RIASCOLTIAMO GLI ANNI ’70  –  FRANCESCO GUCCINI “ RADICI “

 

RISCOLTIAMO GLI ANNI ’70  –  FRANCESCO GUCCINI “ RADICI “

L’album “Radici” di Francesco Guccini vede la luce nel lontano 1972, nel momento di massimo splendore poetico del cantautore emiliano, senza dubbio è uno dei lavori meglio riusciti della sua produzione insieme a “Via Paolo Fabbri 43” del 1976 e  da “Amerigo”. del 1978. Il senso di appartenenza che lega quasi tutti i brani lo fa diventare una sorta di concept-album molto in auge in quel periodo. Il filo conduttore del disco è la consapevolezza che ognuno di noi è un soggetto che fa parte di un gruppo, che perde  la propria individualità in ragione di un bene comune, ma anche l’ appartenenza affettiva a  qualcuno in ragione dei propri sentimenti. Come si diceva un tempo un dualismo, un nodo mai sciolto di “pubblico” e  “privato”. Il disco è una carrellata di grandi ballate che non scade mai nella retorica e nella banalità delle canzoni pop. Questo spirito di appartenenza è palese già nella  title-track in cui Guccini parla della sua famiglia con molta tenerezza ed orgoglio riconoscendo il valore e la saggezza dei propri antenati nel ricordo che se ne fa nella vita di tutti i giorni: bella canzone ma che non emerge nel contesto di una sfilza di classici dell’artista; si parte con il pezzo che è il manifesto della canzone di protesta degli anni settanta: “La locomotiva”,  tuttora il brano che chiude i  concerti in cui si consuma un rito che va avanti da oltre un trentennio: il pugno sinistro levato degli spettatori ne momento topico del brano quando “ la bomba proletaria illuminava l’aria, la fiaccola dell’anarchia “. Il pezzo narra le vicende di un “ macchinista ferroviere” alla fine dell’800 che in un momento di grandi ideali pensa bene di utilizzare la sua locomotiva lanciandola a folle velocità fino al deragliamento e all’esplosione finale. Si tratta chiaramente di una metafora, l’anarchico che lancia la locomotiva  contro il potere borghese diventa un manifesto dei movimenti giovanili degli anni ’70. Mentre “Piccola Città” è una canzone molto nostalgica sul tema della giovinezza, Guccini ricorda il periodo scolastico trascorso a Modena la “piccola citta” che diventa un posto da dove fuggire via, il ricordo della scuola e delle “ vecchie suore nere “ che insegnano i ragazzi i segreti della vita”.  Poi “Incontro” un brano che è il  racconto dell’amica ritrovata dopo tanti anni, di una amicizia rimasta immutata ma le vicende della vita rendono questo incontro amaro, triste, l’amica gli rivela il suicidio del marito “ che si era ucciso per Natale” Un “Incontro “ che diventa tenero e dolce con la penna e la voce di Guccini. Dopo  abbiamo “La canzone dei dodici mesi” una delle canzone che amo di più perché c’è dentro tutta la poesia, i riferimenti e le citazioni dell’arte e del “ dolce stil novo di Cecco Angiolieri. Musicalmente è costruita in maniera tale che ogni mese dell’anno viene accompagnato da uno strumento diverso. E’ un susseguirsi di citazioni colte, la dimostrazione che siamo in presenza di un intellettuale molto ispirato. Le ultime due canzoni affrontano temi molto belli e poetici : “la canzone della bambina portoghese” che non si sa che cosa sia ma l’allusione è chiara, siamo nell’era post sessantottina sono caduti tanti steccati, ottenute tante conquista ma resta l’incertezza del futuro di quello che dovrà avvenire. una sorta di metafora della generazione che esce dal ’68 che è consapevole di ciò di cui si è liberata ma non sa a cosa va incontro. Bella l’immagine della bambina portoghese che dalla spiaggia guarda l’Oceano Atlantico e cerca di immaginare cosa c’è oltre quel mare. La conclusione è un brano cardine dell’opera gucciniana, “Il vecchio e il bambino”, in cui mette a confronto due epoche, due generazioni e lo fa con molto stile. Il messaggio è molto semplice, il passato, le esperienze della vecchia generazioni non devono andare perse dall’incalzare della modernità e devono essere un punto di riferimento, un faro per le generazioni future. Non è possibile costruire nulla senza l’apporto della cultura degli vecchi. Riascoltare questo album e queste canzoni che fanno parte del mio passato è per me un’ occasione di riflessione, rivivere l’emozione delle inquietudini giovanili è un toccasana per affrontare le paure, le lotte quotidiane  e i sentimenti e poi diciamocelo pure, fanno molta tenerezza. Radici è un grande album,  testi importanti ed ispirati, un po’ scarno dal punto di vista musicale, ma al Grande Guccini  gli si perdona tutto.

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Buon ascolto o riascolto per i meno giovani da  JANKADJSTRUMMER

L’album contiene:
1. Radici
2. La locomotiva
3. Piccola città
4. Incontro
5  Canzone dei dodici mesi
6. Canzone della bambina portoghese
7. Il vecchio e il bambino

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RIASCOLTATI PER VOI – CCCP – 1964-1985 AFFINITÀ E DIVERGENZE TRA IL COMPAGNO TOGLIATTI E NOI – DEL CONSEGUIMENTO DELLA MAGGIORE ETÀ. By Jankadjstrummer

CCCP  –  1964-1985 AFFINITÀ  E DIVERGENZE TRA IL COMPAGNO TOGLIATTI E NOI – DEL CONSEGUIMENTO DELLA MAGGIORE ETÀ.

I CCCP nascono nel 1982 in un locale di Berlino, dall’incontro di Giovanni Lindo Ferretti con il chitarrista Massimo Zamboni. I due suonano, per un bel po’, in giro per la Germania, tornati in Italia hanno una grossa intuizione che farà la loro fortuna, si convincono che è possibile appropriarsi della cultura emiliana, tradizionalmente comunista, e fonderla con il punk, magari prendendo il ballo liscio e portarlo a tutta velocità ed immergerlo nel suono “industriale” del rock tedesco.

Il loro primo lavoro è del 1984 “Compagni, cittadini, fratelli, partigiani”, una piccola raccolta di brani della primissima produzione ma il loro primo vero album i CCCP lo pubblicano nel 1986 “Affinità e divergenze fra il compagno Togliatti e noi. Del conseguimento della maggiore età”. E’ un disco eversivo, impetuoso e paranoico, una grossa scossa elettrica  per la musica Italiana. La  loro è pura provocazione, mi ricordo di averli ascoltati per la prima volta in una festa del 1° maggio del 1985 all’Auditorim FLOG di Firenze, uno spettacolo quasi circense in cui abbondavano le bandiere sovietiche, le performance dell’artista del Popolo, Fatur che mimava i mestieri, il mondo delle fabbriche URSS, abbigliato con corazze ed effigie che richiamavano al socialismo reale e accompagnato dalla bella e “benemerita Soubrette” Annarella Giudici. Fu uno spettacolo esaltante  da seduta di elettroshock. Ma torniamo al disco, in copertina sullo sfondo una foto di Togliatti mentre all’interno la scritta “Punk filosovietico/ musica melodica emiliana”, il disco parte a razzo al grido di  “CCCP”, con le chitarre gracchianti e un ritornello che mette subito in chiaro le intenzioni politiche del gruppo: “Fedeli alla linea e la linea non c’è”. Musica al vetriolo,il basso e la batteria che reggono un tempo martellante e creano un disordine mentale che sarà il loro biglietto da visita. Ripartono subito con “Curami”, un pezzo mitico quasi una preghiera con cui i CCCP consapevoli delle psicosi di una generazione di giovani non integrati e eternamente fragili ed insicuri chiedono una terapia, una medicina che riesca i liberarli dalle ossessioni e dagli incubi che affollano le menti di una generazione di giovani:  “Prendimi in cura da te, curami, curami”, chiede Ferretti ma non è dato sapere a chi, se al suo psichiatra, ad un demiurgo o allo sciamano, cantando su un tappeto di chitarra punk addolcito dal suono dello xilofono. Il brano si chiude con una richiesta ripetuta ossessivamente, una modalità peraltro molto usata dai CCCP che in questo caso fa “Solo una terapia, solo una terapia!”. Poi parte uno dei brani che preferisco “Valium Tavor Serenase” che rappresenta il manifesto del Ferretti pensiero, della sua musica e del messaggio che vuole che passi: Le droghe non sono importanti non aumentano le nostre percezioni né servono come eccitanti perché sono meglio i calmanti e i sonniferi  “Il Valium mi rilassa/ il Serenase mi stende/ il Tavor mi riprende” ma queste parole, quasi concilianti, sono seguite da ritmi violenti di punk hardcore e sono sintomatici di un forte malessere. Questi suoni all’improvviso si fermano per lasciare il posto ad un giro di ballo liscio alla Casadei. Invenzione azzeccatissima!  Ancora ritmi punk con “Trafitto” e “Noia”, il primo brano si apre in maniera malinconica “nell’era democratica simmetriche luci gialle/ e luoghi di concentrazione/ nell’era democratica strade lucide di pioggia/ splende il sole fa il bel tempo…”, poi il ritmo sale vertiginosamente e Ferretti esalta l’indolenza e la svogliatezza (“Trafitto sono/ trapassato dal futuro/ cerco una persona/ Fragili desideri/ a volte indispensabili/ a volte no”) nell’altro si parla di una cupa e triste noia.

Poi la trasgressione sessuale di “Mi ami”, l’attesa di una situazione estrema contro un rapporto a due senza amore, freddo ed annoiato  “ Un’erezione, un’erezione triste per un coito molesto, per un coito modesto/ Spermi spermi indifferenti, per ingoi indigesti/io attendo allucinato la situazione estrema” Poi il brano “Morire” una cruda invettiva, probabilmente autoironica, ai giovani in cui uno sprezzante Ferretti ammonisce “Produci, consuma, crepa/ Produci, consuma, crepa/ Cotonati i capelli, riempiti di borchie/ rompiti le palle/ rasati i capelli/ crepa/ crepa”.

Il cerchio della depressione e del post edonismo anni ’80 si chiude con  “Io sto bene” uno dei brani più azzeccati dell’album “Non studio, non lavoro, non guardo la tv, non vado al cinema, non faccio sport”. Qui è forte l’inadeguatezza e la fragilità e il vuoto esistenziale: “Io sto bene, io sto male, io non so come stare “.
Si ritorna a i toni cupi con “ Allarme”, un basso lieve ma ripetitivo, una chitarra distorta, il suono della fisarmonica che intona un tango e l’invocazione dell’allucinato Lindo Ferretti (“Muore tutto, l’unica cosa che vive sei tu. Solo tu, solo tu”) sono il preludio ad un The end, al delirio conclusivo di “Emilia Paranoica”, il brano in assoluto più bello  dell’album. Inizia con delle urla, un basso flebile e una  batteria elettronica anch’essa rallentata crea un clima apocalittico, Ferretti recita “Aspetto un’emozione sempre più indefinibile” , con accordi di chitarra  che seguono il canto monotono, l’atmosfera dark che si dissolve piano, le chitarre che graffiano e questo lungo recitativo che diventa più veloce, il ritmo che sale e i suoni che diventano violenti, è l’apoteosi prima del ritorno al punto di partenza  che risale questa volta ancora più intenso e sofferto. E’ l’Emilia che da terra evoluta, gioiosa e fiera  diventa una terra nebbiosa e sen’anima , una terra affollata da tossici e sbandati, una terra in cui l’unica seduzione è dormire. L’album è un capolavoro del rock italiano e consacrerà i CCCP come la più grande rock band italiana.

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Da ascoltare e riascoltare Jankadjstrummer

Tracklist

  1. CCCP
  2. Curami
  3. Mi ami? (remiscelata)
  4. Trafitto
  5. Valium Tavor Serenase
  6. Morire
  7. Noia
  8. Io sto bene
  9. Allarme
  10. Emilia Paranoica

DA QUI, MESSERE, SI DOMINA LA VALLE……… LA STRAORDINARIA TRILOGIA DEL BANCO DEL MUTUO SOCCORSO by Jankadjstrummer

DA QUI, MESSERE, SI DOMINA LA VALLE………

LA STRAORDINARIA TRILOGIA DEL  BANCO DEL MUTUO SOCCORSO

Il Banco del Mutuo Soccorso è una delle formazioni di punta del rock progressive italiano, di quelli che hanno lasciato un segno tangibile nella  storia della musica pop italiana. Voglio ripercorrere con voi un periodo lontano della band che va dal 1972 al 1974  in cui Il Banco era all’apice della ispirazione e fece uscire 3 LP’s  che si possono tranquillamente definire dei piccoli capolavori del progressive italiano che proprio in quel periodo cominciava a prendere forma e ad affermarsi. Lo stile del gruppo è estremamente originale incentrato sul pianoforte classico di Gianni Nocenzi e sui suoni elettrici del fratello Vittorio e con la stupenda voce quasi tenorile di “ big” Francesco Di Giacomo, autore dei testi più belli e impegnati del prog italiano.

Banco del mutuo soccorso  (1)    (1972)
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Il disco è conosciuto come quello del “salvadanaio” , è il loro disco d’esordio e rappresenta in maniera chiara il percorso e lo stile che il gruppo vuole imprimere alla loro musica. L’introduzione è in perfetto stile medievale, Francesco di Giacomo immagina Astolfo che accompagnato dal fido scudiero e su un sottofondo musicale etereo apre pronunciando le celebri frasi “Da qui messere si domina la valle ciò che si vede, è, ma se l’imago è scarno al vostro occhio scendiamo a mirarla da più in basso e planeremo in un galoppo alato entro il cratere dove gorgoglia il tempo”; a  questo punto parte la prima suite  “R.I.P. – Requiscant in pace” una cavalcata rock in perfetto stile anni ’70 , un attacco deciso che crea tensione, c’è la descrizione della battaglia vista dagli occhi di un soldato che poi viene pugnalato “ cavalli,corpi e lancia rotte si tingono di rosso, lamenti di persone che muoiono da sole senza un Cristo che sia là “ puro lirismo ma senza nessuna retorica, la morte che avvolge tutto e che  resta nella mente del soldato  costretto ad uccidere senza saperne la vera ragione, la musica diventa quasi violenta nel suo incalzare ed anche il testo è più crudo e rabbioso fino all’ultima strofa prima che la musica si plachi e diventa più mesta,  parte la lunga e struggente voce di Di Giacomo accompagnata dal solo pianoforte, la battaglia è finita, è persa, il soldato è li  esanime e Di Giacomo riflette  sul tema della morte, bellissima l’immagine del vento che si siede e lo sguardo del soldato perso nel vuoto verso l’infinito nel vano tentativo di aggrapparsi alla vita (“e tu no, non scaglierai mai più/la tua lancia per ferire l’orizzonte/per spingerti al di là/per scoprire ciò che solo Iddio sa”).Già in un’altra occasione ho detto che la poesia del brano rappresenta uno dei più alti esempi di canzone  contro la guerra e che mi ha ricordato il magnifico affresco della “ Battaglia di Anghiari” di Leonardo da Vinci in palazzo Vecchio a Firenze, è uno dei brani che più preferisco del Banco.  Poi altre due suite prettamente strumentali “Metamorfosi” e “Passaggio” che traghettano verso la magnifica “Il giardino del mago”, qui c’è una bella metafora ambientata in un mondo fantastico, narra di un uomo che volendo fuggire dal mondo ormai crudele si rifugia  nel giardino di un mago potentissimo in cui poi  rimane intrappolato, un luogo in cui non valgono le leggi umane, un mondo sospeso dove la natura e il genere umano vivono in perfetta armonia. Di Giacomo si perde in questo mondo strano ma perfetto e non tornerà più alla realtà governata dai forti. “Coi capelli sciolti al vento/io dirigo il tempo/il mio tempo/là negli spazi dove morte non ha domini/dove l’amore varca i confini/e il servo balla con il re/corona senza vanità/eterna è la strada che va”). Dopo questa lunga suite il disco si chiude con “Traccia” un lieve divertissement tutto strumentale.

Tracklist:

  1. In volo
  2. R.I.P. Requiescant in pace
  3. Metamorfosi
  4. Passaggio
  5. Il giardino del mago
  6. Traccia

Darwin(1972)
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Sempre nel 1972 ritornano in sala di registrazione e sfornano un ambizioso concept album sulla teoria evoluzionistica: “Darwin!”, E’ la storia della vita sulla terra dall’ipotetico giorno in cui prese vita spontaneamente (Ah la madre è pronta partorirà/già inarca il grembo/vuole un figlio e lo avrà/figlio di terra e di elettricità.) fino al momento dell’ Apocalisse (Ed ora io domando tempo al Tempo ed egli mi risponde… non ne ho!) quando il destino schernisce  gli inutili sforzi dell’uomo per sottrarsi al suo destino (“Gloria a Babele/rida la Sfinge ancora per millenni/si fabbrichi nel cielo fino a Sirio/schiumino i cavalli sulla Via Lattea/ma…/Quanta vita ha ancora il tuo intelletto/se dietro a te scompare la tua razza?”). In quel periodo Darwin e la teoria dell’evoluzione non erano ancora entrati nel sapere e nella cultura di massa: ricordo che  nei libri di scienze delle scuole solo in poche righe veniva espressa la teoria dell’evoluzionismo darwiniano e il disco fu per me un motivo di approfondimento. Di Giacomo ha usato questa  teoria come una metafora per far riflettere sull’uomo, la sua storia, le sue debolezze, la voglia di fuggire ma  anche di socializzare, l’amore irraggiungibile, il senso dell’inesorabile correre del tempo. Il disco  è musicalmente vario e molto colorato, particolarissimi sono i ritmi e le variazioni della melodia, una ricchezza di suoni su cui nei primi anno ’70 era raro imbattersi, non c’era ancora il largo uso dell’elettronica per cui era necessario tirare fuori il pathos, l’anima per riuscire a fare musica straordinaria. E poi c’erano i momenti di intenso lirismo descrittivo, si riescono a vedere limpide immagini di “informi esseri che il mare vomita sospinti a cumuli su spiagge putride” così come si riesce a sentire l’urlo che “rintrona e sale fino ai vulcani” dell’uomo che, conquistata la posizione eretta, ha una visione del mondo eccezionalmente ampia. Una musica dalle atmosfere primordiali con suoni acerbi ma intensi che la voce e i testi di Francesco Di Giacomo esalta, testi che sembrano bozzetti di acquerelli tanto belli e veri che sembra di vedere la narrazione. Il terzo brano “La danza dei grandi rettili”, è un bellissimo intermezzo musicale prima di proseguire in un turbinio di emozioni con la quarta canzone “Cento mani,cento occhi” in cui l’uomo sente il bisogno di unirsi ai suoi simili per  proteggersi e condividere il cibo, sono le prime comunità di umani, da notare i cori e le voci polifonici che imprimono potenza;. “750000 anni fa…l’amore?” è una struggente canzone d’amore in cui il protagonista è un ominide tanto timido che la paura di palesarsi prevale sulla voglia di possedere il corpo dell’amata, lasciando spazio a fantasie e frustrazione. Poi c’è  “Miserere alla storia” in cui l’uomo rimane solo e non ha la possibilità far continuare la sua razza; l’album si chiude con “Ed ora io domando tempo al tempo (ed egli mi risponde:non ne ho!)”, canzone in cui viene affrontato il tema della morte, vissuta con rabbia e dolore. “Darwin!”, nonostante sia un album fondamentale ha qualche momento di debolezza specie se viene messo a confronto col disco d’esordio.

Tracklist:

1 L’evoluzione

2 La conquista della posizione eretta

3 La danza dei grandi rettili

4 Cento mani, cento occhi

5 750000 anni fa…l’amore?

6 Misere alla storia

7 Ed ora io domando tempo al tempo (ed egli mi risponde: non ne ho!)
Io sono nato libero (1973)

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Con questo disco ritornano alle sonorità del primo album con risultati eccellenti in particolare negli arrangiamenti delle chitarre acustiche e del pianoforte oltre che l’uso massiccio del sintetizzatore di Vittorio Nocenzi che diventa il loro segno distintivo e la voce perfetta e maestosa del over-size Francesco di Giacomo che si conferma interprete e paroliere di raffinata maestria forse la migliore voce nel panorama del rock nostrano.  Qui non si può parlare di concept-album anche se tutti i brani hanno come filo conduttore la ricerca della libertà nelle sue varie forme. L’album si apre con una lunga suite “Canto nomade di un prigioniero politico” che è il loro capolavoro, 15 minuti di progressive ad altissimi livelli, liriche di denuncia politica, che raccontano la disperazione  di un condannato che aspetta l’esecuzione e che affida al suo canto una sorta di testamento ideologico (“Almeno tu che puoi fuggi via canto nomade / questa cella è piena della mia disperazione / tu che puoi non farti prendere. […] Voi condannate per comodità / ma la mia idea gia vi assalta. / Voi martoriate le mie sole carni / ma il mio cervello vive ancora”). E’ un inno malinconico alla libertà di pensiero, a coloro che decidono di seguire i propri ideali senza compromessi e ne pagano le conseguenze.  Una tema universale sempre attuale che viene trattato senza troppi isterismi perché nasce dalla consapevolezza della miseria dei giudicanti e dalla volontà di riaffermare le proprie idee. La sofferenza del prigioniero è una forte ispirazione ad inventare soluzioni sonore veramente nuove in quel periodo: i tenui assoli di pianoforte che si intrecciano al sintetizzatore, chitarre acustiche che duettano con percussioni quasi tribali, divagazioni di tastiere che fanno da base alle stupende qualità canore di Di Giacomo sono gli ingredienti di uno dei brani più riusciti del rock italiano. Poi c’è il brano più famoso del Banco “Non mi rompete” una struggente ballata sorretta da doppie chitarre acustiche in cui viene rivendicato il diritto di avere dei sogni , il ritmo tenue quasi allegro del brano è un momento di rilassatezza prima del brano più ostico e surreale del disco:  La città sottile. Si descrive una città città-fantasma dove tutto è senza senso e gli abitanti ne sono ingabbiati. Un brano difficile, sia per i contenuti che per l’impostazione musicale, caratterizzata dalla esclusività del suono del pianoforte e da versi onirici ai limiti del non-sense. Il disco prosegue con “Dopo… niente è più lo stesso” , un’altra traccia di riflessione, questa volta sull’inutilità della guerra che, anche quando finisce, lascia ferite indelebili in coloro che hanno combattuto e sono sopravvissuti. Racconta del dramma di un soldato che ritorna al suo paese, un accenno a Stalingrado,  trova la sua terra ridotta a rovine, ma con la sua gente pronta a ricominciare.  il ritorno del combattente,invece,  è tragico , non riesce a festeggiare la fine della guerra, non riesce a tornare quello di prima è un guscio vuoto senza sentimenti se non quelli di maledire coloro che lo hanno costretto ad imbarcarsi in una guerra che non gli apparteneva. (“Lingue gonfie pance piene / non parlatemi di libertà / voi chiamate giusta guerra/ciò che io stramaledico”) La voce di Di Giacomo, ancora una volta, riesce ad esprimere il senso di sofferenza di colui che ha perso la propria individualità, la musica segue passo dopo passo la storia, suoni tristi per rimarcare l’inquietudine e suoni giocosi per descrivere i festeggiamenti per la fine della guerra. L’ultimo brano, Traccia II,  è uno strumentale, ed è il seguito ideale del brano contenuto nel primo album,  ritmo vorticoso ed in continuo crescendo fino alla conclusione epica nel giro di tre minuti. Epilogo, dunque glorioso, di un grande album.Con ogni probabilità il Banco ha raggiunto con questo album l’apice della sua capacità compositiva: dopo i primi tre capolavori, infatti, continuerà con delle produzioni buone ma non certamente all’altezza delle precedenti sino alla fine degli anni Settanta. Il decennio successivo sarà caratterizzato da una ricerca di sonorità più orecchiabili e da un generale abbandono dell’impostazione progressive.

Tracklist:

  1. Canto nomade per un prigioniero politico
  2. Non mi rompete –
  3. La città sottile –
  4. Dopo… niente è più lo stesso
  5. Traccia II Vostro
  6.                                                      JANKADJSTRUMMER

Formazione:

Vittorio Nocenzi – organo, clarino, voce

Gianni Nocenzi – pianoforte, clarinetto piccolo mib, voce

Marcello Todaro – chitarra elettrica, chitarra acustica, voce

Renato D’Angelo – basso elettrico

Pierluigi Calderoni – batteria

Francesco Di Giacomo – voce

Rodolfo Maltese – chitarra acustica

 

IL PERIGEO: QUANDO LA FUSION INCONTRA IL PROGRESSIVE – recensione dei primi 4 album a cura di Jankadjstrummer

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IL PERIGEO:  QUANDO  LA  FUSION  INCONTRA  IL PROGRESSIVE

Il Perigeo rappresenta a tutt’oggi uno dei più brillanti e geniali tentativi di fondere  musica jazz, classica e rock progressive. Il progetto musicale, ideato da  Giovanni Tommaso, uno dei migliori contrabbassisti italiani, prende forma all’inizio degli anni ’70 con una formazione composta da grandi jazzisti italiani: Bruno Biriaco alla batteria,Tony Sydney alla chitarra, Franco D’Andrea al piano e Claudio Fasoli al sax. La band propone un sound elettrico che ricorda la fusion di Miles Davis e come spesso accade viene subito bollata come “eretica” dai puristi del jazz ma è proprio questa miscela che attira il pubblico, siamo nel periodo di massimo splendore del “progressive” e il sound del Perigeo ne è infarcito, cosi la fama del gruppo varca i confini con tournèe trionfali in Francia, Inghilterra, Germania e poi successivamente negli Stati Uniti dove viene stampato e distribuito anche il loro album del 1976 “Non è poi così lontano”, il successo è tale che diventano il gruppo spalla nel tour dei Weather Report e sono osannati dalla stampa specializzata. Il Perigeo si sciolse nell’agosto 1976, dopo il concerto d’addio tenuto a Pescara. Di seguito le schede dei primi 4 album pubblicati fino al 1976 perché le vicende che poi hanno accompagnato il loro ritorno come gruppo New Perigeo dal 1981 in poi in realtà non hanno lasciato nessuna traccia, si tratta di album mediocri che viravano verso il pop.

Azimut     (1972)

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“Azimut” è il disco di esordio del gruppo, si tratta di un lavoro in perfetto stile jazz-rock, con le sonorità del piano fender in netta evidenza, con perfetti  assoli di chitarra e con il sassofono di matrice jazz che si rincorrono, retti da una ritmica incalzante e precisa, marcata dal grande contrabbasso di Giovanni Tommaso e dalla batteria di Bruno Biriaco.
Incipit magistrale e dalle atmosfere misteriose e rarefatte mentre il pianoforte di Franco d’Andrea segna la strada che tutto il disco percorrerà. Magnifico il brano “Posto di non so dove “ in cui una nenia cantata di Giovanni Tommaso fa da base ad una intrigante incursione di basso e pianoforte mentre il lungo brano “Grandangolo” è un bel crescendo di ritmo e strumenti portati fino all’esasperazione, sono i 9 minuti più belli del disco. “Aspettando il nuovo giorno” è, invece, un gradevole intermezzo che pone le basi al secondo brano più rappresentativo dell’album “ Azimut” in cui è in grande evidenza il contrabbasso e un bell’assolo di pianoforte.  Altro breve intermezzo e poi il brano “36° parallelo”, che chiude il disco  caratterizzato da un sassofono squisitamente jazz e dalla batteria di Biriaco che si cimenta in un assolo molto ampio e variegato, un perfetto virtuosismo per un gigante delle percussioni. Un grande disco che mette il luce le radici jazz dei 5 musicisti ma che non riesce ad essere particolarmente dinamico, il sound risulta un po’ acerbo  ma la  musica e gli arrangiamenti di Giovanni Tommaso creano una magica atmosfera onirica.

 

Track list:

  1. Posto di non so dove
  2. Grandangolo
  3. Aspettando il nuovo Giorno
  4. Azimut
  5. Un respiro
  6. 36° Parallelo

Abbiamo Tutti un Blues da Piangere (1973)

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E’ il disco che sta facendo emergere la maturità stilistica dei musicisti impegnati in virtuosismi complessi che dimostrano, se ce ne fosse bisogno, una grande  preparazione tecnica. E’ un lavoro che ha un’impronta nettamente rock anche se non mancano alcuni accenti jazzati che toccano il loro punto massimo in “Vento, pioggia e sole” un approccio che mette le basi di quel suono originale voluto da Tommaso, il jazz rock progressive. Si apre con un brano cantato sempre con una timbrica eterea “ non c’è tempo da perdere” accompagnato da un bellissimo pianoforte contrapposto alla batteria e ad un lunga coda di chitarra. Molti i pezzi dalle atmosfere meste, la title track  “Abbiamo tutti un blues da piangere” che gioca con pochi accordi e un tranquillo arpeggio di chitarra. Un  pianoforte ed uno strano violino danno il via a “Déja Vu” che prosegue con l’inserimento di un sax  tra le pieghe di una dolce chitarra acustica. Ottimi brani  sono anche “Country” e “Nadir” dolci melodie segnate da ottimi interventi di sax e chitarra elettrica. Un disco un po’ meno immediato e se vogliamo un po’ più ostico per vie dei numerosi assoli e delle improvvisazioni di cui è ricco.

Track list:

  1. Non c’è tempo da perdere
  2. Déjà vu
  3. Rituale
  4. Abbiamo tutti un blues da piangere
  5. Country
  6. Nadir
  7. Vento, pioggia e sole

Genealogia (1974)

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Premetto che il disco mi piace molto ma non posso non constatare che dal punto di vista musicale si tratta di una battuta d’arresto rispetto ai precedenti lavori, c’era negli album precedenti più ricerca del suono e più raffinatezza nel proporre melodie jazz particolarmente innovative mentre in questo lavoro forse si lasciano sorprendere dal successo e vogliono forse piacere a tutti i costi quando cercano suoni più orecchiabili, più puliti e con meno improvvisazioni. Sono lontane le atmosfere  di “Abbiamo tutti un blues da piangere”, nel disco prende probabilmente il sopravvento in sinth che sbroglia i temi complessi a cui ci avevano abituati.  Siamo nel 1974, ed il gruppo è ormai un punto di riferimento della musica jazz-rock italiana e non solo. Oltre ai componenti storici del gruppo, troviamo in aggiunta, alle percussioni in “Polaris” e alla batteria conga in “Via Beato Angelico”, il grande percussionista brasiliano Mandrake. Il titolo, “Genealogia”, vuole sottolineare il background personale che si riflette sul fatto musicale e compositivo, con un recupero cauto e discreto (e comunque immerso nella realtà contemporanea) di echi e tradizioni vissute in prima persona. In effetti, in tutto il disco si ritrovano riferimenti ai luoghi di origine o di vita degli artisti (le montagne e la vecchia Vienna di D’Andrea; la Torre del Lago e la via Beato Angelico del toscano Tommaso, Fasoli riprende i grandi spazi della sua laguna, ecc.). Significativo, inoltre, che in copertina, sotto il titolo di ogni brano, i componenti del gruppo abbiano voluto inserire una frase di un celebre poeta o scrittore, che dovrebbe compendiare il senso della canzone presentata (ne cito una per tutte, secondo me la più bella, che si trova a margine del titolo “Grandi Spazi”, ed attribuita a Bertold Brecht: “Fra le cose sicure, la più sicura è il dubbio”).La perla del disco è la splendida “Polaris”, anche se una menzione particolare merita il brano “Torre del Lago”, con echi che ricordano “After the rain” di Coltrane (un pianoforte molto Tyneriano), in un brano poco jazz senza struttura e senza tema. Straordinario l’assolo di Claudio Fasoli, che si incrocia con quello di Tony Sidney nel brano “(in) vino veritas”. Orecchiabile e famosa, “Via Beato Angelico” potrebbe definirsi la “hit” del disco. Da ascoltare anche con attenzione “Old Vienna”, altro autentico capolavoro del disco. Per concludere, cito le parole di copertina di Franco Fayenz, che così auspicava: “… i cinque componenti del Perigeo hanno concretato un vero gruppo stabile, ben cementato sotto il profilo ideologico e umano, che nel futuro dovrebbe dare frutti sempre migliori.” Bellissima, infine, la copertina realizzata da Ren Pearson .

  1.             Genealogia
  2.             Polaris
  3.             Torre del lago
  4.             Via beato angelico
  5.             (In) vino veritas
  6.             Monti pallidi
  7.             Grandi spazi
  8.             Old Vienna
  9.             Sidney’s call

 

La Valle Dei Tempi (1975)

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Credo che sia questo il disco più conosciuto ed amato del Perigeo, ricordo di averlo registrato in cassetta da un amico e l’ascoltavo negli ultimi anni del liceo, il suono era lieve e forse molto indirizzato verso la fusion, per questo mi accompagnava spesso anche durante lo studio. Un disco molto romantico nell’accezione più nobile del termine, la copertina che raffigura la valle dei templi di Agrigento illuminata era di per sé evocativa e sognante. Il suono è ricco di chitarre e di incursioni di sax che creano quella magia che li ha resi unici nel genere. La caratteristica principale del disco è che è completamente strumentale  ma dinamico, già dal primo brano “Tamale” si denota la carica di energia che pervade tutto questo lavoro anche la sezione ritmica è particolarmente vitale grazie all’intervento del percussionista napoletano Toni Esposito, gli altri brani “La Valle dei templi” e “Cantilena” sono particolarmente intense, nella prima il basso detta il ritmo del piano mentre il sax disegna un tema orecchiabile mentre la chitarra spicca il volo per condurci nell’iperspazio; in “cantilena”, invece, le atmosfere si addolciscono con un bel connubio tra sax e piano, intercalato da lunghi accordi di chitarra. Anche qui viene fuori un buon disco che testimonia la grande abilità dei componenti che affascina per la modernità e per la sua completezza anche se è evidente che guardavano forse un po’ troppo al mercato.

  1.             Tamale
  2.             La valle dei templi
  3.             Looping
  4.             Mistero della firefly
  5.             Pensieri
  6.             Periplo
  7.             Eucalyptus
  8.             Alba di un mondo
  9.             Cantilena
  10.             2000 e due notti
  11.             Un cerchio giallo

Formazione:

Claudio Fasoli: Sax Bruno Biriaco: Batteria Franco D’Andrea: Tastiere  Tony Sidney: Chitarra Giovanni Tommaso: Basso

JANKADJSTRUMMER

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Leonard Cohen cronaca dello show di Lucca 2013 + articolo sulla sua poetica + discografia essenziale by Jankadjstrummer

 

cohen lu cohencohenlu1 Leonard Cohen cronaca dello show di Lucca del 09 luglio 2013

Magnetico, impeccabile e in una atmosfera magica il concerto di Leonard Cohen a Lucca, tanto che per le tre ore mi dimentico dei disagi causati dalla scelta dell’Organizzazione di creare il parterre dei posti numerati molto rialzato che non permette una visuale decente del palco,quando Cohen lo calca, puntualissimo alle 21, l’emozione è palpabile, perchè insieme a questo quasi ottantenne elegante con giacca, gilet e Borsalino entra anche la sua leggenda ed il pubblico lo accoglie con un boato. Cohen si toglie il cappello e se lo porta al petto “Grazie per la bellissima accoglienza, qui è bellissimo, non so quando tornerò ma posso dire che questa sera vi darò tutto quello che ho”, sorride e partono le prime note di ‘Dance me to the end of love’, la esegue in ginocchio davanti alla chitarra, poi uno sguardo alle sue coriste e ancora un sorriso. Tutto è perfetto, senza tentennamenti, eleganza estetica, soft, senza sfarzi anche nella musica della band che lo accompagna, musicisti di comprovata qualità Sharon Robinson (voce) Rosco Beck (basso,voce ), Alexandru Bublitchi (violino), Neil Larsen (tastiere, organo, e armonica), Mitch Wattkins (chitarre), Charlie e Hattie Webb, The Webb Sisters (voce, chitarre, arpa), Rafael Gayol (batterie e percussioni) e John Bilezijkjan (oud). Fortunatamente dai grandi schermi posti ai lati del palco è possibile vedere questo grande gentleman dal viso scavato e dalla corporatura esile dotato di una voce profonda e tenebrosa ma nel contempo vellutata, quasi un personaggio d’altri tempi capace, però, di arrivare ed affascinare anche il pubblico giovane accorso numeroso a conferma che il dualismo che contraddistingue le sue liriche, quel misto di sacro e profano che è sempre stato il suo segno distintivo risulta di estrema attualità. La scaletta dei brani pesca dagli anni Sessanta fino ai giorni nostri e mostra la perfezione di una musica fatta di altissime liriche e melodie senza tempo, parte “Everybody knows”, il pubblico si scalda e lo accompagna con il battito di mani e lui si inchina per ringraziare, arriva “Who by the fire” preceduta da uno stupendo assolo di oud, poi ritmi incalzanti, arpe che impreziosiscono la voce incantatrice di Cohen. C’è spazio per il nuovo album “Old ideas” con l’ accattivante “The gypsy’s wife ” a suggellare il legame tra la sua anima gitana e la Spagna. Il concerto vola via veloce, Cohen riesce a calamitare il pubblico e ad irretirlo, si inginocchia, canta, recita e saltella danzando su di un tappeto persiano le varie : “ the Future” The darkness” e la intensa “ Anthem” introdotta dalla recitazione di un verso che è l’essenza del suo sentire: “Forget your perfect offering ,there is a crack in everything”, Cohen si porta la mano sul cuore perché come dice nel brano “è da lì che viene la luce”. La prima parte del concerto sfuma con i ringraziamenti e con una frase che smorza la tensione emotiva: “Non andate via, torniamo da 15 minuti”, c’è tempo per spostarsi e sorseggiare una birra fresca tra la calca nei vari punti ristoro intorno alla grande piazza Napoleone ormai diventata palcoscenico naturale della estate Lucchese. il concerto riprende con Cohen che saluta il pubblico agitando la mano e imbracciando la chitarra e intonando le note di “Suzanne” occhi chiusi e atmosfere eteree, Il pubblico segue in religioso silenzio, con il fiato sospeso, prima di applaudire per un tempo che sembra infinito e trovando il tempo di fare una dedica a Fabrizio De André che l’ha tradotta e pubblicata sul suo album “Canzoni” Per “If it be your will ” Cohen recita alcuni versi della canzone (“If it be your will that I-speak no more and my voice be still as it was before.. From this broken hill I will sing to you From this broken hill All your praises-they shall ring If it be your will To let me sing”. “Se è un tuo desiderio che io non parli più e che la mia voce sia ancora com’era prima, non parlerò più/ aspetterò fino a che/ non si parlerà in mio favore /se questo è un tuo desiderio che una voce sia vera/ da questa accidentata collina/ tutte le tue lodi risuoneranno se questo è un tuo desiderio/ per lasciarmi cantare. Qui è forte un senso della fede che lui solo riesce a trasmettere l’assoluta devozione per chi è più grande di noi, da umile servo a cui è stata concessa il dono della voce, la canzone, a sorpresa, la lascia cantare alle due coriste, le Webb Sisters accompagnate solo da arpa e chitarra. Una esecuzione magistrale, emozionantissima di rara perfezione musicale che il pubblico ha apprezzato tributando loro un applauso infinito, li accanto un Cohen attonito con il capo chino e il cappello sul cuore. Da brivido. Ma non c’è tempo per romantiche sdolcinatezze, Cohen si toglie la giacca e ci regala una strepitosa “So long, Marianne” che il pubblico canta insieme a lui quasi a suggellare la magia e quel flusso d’amore che solo lui è capace di trasmettere e il pubblico lo sa bene tanto che gli riserverà un applauso senza fine. Si riparte con il basso e la batteria ad annunciare “First we take in Manhattan” , e ancora “Bird on wire” Chelsea N°2 e Sisters of mercy esecuzioni intense che donano emozioni e brividi in questa notte torrida. A questo punto Leonard tira un po’ il fiato, cede il microfono e lascia la scena a Sharon Robinson per una versione commovente di “Alexandra Leaving” che non fa rimpiangere la versione originale, questo secondo set si chiude con un crescendo che lascia senza fiato: prima il classico romantico-pop “I’m Your Man”, eseguito con l’energia di un ventenne e tanta ironia quando riesce ad esaltarsi nei diversi ruoli che si disegna per compiacere la sua amata che poi rappresenta quello che si può definire la donna ideale; nessun cenno di stanchezza, tutto sommato sono passate un paio d’ore dall’inizio, così parte quella che viene considerata una preghiera senza tempo,una versione asciutta, spirituale di Hallelujah cantata con una intensità da pelle d’oca e solo in questo momento si capisce perchè così tanti musicisti la considerano una delle più belle canzoni di sempre e perché un po’ tutti la vogliono cantare e poi “Take this Waltz” ( prendi questo valzer ) una famosissima poesia di Garcia Lorca tradotta da Cohen, qui eseguita con grazia estrema. Infine regala una perfetta esecuzione di “Famous blue raincoat ” capace di spezzare il cuore a tutti e non solo agli amanti delusi. Sembra che sia finito tutto ma l’estasi che Cohen e la sua band riescono a donare continua con dei bis che diventano un’apoteosi, una sublimazione dei sentimenti. Il concerto di questo elegante crooner si chiude con brani che quasi mai vengono inseriti in scaletta: la rarissima cover de The Drifters “Save the last dance for me”, poi “I tried to leave you” per concludere “ Closing time”. Oltre tre ore di concerto memorabile che senza voler esagerare è stato un viaggio nella poesia di Jikan,il Silenzioso cosi come venne chiamato quando fu ordinato monaco buddista e si interrogava sui suoi stati d’animo per capire perchè in certi momenti mi sentiva particolarmente malinconico, condizione che gli ha premesso di scrivere e di cantare con la sua voce seducente le sue immortali poesie o se vogliamo al poeta che scriveva canzoni.

Dal vostro Jankadjstrummer

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A VOCE DALLA LAMA AFFILATA”

Ogni volta che decido di scrivere qualcosa su Leonard Cohen mi assale una forma di pudore e di inadeguatezza che mi fa pensare di non essere all’altezza di parlare di poesia, perché un conto è parlare di musica rock con piglio leggero quasi canzonatorio altro conto è addentrarsi in territori sconosciuti per riuscire a tradurre i sentimenti, le emozioni che si provano leggendo una poesia o ascoltando un brano di Cohen. Questa volta, però, ho deciso di provarci perché ritengo che sia doveroso far conoscere meglio ai lettori del sito questo straordinario cantautore e poeta ma anche abile romanziere. Leonard Cohen è nato in Canada (Monthreal 21/09/1934), da una famiglia di origine ebrea, inizia la sua carriera nel 1956 pubblicando un libro di poesie e dedicandosi alla musica solo a partire dal 1967 dopo essersi trasferito negli USA. Nel 1968 pubblica il suo primo disco “Songs of Leonard Cohen” che ebbe un buon successo.. I lavori successivi sono “Songs from a Room” (1969), “Songs of love and hate” (1971) e “Live songs” (dal vivo). Poi entra in un periodo di crisi personale dal quale esce pochi anni più tardi con la pubblicazione di “New skin for the old ceremony” (1974). Alla fine degli anni ’80 vive in California, a Los Angeles. Dopo l’apocalittico album “The Future” (1992) Cohen decide di ritirarsi in un monastero buddista in California; trascorre così un periodo di meditazione e si prende cura dell’anziano maestro Roshi, dal 1993 fino al 1999. Dopo quasi dieci anni di silenzio discografico la sua casa discografica pubblica i dischi live “Cohen Live” (1994) e “Field Commander Cohen” (2000, registrazioni di concerti del 1978), e “More Greatest Hits” (1997). Dopo il 2000 si rimette al lavoro con la sua vecchia collaboratrice Sharon Robinson e pubblica all’età di 67 anni l’album “Ten New Songs” (2001). Parallelamente all’attività musicale c’è quella letteraria che riassumo brevemente: La sua prima collezione di poesie, “Let Us Compare Mythologies”, viene pubblicata nel 1956 quando è ancora studente universitario. “The Spice Box Of Earth” (1961), la sua seconda collezione, lo lancia verso la fama internazionale, poi nei primi anni ’60 pubblica due romanzi, “The favourite game” (1963) e “Beautiful Losers” (1966). Poi un libro di poesie “The Parasites of Heaven” in cui compaiono alcuni testi (tra cui la celebre “Suzanne”) che successivamente diventeranno canzoni. “Impossibile ascoltare un suo album quando fuori splende il sole” ammonivano i critici, perchè quando Cohen parla dei suoi turbamenti religiosi o delle sue malinconiche crisi esistenziali la sua voce è un rasoio pronto a fendere gli stati d’animo , le passioni e i sentimenti.     “Per sua natura, una canzone deve muovere da cuore a cuore”. È questa la poetica e la filosofia con cui Leonard Cohen ha costruito non solo la sua carriera artistica, ma la sua stessa vita. La sua musica si avvicina alla poesia, al sentimento delle cose non dette, alle allusioni, alle metafore, un linguaggio che è solo dei poeti. Tanti sono stati gli artisti rock  che hanno riconosciuto di essere stati fortemente influenzati dalla musica di questo cantore, Nick Cave, Morrisey ma anche molti altri hanno attinto dal suo repertorio ma in generale dalla sua poetica  e dal suo modo di esprimere le inquietudini. Mi piace ricordare “Hallelujah” resa ancor più famosa e struggente da Jeff Buckley, Suzanne ripresa magistralmente da Fabrizio De Andrè ma anche I’m your man nella interpretazione di Nick cave. Il tempo per Cohen ha un suo ritmo: “Di solito tendo alla tristezza. Per alcune canzoni ho impiegato diversi anni. Nessuna di essa è stata un parto facile, dopo tutto questo è il nostro lavoro. Tutto il resto va spesso in malora, in bancarotta totale, e così quel che rimane è il lavoro, ed è quello che faccio per tutto il tempo, lavorare, creare l’opus della mia vita. Il nostro lavoro è l’unico territorio che possiamo governare e rendere chiaro. Tutte le altre cose rimangono confuse e misteriose”. Cohen nei suoi lavori affronta l’amore, la passione, il viaggio, la sofferenza, la solitudine, e i sentimenti di un uomo che divora letteralmente le sensazioni che prova, con uno straordinario talento che incanta e affascina chi lo legge e lo ascolta. Il suo bagaglio musicale nasce della chanson francese di Jacques Brel e George Brassens, ma il forte influsso dato dalle sue radici ebraiche, gli fa prediligere anche molti temi biblici. Cohen è un poeta che parla contemporaneamente con delicatezza e una forza stilistica unica donando grande profondità ai suoi versi, teneri e passionali, fragili e risoluti al tempo stesso, confermando, ancora una volta la sua grande sensibilità e l’acutezza nel sentire, nel percepire, nel raccontare quella vita che ama con tutto il suo essere e senza riserve.

GLI  ALBUM DI LEONARD COHEN

  • Songs of Leonard Cohen (Columbia, 1968) > ottimo
  • Songs From A Room (Columbia, 1969)
  • Songs Of Love And Hate (Columbia, 1971) > ottimo
  • Live Songs (Columbia, 1972)
  • New Skin For The Old Ceremony (Columbia, 1973)
  • Best of Leonard Cohen (Columbia, 1975)
  • Death Of A Ladies’ Man (Columbia, 1977)
  • Recent Songs (Columbia, 1979)
  • Various Positions (Columbia, 1984)
  • I’m Your Man (Columbia, 1988) > ottimo
  • The Future (Columbia, 1992)
  • Cohen live (Columbia, 1994)
  • Field Commander Cohen (Columbia, 2000)
  • Ten New Songs (Columbia, 2001)
  • The Essential Cohen (anthology, Columbia, 2002)
  • Dear Heather (Columbia, 2004)
  • Live in London ( 2008 )
  • Live in Isle of Wight 1970 ( 2009 ) > ottimo
  1. Songs Of Leonard Cohen E’ il suo album d’esordio,uscito nel 1968 in piena contestazione politica, periodo dominato musicalmente da songwriters  del calibro di Bob Dylan e Joan Baez  che scrivono di emancipazione, lotte e rivoluzioni di popoli mentre lui preferisce parlare di individualità. Le sue liriche sono caratterizzate da binomi che saranno poi sviscerati nel corso della sua carriera “ sesso/religione “ vincente/perdente , profondità / semplicità. I suoi 10 brani colpiscono per la delicatezza, per il tono lieve e romantico, per la dimensione profondamente intimista e per la straordinaria melodia. Si parte con  “Suzanne”, una canzone di straordinaria tenerezza ed eleganza, un personaggio da venerare chiunque essa sia nel binomio che dicevo, madonna/prostituta , Cohen ne narra dolcemente  la sua storia con un suono lieve di chitarra, violino e dolci cori. Poi si passa all’ atmosfera cupa di “Master Song”, con fiati in evidenza e tappeti di tastiere. Si ribaltano i ruoli della dicotomia schiavo-padrone Cohen, infatti, è convinto che nelle sconfitte c’è gloria e che si annullano le differenze tra vinti e vincitori. I toni melodici del flauto accompagnano la  calda e lenta “Winter Lady”, mentre “The Stranger Song” è caratterizzata da un suono veloce di chitarra. Si arriva, poi, alla bellissima “Sisters of Mercy”, una dolce ballata che assomiglia ad una ninna nanna che mal si concilierebbe con le prostitute protagoniste del brano ma  la voce sussurrata e l’arpeggio della  chitarra di Cohen gli imprimono quasi un certo misticismo. La musica sale di ritmo con la stupenda serenata “So Long, Marianne”, con batteria e violino a dar man forte al suo canto. Poi le ballate “Hey That Way To Say Goodbye” in cui si parla di una separazione, “Stories Of The Street”,   storie vere di diseredati, poi la tristezza  di  “Teachers” e  di  “One of Us Cannot Be Wrong”, chiude questo primo capitolo.
  1. Songs From a Room del 1969 è il suo secondo disco, prosegue sulle stesse atmosfere cupe fatte quasi interamente di storie disperate al limite della depressione, gli arrangiamenti sono ben costruiti, scarni e mai pomposi ; l’angosciosa “Seems So Long Ago Nancy”, le epiche “Story Of Isaac” e “The Partisan”  in cui il i temi centrali sono i rapporti tra gli uomini e la violenza della guerra. Il disco è oscuro, meditativo con pochi spunti di allegria se non nei due brani dai toni quasi sognanti che chiudono l’album  “Lady Midnight” e “Tonight Will Be Fine”,

    3. Songs Of Love and Hate del 1971 è l’album che chiude il trittico in cui continua a funzionare il connubio chitarra voce, senza perdere la magia del suono e le atmosfere malinconiche . Le canzoni sono ancora incentrate sulla desolazione e sulla solitudine. Nell’album ci sono delle vere e proprie perle  “Famous Blue Raincoat”, una riflessione sui rapporti d’amicizia che finiscono o che vengono traditi. La struggente ode a Giovanna d’Arco altera e stanca (un altro brano ripreso da De André) e “Last Year’s Man” è la triste condizione dell’uomo in piena crisi esistenziale.

  2. Live Songs è un album live che ripropone brani dei primi 3 album.
  3. New Skin For the Old Ceremony (1973) è un disco che si caratterizza per il suono orchestrale e per dei testi che continuano sulla stessa falsariga dei precedenti scavando sulla condizione del’uomo. Niente di esaltante.
  4. Death Of A Ladies’ Mand del 1977 è l’album del ritorno dopo anni di pausa ma fu un vero flop anche a causa di dissapori con il produttore.
  5. Recent songs del 1979  è, invece,  un disco complesso perché oltre che esplorare i rapporti di coppia si muove su un terreno molto controverso: la religione. Cohen è ebreo ma in questo periodo studia altre religioni tra cui la Scientology  e poi il buddismo che rappresenta per lui una forma di meditazione che va al di la del deismo
    8. Con Various Position del 1984, prosegue il suo cammino religioso e questo lavoro ne risente molto, le canzoni sembrano dei salmi ma sono tanto profonde e cariche di umanità che possono essere definite nobili canzoni d’amore  (“Hallelujah”, “The Law”, “Dance Me To The End Of Love”, “If it Be Your Will”)
  6. I’m Your Man l’album del 1988, è la sintesi di tutta l’amarezza e la paura di affrontare l’esistenza. Un disco accolto finalmente in maniera entusiastica dalla critica americana perché torna con delle ballate formidabili “First We Take Manhattan”, “Tower Of Song” e “Ain’t No Cure For Love”,  che sono un mix di folk e di arrangiamenti moderni in cui c’è spazio anche per il ritmo, si scrolla di dosso l’abito del cantautore impegnato, hippie incapace di rinverdire il suono e le liriche.
  7. The Future del 1992,  è un disco apocalittico perché profetizza un catastrofico futuro per l’Umanità , un pessimismo cosmico riscontrabile in tutto il lavoro ma che rappresenta il suo maggiore successo di pubblico grazie a brani come  “Waiting for the Miracle”, “Closing Time”  e “Anthem”, che abbandonano il classicismo del folk acustico per accostarsi ad un suono più pop, più moderno.

Dopo questo disco Cohen  scompare dalle scene, vive in un monastero zen nei pressi di Los Angeles solo e lontano dal mondo per circa 8 anni fino a che non pubblica:

  1. Ten New Songs del 2001, dieci nuove canzoni registrate con l’aiuto di Sharon Robinson,  il disco comunque risente  ancora il periodo-zen come testimoniano alcuni dei brani (“Love Itself”, “In My Secret Life”).

    12. Dear Heater, è il disco della maturità Cohen ha compiuto 70 anni e con la fedele Sharon Robinson snocciola dei brani che sono dei veri e propri aforismi, stati d’animo e riflessioni sul mondo su tanti temi di interesse: “On That Day” un brano, privo di retorica, sull’11 settembre,  “The Letters”, una riflessione sul tradimento e “ Because Of” un bel brano ironico  dedicato ai suoi amori, bella l’immagine delle donne mature nude che chiedono di essere ammirate almeno per una volta.

JANKADJSTRUMMER

ALLELUIA

Ho sentito parlare di un accordo segreto
che siglò Davide e che è piaciuto al Signore
ma a te non importa tanto la musica, non ‘e vero?
insomma fa cosi’ il quarto, il quinto
la sceso minore e il sollevamento maggiore
il re perplesso che compone alleluia

Alleluia…

Cosi’ la tua fede era forte ma ti serviva la prova,
la vedesti che si bagnava sul tetto
la sua bellezza e il chiarore della luna ti lasciarono senza fiato
lei ti lego’ alla sua sedia della cucina
ti ruppe il tuo trono e ti taglio’ i capelli
e dalle tue labbra tiro’ fuori un alleluia

Alleluia…

Amore, sono stato qui già un’altra volta
ho vista questa stanza e ho camminato su questo pavimento
vivevo da solo prima di conoscerti

ho vista la tua bandiera all’arco di marmo
ma l’amore non è una marcia di vittoria
è un freddo ed un triste “alleluia

Cosi’  una volta mi informavi
di quello che succedeva veramente laggiu’
ma adesso questo non me lo fai più, non ‘e vero?
ma ti ricordi che quando ho traslocato, anche tue la santa colomba avete traslocato
e ogni respiro che avevamo preso era un “alleluia”

Insomma, forse ci sara’ un Dio lassu’
ma cio’ che ho mai imparato dall’amore
è come sparare  a qualcuno che ti punta una pistola
non è un pianto che si ode di notte
non è qualcuno che ha visto la luce
ma è un freddo ed  un triste “alleluia”

cohen

Lo show dei The Zen Circus 28 dicembre 2011 a Lamezia T. ( CZ) Non vi libererete tanto facilmente di noi!

 

-Non vi libererete tanto facilmente di noi!
Lo show dei The Zen Circus” Mercoledi 28 dicembre
2011 al Teatro Grandinetti di Lamezia Terme ( CZ)
Nell’ambito del festival di musica indipendente “ Enjoy Lamezia”, con il patrocinio del Comune di Lamezia, sbarcano “ The Zen Circus” considerati uno delle maggiori band del panorama italiano, l’occasione è allettante mi trovo in città e per niente perderò questa occasione, ancora non ho assistito al nuovo show dopo il loro ultimo album “ Nati per subire” ( recensione del disco nella miaHit di novembre ) e poi sono molto curioso di scoprire come reagirà il pubblico che ritengo poco avvezzo all’ascolto di una band dal passato burrascoso, fatto di musica da strada, energia e tanto folk/punk urlato. Arrivo in un Teatro stracolmo di gente, solo posti in piedi, mi guadagno l’appoggio ad una colonna in platea in attesa del concerto, le cose vanno un po’ per le lunghe, un improbabile presentatore fa gli onori di casa illustrando l’iniziativa peraltro riuscitissima, ricorda il successo del concerto di Brunori Sas, di Dente e prima di presentare brevemente il gruppo, fa esibire un cantautore locale che propone una canzoncina un po’ demenziale ma molto simpatica edironica. Si abbassano le luci, i tre, Appino, Ufo e Karim voce chitarra, basso e batteria prendono posizione sul palco, un arpeggio di chitarra, un coretto e poi una partenza solida, robusta di Appino che con molta aggressività intona “Nel paese che sembra una scarpa” dal loro ultimo lavoro, ilpubblico fino a quel momento ordinato e seduto nelle prime file come obbediente ad un segnale, si alza simultaneamente per raggiungere il palco ed urlare con loro i versi taglienti del brano; Appino è a suo agio con il suo fisico smilzo, jeans skins, i piedi in dentro a reggere la chitarra nella tipica posa punk /rock, la voce potente, limpida che proviene da una bocca grande adornata con dei baffi che ricordano il giovane Carlos Santana, si muove con cadenza ritmata come morso dalla tarantola.
Il pubblico apprezza, si scuote, qualcuno poga ma senza esagerare, consapevoli che sarà una serata molto divertente. Certo il Circo Zen ne ha fatto di strada, agli esordi venivano ritenuti emuli degli statunitensi Violent Femmes perché proponevano un folk punk all’epoca sconosciuto in Italia, col tempo, però, si sono ritagliati una certa popolarità addirittura riuscendo a pubblicare un disco intero con Brian Ritchie leader dei Violent Femmes e a collaborare con i Pixies e i Talking Heads, un gruppo che è cresciuto artisticamente e che aveva uno sbocco sicuro oltrefrontiera, ma, come spesso accade, gli artisti non ragionano in termini utilitaristici, quindi, decidono di rientrare in Italia e proseguire il loro percorso musicale cambiando completamente il loro sound e utilizzando solo testi in italiano. Un alchimia, una contaminazione che media una sorta di cantautorato italiano con il punk rock americano. Il concerto prosegue con i brani più noti sia del nuovo disco che di “ Andate tutti affanculo” il lavoro del 2009, senza lasciare spazio alla produzione vecchia con i testi in inglese; scelta, ritengo, azzeccata perché non c’è stato nessun calo fisiologico del ritmo rimasto sempre ad alti livelli nelle due ore di show ineccepibile dei tre agguerriti musicisti e che ha dato la possibilità al pubblico di interagire, di cantare a squarciagola i brani che hanno fatto “ grandi” i Zen Circus: Ventanni, Figlio di Puttana, la Democrazia semplicemente non funziona, Atto secondo.
Certo i tre pards si presentano in maniera irriverente,scanzonata per parlare di temi sicuramente non leggeri come la politica, la droga, i rapporti familiari difficili ma lo fanno con naturalezza, con ironia e senza
troppe forzature inserendo ritornelli di facile presa e tanta energia vitale nel costruire un suono compatto che il pubblico lametino ha apprezzato molto. Il concerto è andato avanti con molta regolarità e senza colpi di scena, non c’è stata la telefonata dello spacciatore Abdul nella Canzone di Natale e nemmeno la discesa in platea, come di solito fanno, per eseguire un brano in mezzo alla folla, è forse mancato qualcosa di speciale che rende il concerto indimenticabile ma è stato pur sempre un ottimo show. Che dire, il pubblico comunque si è divertito grazie alla carica sorprendente della band e alla sinergia che sono riusciti a creare, un concerto di qualità che solo iniziative sporadiche e poco sistematiche di illuminati amministratori riescono a portare al sud. Il finale è tutta una festa, i ragazzi sotto il palco hanno fatto sentire tutto il loro calore alla band e sono stati i ripetuti ringraziamenti a suggellare il rapporto che per una sera ha legato i tre
ragazzi pisani alla meglio gioventù di Lamezia Terme.
Dal vostro jankadjstrummer
Questa è la scaletta che mi ricordo del concerto:
– Nel paese che sembra una scarpa
– Atto secondo
– Gente di merda
– Andate tutti affanculo
– L’amorale
– L’egoista
– I qualunquisti
– Vecchi senz’esperienza
– Figlio di puttana
– Vana gloria
– La democrazia semplicemente non funziona
– Ragazzo eroe
– Il mattino ha l’oro in bocca
– Canzone di Natale
BIS
– Milanesi al mare – Nati per subire

INTERVISTE ESCLUSIVE – DOLCENERA QUATTRO CHIACCHIERE IN LIBERTA’ by JANKADJSTRUMMER

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Intervista esclusiva di jankadjstrummer a Dolcenera

 Il mondo che cambia, l’incertezza del futuro,  la crisi economica, il precariato,  l’amore, i nuovi percorsi musicali, il web:  quattro chiacchiere con Dolcenera

Ho incontrato  Manu Trane in arte Dolcenera all’indomani dell’uscita del suo lavoro  Evoluzione della specie, un disco  coraggioso che, come sta accadendo da qualche anno, modifica il suo stile; questa volta succede che a fronte di canzoni costruite con lentezza e sofferenza davanti ad un pianoforte si contrappongono scritture più dinamiche che scaturiscono da un diverso approccio nella costruzione del pezzo. Tutto parte, come lei mi dice, dall’ applicazione  Beatles Rock Band  della WII ricevuta in regalo, lì ha provato la batteria elettronica e ne ha studiato l’utilizzo, partendo, quindi, dalla ritmica ha iniziato a scrivere la musica introducendo i vari strumenti, iniziando dalla batteria e dal basso, continuando poi a scrivere  gli arrangiamenti di tutti gli altri strumenti. Questo studio della batteria gli ha permesso di compiere un grande lavoro di “ preproduzione” che gli è servito per fare una scelta coraggiosa che l’ha fatta crescere sia artisticamente che umanamente perché questo coraggio, questa voglia di partecipare, di esserci si è concentrata nella volontà di vincere la paura del futuro e di esorcizzare il senso di vuoto che affligge sia le nuove che le vecchie generazioni costrette a fare i conti con la precarietà, con la crisi economica che ne precludono la crescita e ne minano il desiderio di appagamento e di felicità. Il nuovo disco di Dolcenera rappresenta un ulteriore passo avanti nella continua ricerca e sperimentazione musicale che ha sempre caratterizzato il suo lavoro, questa volta spostando l’asse verso un suono più elettronico, una scelta assolutamente impensabile solo poco tempo fa quando il suono, la sua voce e i testi erano prevalentemente incentrati sulla leggerezza, l’amore e su una costruzione melodica del brano tipicamente italiana. Negli 11 brani che compongono  “Evoluzione della specie”, invece, si respira tutta un’altra aria, un sound squisitamente british dominato dalla ritmica e dalla elettronica e con arrangiamenti che danno a questo lavoro un respiro internazionale.

Jankadjstrummer:  Ciao Manu, partiamo subito a parlare di questo nuovo lavoro  noto tanta voglia di ritmo, cosa ti ha portato a capovolgere il tuo consolidato modello di scrittura del brano?

Dolcenera: “La passione per la ritmica e l’ascolto di tanti album degli anni ‘70, ma anche di quelli attuali di band francesi, inglesi e di Brooklyn, mi hanno spinto a studiare la batteria ; Il rapporto con la batteria è stato talmente avvincente che è cresciuto, in pochi mesi, in maniera esponenziale e ha modificato il mio modo di ascoltare la musica, puntando assiduamente il centro dell’attenzione del brano sulla ritmica, batteria e basso”.

Jankadjstrummer:: Evoluzione della specie, ho l’impressione che sia un grido di dolore e nel contempo di speranza, sei daccordo?

Dolcenera: Il disco racconta la voglia di vincere la paura del futuro e la volontà di creare una nuova epoca, nonostante un diffuso stato di precarietà che tocca tutti;  questi sentimenti percorrono tutto l’album, a volte in via incidentale, a volte in modo più predominante fino a diventare, è vero, un grido. Questo futuro è talmente raccontato che sembra aver perso la sua imprevedibilità. E per una precaria come me è un allontanarsi dalla speranza”.

Jankadjstrummer:  parliamo un po’ dei brani, iniziamo dal singolo ormai diventato una Hit “Il Sole Di Domenica”nasce dalla necessità di mettersi in gioco per sentirsi vivi a costo di turbare la propria serenità e pace interiore?

Dolcenera:  Il brano esprime il valore della diversità, un invito a crescere ed esprimersi, ad essere consapevoli della propria personalità che non deve restare intrappolata in abitudini e sensi di responsabilità. L’uso del termine economico “quotazioni del tuo amore” descrive la contaminazione, nel quotidiano, delle nostre emozioni che cambiano e ci cambiano in modo diverso rispetto ad un partner o una persona che, solo in quanto vicina al nostro mondo, rappresenta, socialmente agli altri, anche noi stessi.

Jankadjstrummer:  Ho visto che utilizzi I Tunes per la commercializzazione dei tuoi dischi e che hai un sito ufficiale particolarmente vivo,caratterizzato da una forte interazione con i tuoi fans,  qual’è il tuo rapporto con il Web?

Dolcenera:  Assolutamente d’amore anche se mi piace più leggere che essere partecipe di questo grande caos. La cosa che non mi piace del web è che ci viene raccontato come se fosse rivoluzionario ed eversivo e invece spesso è una brutta fotografia di ciò che accade in tv. Anche l’idea di pensare di essere “anonimo” è sbagliata: siamo più controllati e condizionati che nella vita reale. Non mi piace l’idea che rubare una mela dal fruttivendolo sia immorale e invece scaricare un film un album sia da furbi e intelligenti. Chi ruba rimarrà sempre fregato. Mi piace del web la possibilità di approfondire con i tempi e gli spazi che ognuno può ritagliarsi mentre il mondo va veloce e consuma tutto in fretta. Questo dà più possibilità di capire e scegliere il meglio. Quanto al rapporto con i fans, ho cercato questa interazione perché volevo capire da dove nasceva la loro passione per le mie canzoni: Tanti di loro li ho conosciuti personalmente nei dopo concerti e sono felice di essere considerata la loro voce, il riferimento dei loro stati d’animo, emozioni…..

Jankadjstrummer:: torniamo al nuovo disco, anche se con connotati diversi e con meno leggerezza i temi dominanti dei tuoi brani sono i sentimenti, l’amore…….

Dolcenera:   Ci sono brani in quest’album in cui l’amore non è mai banalizzato in “Evoluzione della specie ‘Uomo’” parlo della antica ed eterna lotta di relazioni tra uomo e donna; tra l’istinto primordiale al sesso e alla procreazione darwiniana dell’uomo e la complessità della donna con tutte le sue sfumature di pensiero. Non c’è femminismo ma femminilità in questo brano che racconta, con un sorriso, quanto i maschi siano diversi dalle femmine, in un tempo in cui “La parola amore” è abusata “… come il cortisone”, il  brano “Viva “ è un inno all’entusiasmo perduto e all’innamoramento che ci fa tornare a guardare, sentire e amare ogni cosa in modo diverso, come fosse “la prima volta”, perché ci fa sentire diversi in un’epoca autocelebrativa e nostalgica, senza passione, senza attenzione,  dove “sembra inutile avere un’idea”. L’amore è un gioco” , invece è una canzone sul mistero del perdono, massima espressione dell’amore e della capacità di saper sacrificare la propria felicità per l’altro. “Un gioco di alchimie”, nel senso etimologico della parola, della chimica, della fusione di due vite o forse del segreto che lega due vite, che può assurgere ad essere arte ma non scienza: ecco perché l’“amore non si chiede il perché”, non cerca ragioni, “non dà peso alle bugie”, ma forse cerca solo parole di grandi poeti che sono state così vicine alla verità dell’amore.

Jankadjstrummer: hai avuto una carriera folgorante, solo nel 2003 hai vinto il festival di Sanremo categoria “Giovani” ora nel 2011, tanto per parafrasare  il tuo brano, sei ad un passo della felicità o l’hai raggiunta?

Dolcenera:  Come potrei essere infelice, come potrei lamentarmi, otto anni di musica e concerti dal vivo che mi hanno permesso di vedere tanti posti in Europa e conoscere tanta gente, tante storie… ricevere tante emozioni, di fare qualcosa in cui credo fermamente e che è la mia passione. Questo è’ il vero privilegio del mio mestiere! Nel brano “A un passo dalla felicità” descrivo “un atto di coraggio”,  un atto di amore, nella cultura dell’arrivismo, per essere almeno ad un passo dalla felicità, che sembra essere meta irraggiungibile.  Il testo nasce dalla storia di Katy, che, negli anni ’70, ha lasciato la sua famiglia nel Maine, in America, per stare in Italia con la persona di cui si era innamorata.

Jankadjstrummer: il filo conduttore dei tuoi brani resta, comunque, il sentimento, gli stati d’animo,  l’amore incondizionato, senti l’esigenza di scrivere di deriva politica, di problemi sociali, di sfruttamento, tematiche molto care ad un cantautorato anni ’70-80 tipo De Andrè, De Gregori artisti, che come dici, ti hanno influenzata?

Dolcenera:    ideologicamente sono sempre stata di sinistra perché  ritengo che non si debba chiudere gli occhi ed ignorare tutto ritenendo che si tratti di cose più grandi di noi, è una tentazione che tutti dovremmo scongiurare perché è necessario essere presenti,criticare ed avere il coraggio di reagire. Certo sono un po’ disillusa perché quando è nata l’Unione Europea ero convinta che si potesse equilibrare giustizia ed ingiustizia, speravo potesse rappresentare un’ identità che chiamerei “socialista”, di fronte a un’America iper- liberale e un terzo mondo lasciato a se stesso. Pensavo che l’Europa potesse avere questo ruolo di mediatore, di bilancia dei rapporti. Così non è stato perché dal mio punto di vista l’Europa non esiste. Non sono stati in grado di creare veramente un’identità, un Parlamento forte ed efficiente con dei poteri reali. Guardo al Sud del mondo con molta attenzione in questo periodo e l’Africa oggi ha due elementi che insieme fanno la forza: i giovani (proprio quelli che a noi mancano) e l’accesso a internet. Sono queste le due componenti che stanno alla base delle rivoluzioni del nord Africa. “Nel regime delle belle apparenze”, in cui denuncio in maniera cruda e spassionata il  “regime inconcludente delle belle apparenze” nella nostra società, esorto i giovani a non deve far smettere di sognare: “sogna ragazzo sogna”, di raggiungere i propri traguardi e di costruire un mondo migliore.

Jankadjstrummer: Un ultima domanda su alcuni brani del disco che trovo particolarmente intesi e poetici: “Nel cuore e nella mente” e “Il tempo di pretendere”, in entrambi mi sembra che il tema ricorrente sia la passione: per la città di Roma e per alcune scelte che si fanno nonostante tutto, ritieni sia questa la giusta lettura?

Dolcenera:  Si è questa:  In “Nel cuore e nella mente” racconto, in una visione “cinematografica” della bellezza di Roma, (con tutte le sue chiavi di lettura, dalla politica alla storia), del tumulto emotivo, che spinge e frena verso un’altra persona, dell’incapacità di confessare il semplice piacere di stare insieme, tra giochi di sensualità e passeggiate tra le strade del centro storico, “oceani di luce” di una calda estate. Mentre né “Il tempo di pretendere”, c’è la voglia di esprimere se stessi, la propria identità, lasciandosi condurre dalla passione, in qualsiasi posto al mondo ci porterà, a volte come una dannazione (“la strada del talento…” “… si paga con le lacrime”), a volte come il pacifico “senso di abbandono” alla musica, ed altre come “la gioia inconsapevole che nasce dalla fantasia” nel fare musica. È il tempo per tutti di realizzare se stessi!

Jankadjstrummer: grazie Manu per la tua disponibilità ed un in bocca al lupo per il tour che sta partendo.

Dolcenera:  grazie a te.

Un ringraziamento particolare a Gigi Campanile del K6DN Management che mi ha dato l’opportunità di poter intervistare Dolcenera.

JANKADJSTRUMMER

 

 

 

 

 

 

 

 

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Riascoltati per voi – GENESIS NURSERY CRIME

Riascoltati per voi        GENESIS  NURSERY CRIME

Peter Gabriel

Un brivido mi attraversa la schiena  quando parte questo capolavoro dei Genesis  che compie esattamente 47 anni, quindi, recensirlo non è mi viene molto facile, mi sovvengono ricordi di giovinezza, i miei primi ascolti di musica rock che mi hanno  rapito e mi hanno tenuto segregato per sempre a questi suoni, la mia è stata comunque una prigionia dorata , stuzzicante, coinvolgente da cui non mi piace  liberarmi. Ma veniamo a questo capolavoro che per la prima volta vede la formazione del gruppo al completo, (Gabriel/Collins/Banks/Hackett/Rutheford), compreso il diciannovenne Phil Collins alla batteria ed anche alla voce nel  brano “For Absent Friend”. Questo  terzo album in studio del gruppo era molto atteso sia dalla critica che dai fans che aspettavano la conferma di essere in presenza di uno dei gruppi più importanti del progressive rock. Il titolo dell’album è riferito alle filastrocche per i bambini inglesi (nursery rhymes – la parola rhymes è stata sostituita per assonanza con  crimes).

Guardando il disegno di copertina del disco, il testo del brano d’apertura The Musical Box si comprende il bozzetto dell’artista Paul Whitehead che firmerà molte copertine dei Genesis, viene raffigurata una bambina che gioca a croquet con teste umane; c’è una notanel disco che spiega la trama di questo concept-album:
“ Quando Henry Hamilton-Smythe di otto anni andò a giocare a croquet con Cynthia Jane De Blaise-William di nove anni, questa graziosamente gli staccò la testa. Due settimane più tardi, la piccola Cynthia entrà nella camera di Henry e vide la sua musical box (carillon). Quando l’aperse ed incominciò a suonare Old King Cole (una filastrocca popolare), apparve lo spirito di Henry, che rapidamente incominciò ad invecchiare. La canzone riporta le parole che Henry disse a Cynthia, Poi entrò la nurse, e la bambina gettò la musical box contro Henry, che subito scomparve.
I testi di Nursery Crime sono straordinariamente sofisticati, atmosfere da favola che diventano misteriose e con suggestive citazioni letterarie,storiche cariche di tanta ironia, mi viene in mente un passo  di Harold The Barrel  in cui il protagonista si taglia le dita dei piedi per servirli col tè agli ospiti. Il disco si compone di sette brani, si parte con il leggendario The Musical Box, uno dei cavalli di battaglia della band, una sorta di mini suite di oltre dieci minuti articolata in 3 fasi distinte ma concatenate l’una all’altra; la tranquilla partenza dalle atmosfere un po’ medievale poi la dolce voce di Gabriel si amalgama alla perfezione con il suono perfetto e magico della chitarra di Steve Hackett e delle tastiera di Tony Banks una grande suggestione nel crescendo dei cori e dei fiati che culminano in un finale da brivido, gridato fino all’inverosimile da Peter Gabriel in quel “ Why don’t you touch me, touch me, Why don’t you touch me, touch me”. Un brano indimenticabile che lascia sbalorditi e che rappresenta in pieno il suono Genesis. Con “For Absent Friends” si stempera l’atmosfera, si tratta di un breve pezzo acustico e delicato cantato da Phil Collins prima di passare alla scoppiettante.
The Return Of The Giant Hogweed” che parte con formidabili tastiere e diventa, poi,  un duetto con la chitarra di Hackett, un autentico capolavoro di suoni rock progressive in cui le atmosfere drammatiche, tipiche del suono Genesis,  esplodono nel finale, in tutta la loro energia.
In Seven Stones, continuano la “liturgia della drammaticità”, arrichita dai vari mellotron e moog di Banks, che sono sempre omnipresenti nel brano, ma mai “barocchi”, senza cioè appesantirlo mai. Tutto il disco è un gioco di equilibri: in fondo le “keyboards” si affacciavano come strumento nuovo, e fornivano infinite possibilità creative.
Harold The Barrel è una specie di ragtime che vuole spezzare un pò i ritmi tetri proposti fino a quel momento, Banks si mette alle tastiere e Hackett lo scimmiotta un pò con la chitarra.
Harlequin è un piccolo brano di calma, che preannuncia la tempesta di The Fountain of Salmacis: una piccola opera rock-lirica, un crescendo di atmosfere trionfanti, con la voce di Gabriel e il basso di Rutheford a fondersi in un “unicum” di suoni, spazialità di rara bellezza. Ho avuto la fortuna di averne visto un rarissimo filmato in cui i Genesis la suonavano davanti alle telecamere della televisione belga. Un brano da ascoltare da soli, in macchina, al buio e con la luna piena.Seven Stones, dall’andamento ancora fiabesco ma nello stesso tempo arcano, è ben cesellato dalla voce di Peter Gabriel.
La già citata Harold the Barrel e una song divertente ed ironica che esalterà la teatralità dei Genesis nei concerti dal vivo dell’epoca.
Harlequin è un brano lento ed incantevole in cui la parte vocale è affidata ad un coro di Gabriel-Collins.
L’album si chiude con la struggente melodica The Fountain Of Salmacis, ispirata al mito di Ermafrodito e della ninfa Salmace, nella quale si parla di un amore impossibile; memorabile l’apertura affidata al Mellotron e l’ assolo di Steve Hackett!
Sotto il profilo prettamente musicale i Genesis dimostrano una grandissima maturazione rispetto alle due releases precedenti sviluppando sonorità sperimentali, più complesse e ricercate, che avviluppano l’ascoltatore; atmosfere melodiche/acustiche molto profonde sono alternate a ritmiche più sostenute di grande effetto complessivo.
The Musical box =  CARILLION

Suonami Old King Cole
perché io possa unirmi a te
il tuo cuore è così lontano da me ora
ma non importa.
E la nurse ti dirà bugie
di un reame oltre il cielo
ma io mi sono perduto in questo mondo a metà
ma non importa.
Suonami la mia canzone
ecco che viene di nuovo
suonami la mia canzone
ecco che viene di nuovo.
Solo un pochino
solo ancora un poco di tempo
tempo rimasto da vivere fuori dalla vita.
Suonami la mia canzone
ecco che viene di nuovo
suonami la mia canzone
ecco che viene di nuovo.
Lei è una signora, lei ha tempo
spazzolati indietro i capelli e fammi conoscere il tuo volto
lei è una signora, lei ha tempo
spazzolati indietro i capelli e fammi conoscere la tua carne.
Ho atteso qui per così tanto
e tutto questo tempo mi è trascorso accanto
ma non importa adesso
te ne stai là con lo sguardo fisso
senza credere a quello che ho da dire
perchè non mi tocchi, toccami
perchè non mi tocchi, toccami, toccami
toccami ora, ora, ora, ora, ora. 

Tracklist:
01. The Musical Box
02. For Absent Friends
03. The Return Of The Giant Hogweed
04. Seven Stones
05. Harold The Barrel
06. Harlequin
07. The Fountain Of Salmacis

Buon ascolto o riascolto da JANKADJSTRUMMER

Riascoltati per voi – BAUSTELLE – FANTASMA del 2013

 

BAUSTELLE – FANTASMA –  Marzo 2013

baustelleFantasma (Titoli di testa)

  1. Nessuno
  2. La morte (Non esiste più)
  3. Nessuno Muore
  4. Diorama
  5. Primo Principio Di Estinzione
  6. Monumentale
  7. Il Finale
  8. Fantasma (Intervallo)
  9. Cristina
  10. Il Futuro
  11. Secondo Principio Di Estinzione
  12. Maya Colpisce Ancora
  13. L’orizzonte Degli Eventi
  14. La Natura
  15. Contà L’inverni
  16. L’estinzione Della Razza Umana
  17. Radioattività
  18. Fantasma (Titoli di coda)

I Baustelle ne hanno fatto di strada, partiti dall’underground si sono conquistati  un bel seguito di fans, probabilmente per quella voglia di cambiare rotta  che li ha sempre contraddistinti e perchè non si sono mai lasciati condizionare  dal successo che li avrebbe voluti ripiegati su stessi  ma la  band di Montepulciano  non si è mai prestata a questo gioco e in questa sesta prova hanno di nuovo virato lasciandosi alle spalle quegli echi di folk  e di quella formula di canzone intrisa di riferimenti colti per tentare una operazione complicatissima: trattare il disco come un vero e proprio cortometraggio con tanto di titoli di testa/intervallo/titoli di coda inframmezzati da atmosfere catastrofiche pervase di angosce e di tante tensioni accompagnate  da una colonna sonora di ispirazione morriconiana.  Fantasma non è un disco facile anzi direi piuttosto complicato e di non facile decifrazione, le tematiche mescolano come afferma Francesco Bianconi “sesso orale e santità” oppure terra e cielo  “Bisogna avere fede / navigare nello spazio siderale / presupporre l’aldilà / chè siamo troppo avvezzi a stare male” (Radioattività), oppure  “potremo anche avere altre donne da amare / sconfiggere l’ansia e la fragilità / e magari tornare a sbronzarci sul serio / nella stessa taverna di vent’anni fa” (Il futuro). Gli arrangiamenti della polacca Film Harmony Orchestra di Wroclaw, diretta da Enrico Gabrielli, molto aulici e sofisticati a volte diventano una trappola perché rendono i brani troppo seriosi e se vogliamo un po’ noiosi e pesanti,come ad esempio in Cristina oppure ne l’ estinzione della razza umana. Un album, come dicevo,  è caratterizzato dalla  provocazione e dal continuo mutamento di umore quale sintomo di una maturità stilistica e musicale: “Ciò che siamo stati non saremo più” -, anche a costo di deludere. I brani  sono  molto accattivanti  ma solo raramente si fa cenno alla bellezza, si parla di felicità solo ne “La morte (non esiste più)”, visione estatica di un romantico che deve fuggire la realtà per trovare un briciolo di cuore e poter andare avanti, il resto diventa oscurità, pessimismo che alberga in Diorama e sopratutto nella già citata Il futuro, ricordi impressi nella memoria di una gita romana che diventano malinconici: “Il passato adesso è piccolo / ma so ricordarmelo / Io, Gianluca, Rocco e Nicolas / felici nel traffico / di un marciapiede del Pigneto vite fa“. Questi  affreschi di tipo cinematografico sono per i Baustelle la poesia, linfa vitale della vita al contrario del tubo catodico che incarna invece lo squallore del genere umano “Il figlio di troia che appalta la Rai” (Nessuno) e “le antenne di Segrate” che emanano “i segnali ineluttabili del vuoto che verrà” (Maya colpisce ancora). Ancora storie crepuscolari in Monumentale, un ode ai cimiteri dal sapore foscoliano e  Conta l’inverni, dove Bianconi racconta, da una fredda cella, una storia d’amore noir e sanguinosa ( uccide l’amore della sua vita), utilizzando – per la prima volta – il dialetto. Il fantasma del titolo sarà forse il fantasma della nostra esistenza, qualcosa che riappare nella realtà delle nostre vite ma queste sono tutte domande senza risposte come si conviene alla poesia di cui Francesco Bianconi è un grande cultore.

JANKADJSTRUMMER

OFFLAGA DISCO PAX – COLLETTIVO NEOSENSIBILISTA CONTRARIO ALLA DEMOCRAZIA NEI SENTIMENTI.

 

OFFLAGA DISCO PAX – COLLETTIVO  NEOSENSIBILISTA  CONTRARIO ALLA DEMOCRAZIA NEI SENTIMENTI.

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E’ vero, bisogna combattere, bisogna fare un bel po’ di gavetta prima di ritagliarsi un po’ di popolarità e loro, con molta caparbietà, sono riusciti ad imporsi con uno strano modo di concepire la musica e in special modo la canzone. La storia del trio proveniente da Reggio Emilia parte da Firenze con la vittoria al Rock contest 2004 e  con il successivo album d’esordio del 2005  “Socialismo tascabile”  composto da 9 brani che si reggono su di una base musicale che richiama un po’ la new-wave e su testi recitati che affrontano tematiche quasi sempre legate alla loro Emilia: racconti, sensazioni, fatti reali che hanno un unico denominatore comune.: il socialismo  che in questa bassa padana ha rappresentato un modello vincente: Così si trova il busto di Lenin a Cavriago considerata la Berlino Est dell’Emilia Romagna rossa del secondo dopoguerra, ma anche la Praga post-comunista e le lotte della fine degli anni ’70. Sicuramente sono evidenti le analogie e le tematiche affrontate dai CCCP fedeli alla linea a cui gli Offlaga devono molto ( nel disco è inserito il brano Allarme dei CCCP) ma l’approccio è diverso, qui il cantante Max Collini che scrive i testi, è disilluso, non riesce a dare nessuna speranza anzi c’è quasi una sorta di rassegnazione di chi ha perso veramente tutto (“ c’hanno davvero preso tutto…..). Musicalmente le radici sono synthpop anni’80, le influenze sono i Depeche Mode ma anche i Kraftwork.. Quest’’album d’esordio,rimane tutt’ora un cult, una pietra miliare di una musica che privilegia i versi recitati piuttosto che il canto, che si fonda su di una ritmica elettronica inimitabile tanto da essere inserite nei primi 30 album più belli dalla rivista Rolling Stone . Nel 2008, la conferma con l’album  Bachelite, anch’esso mette la loro città, Reggio Emilia, al centro del mondo, qui, come sempre, amata ed odiata ed epicentro del bene e del male, una città  raccontata con il solito piglio ironico ma sempre con grande emozione e grande amore attraverso le storie quasi “non sense” che sono un toccasana per il malessere e per la tristezza che accompagna il tempo che scorre inesorabile. “Socialismo Tascabile” era un disco che parlava della politica e della vita mentre in“Bachelite” c’è tanto sentimento e  amore per la quotidianità vissuta in provincia. Nel 2012 esce questo “Gioco di Società” che forma un  perfetto trittico affrontando, per coerenza,  la nostalgia, i ricordi e gli intimi malesseri. La musica si fa ancora più gelida, Si abbandonano quasi completamente le chitarre per le tastiere, Enrico Fontanelli e Daniele Carretti, depositari del  sound, lavorano sull’essenziale senza tanti fronzoli, una sorta di suoni minimalisti che servono a Max Collini per recitare con molta naturalezza i suoi versi visionari.  Gioco di società, è un amarcord  evocativo del vissuto sociale storicamente morto e sepolto  ma che ha rappresentato per i non giovanissimi una meravigliosa  formazione politica e culturale. Gli Offlaga rifuggono qualsiasi  compromesso, rivendicando semmai uno stile divenuto maturo e personale. E’ una “elettronarrativa elettorale”, come l’autodefiniscono,la copertina del disco ricorda quarto stato di  Pelizza da Volpedo che si trasforma in un coro da stadio (Piccola storia Ultras). La grandezza di questa band sta appunto in questa  narrazione del vissuto, nella capacità di raccontare il senso di appartenenza ad una ideologia di sinistra  e la voglia di partecipazione attiva che ormai è solo nostalgia.  Con gli Offlaga non ci sono mezze misure o si amano o diventano noiosi, io dico che l’approccio all’ascolto deve essere incentrato sul valore da dare ai loro racconti, alle loro storie perché non c’è dubbio che riescono a cogliere delle sfumature che spiazzano l’ascoltatore quando creano quella commistione tra il politico e il privato o quando raccontano di storie vissute dolorosamente.

Formazione Max Collini – voce Daniele Carretti – chitarra, basso ed Enrico Fontanelli – basso, tastiere

Discografia ufficiale

Album

  • 2005 – Socialismo tascabile (Prove tecniche di trasmissione)
  • 2008 – Bachelite
  • 2012 – Gioco di società