sotto gli strumenti della morte
La luce del sole splende raggiante
Quando ogni uomo è fatto a pezzi
Con gli incubi e con i sogni
Nessuno toglierà la corona di foglie di lauro?
Mentre il silenzio sommerge le urla

Tra i cancelli di ferro del destino
Venivano seminati i semi del tempo
e annaffiati dalle scritture di coloro

Che conoscono e che sono conosciuti
La conoscenza è un amico mortale
Quando nessuno imposta le regole
Il destino di ogni tipo di uomo che vedo
E’ nelle mani degli stupidi

La confusione sarà il mio epitaffio
Mentre striscio per un sentiero crepato e sfasciato
Se ce la facciamo possiamo sederci tutti
E ridere
Ma ho paura che domani starò piangendo
Si, ho paura che domani starò piangendo

Il lato B del disco comincia con Moonchild, la traccia più lunga dell’album pregna di psichedalia e di minimalismo. La prima parte, cantata, è una breve ballata accompagnata dall’arpeggio della chitarra di Fripp unito alle percussioni di Mike Giles; mentre la seconda parte è una sperimentazione, una improvvisazione pura e semplice  che potrebbe essere il preludio alla musica elettronica ambient . Siamo in attesa dell’epilogo, si sta per entrare alla corte del Re Cremisi, ad annunciare c’è il suono del Mellotron che incalza sulla voce di Lake coadiuvata dal un coro ossessivo, pungente, bellissimo l’assolo di flauto di Ian McDonald. C’è molta teatralità in questo pezzo e tutto è impreziosito, arricchito da toni  di barocco, componenti principali e strutturali del progressive rock.. Il finale è epico, è il giusto epilogo di un viaggio che suggella non soltanto la title-track, ma lascia stupiti per tutto ciò che il viaggio che abbiamo intrapreso con questo album ha saputo comunicarci. Questo è un album rivoluzionario, riascoltarlo oggi, a 50 anni dalla sua uscita, sembra che abbia già detto tutto ciò che la musica poteva dire, si spazia dal classicismo all’avanguardia con dei modelli nuovi, originali  capaci di durare nel tempo.  “In The Court Of The Crimson King”, è il manifesto del rock progressivo, è un’opera ricca di creatività, geniale, straripante di idee, che apre gli orizzonti nascosti e che conduce in terre inesplorate: un faro imprescindibile per tutti quelli che intraprendono un viaggio nel grande oceano del rock.

Buon ascolto o riascolto da Jankadjstrummer