LA CANTASTORIE FRANCESCA PRESTÌA RACCONTA LA CALABRIA

LA CANTASTORIE  FRANCESCA PRESTÌA RACCONTA LA CALABRIA

Quando il fuoco della passione resta soffocato per tanto tempo, come è avvenuto per Francesca Prestia, prima o poi esplode ed erutta come un vulcano che non brucia e non porta distruzione, ma  genera una lava culturale  che  diventa un naturale humus per far germogliare e riportare in vita antiche tradizioni musicali. Così dopo anni in cui ha preferito dedicarsi all’educazione delle due figlie, la cantastorie calabrese è tornata a far sentire la sua voce, il suo impegno, proponendo canzoni, ballate e storie che parlano di uomini e donne calabresi, per dare voce e promuovere la cultura calabrese, un bisogno quasi viscerale di “cuntari e cantari” come ama dire lei, raccontare e cantare il coraggio e la voglia di riscatto del popolo calabrese. Francesca Prestìa è una cantastorie ma prima di tutto è una donna che ama la sua terra e la sua gente e che vuole mettere il suo talento, la sua competenza per far conoscere le tante storie di riscatto delle tante donne che si sono ribellate alla ‘ndrangheta ma anche di quelle donne che piangono in silenzio che rimangono soggiogate e sottomesse ai capifamiglia e a quella cultura dominante che stenta ad essere sconfitta.  Già i suoi primi lavori, l’esordio discografico  “Mina Ventu” del 2003 e poi  “A Cantastorij” del 2007, sono intrisi di una forte passione e sono il risultato di serie e approfondite ricerche sul campo riguardanti ogni tipo di fonte, i testi curati e le musiche originali rendono un risultato stilistico perfetto. Mi piace ricordare la sua capacità di spaziare in tutte le arti, dal teatro al cinema e alla letteratura per non parlare delle tante collaborazioni con artisti, cantanti, musicisti, attori, in cui ha dato il suo contribuito a fondere la cultura con la passione. Nella primavera del 2008 compone la colonna sonora dell’opera musico-teatrale JOFHA’, figura del teatro della Commedia dell’arte calabrese, cura lo spettacolo musico-teatrale Penny Petrone che affronta il tema scottante dell’emigrazione ispirandosi agli scritti dell’autrice calabro-canadese Serafina Petrone, affrontando il processo di spaesamento e di disgregazione vissuto dai calabresi in America, storie intrise di vecchie melodie tradizionali. Nell’estate 2009 da vita ad una iniziativa musical-letteraria denominata “Muse calabresi”, dedicata a figure femminili che hanno ispirato la fantasia ed il pensiero di scrittori calabresi quali Mario La Cava, Corrado Alvaro, Franco Costabile, Saverio Strati, traendo spunto per discutere, confrontare le condizioni della donna nel passato, anche se letterarie, con quelle del presente. Nella primavera del 2010 cura la sceneggiatura e le musiche per lo spettacolo musico-teatrale “La Rivolta di Casignana” dello scrittore calabrese Mario la Cava con testimonianze dirette inerenti la prima rivolta contadina nella Calabria degli anni venti. In qualità di cantastorie popolare durante l’estate avvia il progetto “Aedi Viandanti” per raccontare e cantare il quotidiano e lo straordinario, il lavoro, la fame, il mondo dei potenti, la guerra, la violenza, l’amore e l’odio, per far conoscere, per educare e per non far dimenticare. Otello Profazio l’ha definita la sua erede «Qualche anno fa mi presentai a Profazio – ama raccontare Francesca – con la mia chitarrina battente e i miei teli dipinti. Lui si sedette e disse: Vediamo cosa sai fare. Allora incominciai a cantare. E’ stato molto critico ma ha gradito il mio coraggio e oggi ribadisce che sono la sua successora». In effetti Francesca Prestia rappresenta il naturale proseguimento culturale dell’eccellente lavoro di Otello Profazio nella valorizzazione e nelle promozione delle tradizioni musicali e umane della terra calabrese. Con la giusta ironia ed intelligenza e con straordinaria caparbietà cerca di far emergere gli aspetti positivi del suo popolo, spezzando e ridicolizzando i tanti luoghi comuni che vengono attribuiti alla sua gente. Il suono utilizzato è, quasi sempre, la tarantella calabrese suonata con voce appassionata e chitarra battente, così inizia i suoi viaggi nella celebrazione della bellezza e della storia della regione, non mancano, però, le ballate e i suoi racconti coinvolgenti affollati di personaggi coraggiosi che, per amore della propria terra, lottano per la giustizia, la libertà e per un meritato riscatto sociale e culturale. Francesca ha restituito al cantastorie la sua funzione primaria, quell’impegno sociale che nel tempo era stato abbandonato per lasciare il posto ad una più “tranquilla” tradizione popolare. Le ballate di Francesca nascono da incontri normali, dal quotidiano “Io ascolto e mi lascio interrogare da ciò che accade intorno a me o da quello che leggo nel giornale”. Un esempio per tutti è : la “Ballata di Lea” (Ciangiti assema a mia, ciangiti forti! Ciangiti ‘e chista donna ‘a dura sorti! Piangete insieme a me, piangete forte! Piangete di questa donna la dura sorte! Almenu ppe mia figghja ncuna cosa ha da cangiàra. A iddha nci dugnu a vita cchi a mia non po’ tornàra – Nu jornu fu rapita e Lea neppuru l’umbra. Nta l’acidu, si dicia, sciogghjutu u corpu fu » ( «Almeno per mia figlia qualcosa deve cambiare. A lei darò la vita che a me non può tornare – Un giorno fu rapita, di Lea neppure l’ombra: nell’acido, si dice, disciolto il corpo fu») che si ispira alla vicenda della pentita di ‘ndrangheta, trucidata dal suo stesso compagno e padre di sua figlia. Francesca Prestìa rappresenta la voce  che tiene in vita la tradizione musicale e di denuncia nel sud, sulla scia di altre grandi interpreti del passato, dalla siciliana Rosa Balestrieri a Giovanna Marini: il cantastorie, con le sue ballate, – afferma –  ha il compito di fare cronaca, oggi nessuno canta il presente e allora bisogna comporre. Il suo repertorio, come dicevo, è dedicato alle querce del Meridione a quelle  figure femminili straordinarie che nel loro piccolo si sono ribellate:  non possiamo – dice Francesca – lasciare in eredità alle giovani generazioni questa Calabria dove le eccellenze, le persone in gamba, i lavoratori, vengono sconfitti da una classe politica marcia, collusa con la ndrangheta che porta voti alle elezioni. La mia generazione può giocarsi una carta importante con i figli, educarli al coraggio, a condividere un progetto di Calabria diversa. Solo una alleanza al femminile può salvare questa terra, io lotto come donna di cultura, lotto con la mia chitarrina per risvegliare gli animi e costringere i cittadini a reagire, del resto fare il cantastorie è una scelta politica. Mi sento un’agente politico della società, che attraverso i teli e la chitarra lascia messaggi più impressi che un comizio elettorale. Questo in sintesi il messaggio forte di Francesca che non deve rimanere confinato alla Calabria ma che va esportato, perché i problemi della Calabria sono, quasi sempre, i problemi dell’Italia intera.

Jankadjstrummer

“La rivoluzione non sara’ trasmessa in tv” Gil Scott-Heron (Chicago, 1/4/ 1949 – New York, 27 /5/ 2011)

“La rivoluzione non sara’ trasmessa in tv”.

Gil Scott-Heron (Chicago, 1/4/ 1949 – New York, 27 /5/ 2011)

Eravamo all’inizi degli anni ’70  quando Heron incise questo grido di battaglia diventato poi  l’inno dei ghetti neri delle periferie d’America dove era forte la discriminazione e la voglia di riscatto dei giovani, lui diventa, quindi,  la voce, la poesia,  lo spoker word cioè il Dylan dei neri che recitata su basi musicali soul e jazz; l’improvvisazione, per lui, diventa un tratto distintivo, l’impegno civile, la denuncia ma anche la vita di tutti i giorni viene trasposto in musica con molta originalità per quei tempi, tanto che ne  ricava uno stile, un modo di essere che diventerà, poi, il RAP che ora conosciamo. Oltre che per il suo attivismo militante afroamericano  Heron ha avuto il merito di rinnovare la musica nera, con una serie di album che lo portarono al successo e, soprattutto, influenzarono una intera nuova generazione di musicisti che, dalla fine del decennio, iniziarono a percorrere le strade del rap seguendo il suo insegnamento. «Non saremmo qui a fare quello che facciamo e come lo facciamo senza il tuo lavoro», ha commentato Chuck D dei Public Enemy, così come hanno fatto moltissimi altri artisti hip hop ( Eminem,Beatsie Boys) che hanno voluto tributare l’ ultimo omaggio al poeta/musicista. Iniziò a incidere musica nel 1970 con l’album Small Talk at 125th & Lennox con uno stuolo di musicisti jazz. L’album includeva Whitey on the Moon un brano in cui si scagliava  contro i grandi mezzi di comunicazione posseduti dai bianchi e dimostrava l’ignoranza della middle class, tenuta all’oscuro dai reali problemi delle grandi città. Poi Pieces of a Man del 1971 in cui i brani tornano ad essere canzoni con una struttura classica con poche parole in musica e senza sermoni recitati liberamente. Il suo più grande successo fu nel 1978, “The Bottle”, prodotto insieme al suo eterno collaboratore Brian Jackson, che arrivò in vetta alle classifiche R&B. Durante gli anni ottanta Scott-Heron continuò a pubblicare canzoni, attaccando di frequente l’allora presidente Ronald Reagan e la sua politica conservatrice: “L’idea riguarda il fatto che questo paese vuole nostalgia. Essi vogliono tornare indietro quanto possibile – anche se è solo fino alla settimana scorsa. Non per affrontare oggi o domani, ma per affrontare il passato. E ieri era il giorno dei nostri eroi del cinema a cavallo che arrivavano a salvare tutti all’ultimo momento. Il giorno dell’uomo col cappello bianco o dell’uomo sul cavallo bianco – o dell’uomo che arrivava sempre per salvare l’America all’ultimo momento – arrivava sempre qualcuno per salvare l’America all’ultimo momento – specialmente nei film di serie B. E quando l’America si ritrovò in difficoltà ad affrontare il futuro, cercarono persone come John Wayne. Ma dato che John Wayne non era più disponibile, si risolsero per Ronald Reagan – e questo ci ha messo in una situazione che noi possiamo solo guardare – come un film di serie B” (Gil Scott-Heron, “B” Movie) Poi, dal 1985 in poi, è iniziato il declino e la crisi dovuta soprattutto all’uso di droga, che lo ha allontanato dal mondo della musica, portandolo a rescindere il contratto con la sua casa discografica Arista e ad essere dimenticato dai grandi media. Nel 2001 Gil Scott-Heron fu arrestato per droga e per violenza privata, poi la morte della madre, la povertà e la cocaina lo portarono in una spirale negativa. Uscito di prigione nel 2002, Gil Scott-Heron lavorò con i Blackalicious e apparve nel loro album Blazing Arrow. Negli ultimi anni passò molti problemi giudiziari sempre legati all’uso di droga, era tornato, in grande stile, alla musica nel 2007 e poi nel 2010 pubblicò il suo primo album dopo dieci anni di silenzio, “I’ m new here”,  che ho recensito da queste pagine e che la critica e il pubblico accolse favorevolmente. A proposito del suo brano di maggiore successo “The Revolution Will Not  Be Televised” mi piace ricordare che, a distanza di un quarantennio, questo invito a mollare lo schermo e scendere in piazza, si sarebbe trasformato, in “The revolution will be tweeted”, cioè nella capacità dei social network di costruire e rappresentare in piena autonomia la rivolta dei giovani iraniani, tunisini ed egiziani; inoltre The revolution will not be televised, e’ il titolo di un libro dedicato alle potenzialita’ democratiche di Internet, scritto dall’intellettuale Joe Trippi vicino ai democratici americani). “La rivoluzione non sara’ trasmessa in tv/ la rivoluzione non andra’ in replica, fratelli/ la rivoluzione sara’ dal vivo”.

Discografia essenziale

  • Small Talk at 125th & Lenox Ave. 1970 Flying Dutchman Records
  • Pieces of a Man. 1971 Flying Dutchman Records
  • Free Will. 1972 Flying Dutchman Records
  • The first minute of a new day – The Midnight Band. 1975 Arista Records
  • From South Africa to South Carolina. 1975 Arista Records
  • It’s your world – Live. 1976 Arista Records
  • Bridges. 1977 Arista Records
  • Secrets. 1978 Arista Records
  • The Mind of Gil Scott-Heron 1979 Arista Records
  • Real eyes. 1980 Arista Records
  • Reflections. 1981 Arista Records
  • Moving target. 1982 Arista Records
  • Tales of Gil Scott-Heron and his Amnesia Express. 1990 Arista Records
  • Glory – the Gil Scott-Heron collection. 1990 Arista Records
  • Spirits. 1994 TVT Records
  • I’m new here. 2010 XL Recordings

R.I.P.  da Jankadjstrummer gil gil2

RIASCOLTATI PER VOI – JEFF BUCKLEY – Grace – 1994. by Jankadjtrummer

 

she’s the tear that hangs inside my soul forever…lei è la lacrima che resterà sospesa nella mia anima per sempre…  (Jeff Buckley, “Lover, you should’ve come “, dall’album Grace, 1994)

“Questo ragazzo è talento puro, deve essere nostro!” Sentenziò il responsabile della Columbia records quando assistette ad una esibizione di Buckley. Jeff Buckley classe 1966 era figlio della violoncellista Mary Guibert e del cantante Tim Buckley. Jeff iniziò a suonare la chitarra da bambino, era la sua grande passione. Suonò in vari gruppi ma solo nel 1990 avvenne la svolta: fu invitato a New York, ad un raduno di commemorazione del padre Tim deceduto per overdose, li incontrò il chitarrista Gary Lucas ( già nel gruppo di Frank Zappa )  con cui iniziò un vero sodalizio che lo portò, nel 1994,  alla pubblicazione del suo disco manifesto “Grace”. Purtroppo, oltre alle doti vocali, suo padre gli aveva lasciato in eredità anche un destino nefasto, e così, all’età di trent’anni, morì annegato in un fiume a Memphis. Rimetto sul piatto questo magnifico disco d’esordio di Jeff, 10 tracce suddivise tra canti liturgici e angelici  di forte impatto spirituale e ballate pop/rock/soul sorprendenti, un disco che non esagero a definire “pura Arte “. “Mojo Pin“, il pezzo che apre questo lavoro, corre  tra gli arpeggi delicati della chitarra di Gary Lucas, rullate di batteria e la voce quasi sussurrata ed  eterea di Jeff che man mano prende corpo fino a straripare e prendere il sopravvento sugli strumenti, un testo in cui l’amore non è mai banalizzato; Grace, la title track, rappresenta il viaggio contrastato tra la santità e gli inferi, che è resa immortale dalla progressione vocale di Buckley  che cambia di intensità e umore fino all’urlo finale che è da pelle d’oca. Il pezzo nasce da un sogno in cui una ragazza di colore si spara di eroina durante un rito voodoo. Il testo poi però diventa narrazione di sé stesso, “Grace” è una delle canzoni più belle di tutti i tempi. È Jeff che parla alla sua Rebecca di ciò che accadrà. I bellissimi versi iniziali recitano: “C’è la luna che chiede di restare/ abbastanza a lungo perchè le nuvole mi portino via,/ sento che la mia ora sta arrivando/ ma io non ho paura…“. Buckley si ferma. Poi sibila: “afraid… to die”! sembra una profezia della sua fine. “Last Goodbye” è una canzoncina senza pretese ma che diventa  struggente e poetica con la sua voce, rappresenta il lato più pop di Jeff, dove il termine “pop” va inteso nella sua accezione più nobile.. Dopo i tre primi gioielli di produzione propria ci presenta una cover di”Lilac Wine“, fa suo un testo malinconico in linea con uno “stile Buckley” una melodia che esalta le qualità di interprete di Jeff, che stavolta abbandona gli acuti per cantare in maniera più dolce perché la canzone richiede un’intensità quasi religiosa, un crescendo morbido del canto tra gli arpeggi di chitarra di Lucas. “So Real” emana un’atmosfera cupa, con i rintocchi grevi del basso e della batteria e le note della chitarra quasi dark, è certamente un brano rock “immediato”, ma non per questo ha qualcosa in meno degli altri: anche qui infatti Jeff si conferma grande interprete, grande compositore, grande autore di testi. La seconda cover: “Hallelujah“, pesca nel classico repertorio di Leonard Cohen, Jeff, qui,  tocca livelli di intensità interpretativa altissimi tanto che ritengo  la sua personalissima versione di gran lunga superiore all’originale. Proseguendo ci porta da un’atmosfera mistica ad una triste, malinconica: “Lover, You Should’ve Come Over” sale lentamente d’intensità, nel frattempo ti penetra nel cuore e nel cervello e ti sembra di veder passare il  corteo funebre, i tristi parenti con le scarpe bagnate dalla pioggia. “Lover” è la canzone d’amore di Jeff Buckley, una magnifica interpretazione che rende onore a delle liriche poetiche, da ascoltare e riascoltare più volte. “Corpus Christi Carol” ed “Eternal Life” sono due brani  di natura opposta il il primo è un canto religioso, sacro, il secondo è invece sorretto da chitarre impazzite quasi blasfeme. Solo sussurrata la prima. Un enorme grido di dolore la seconda; la sensazione è che il contrasto fra la violenza di questo pezzo e la pacatezza di quello precedente, rappresentino le due anime di Buckley.  La chiusura del disco è un’altra gemma, “Dream Brother“. Il testo è ancora una volta pura poesia, e la musica passa dall’arpeggio iniziale, quasi orientaleggiante, a un intermezzo strumentale di notevole interesse.Di tutte le canzoni di Jeff, questa è quella che più risente dell’influenza del padre Tim, sia  musicalmente che nel testo: rivolto a un proprio amico, Jeff lo prega di non lasciarsi morire, perché altrimenti i suoi figli sarebbero andati incontro allo stesso destino che Tim riservò a lui. Il disco straborda di candore, di purezza ma anche di tragedia, musicalmente Jeff prende il jazz, il soul, il punk  generi all’apparenza inconciliabili e riesce a tenerli insieme, credo che sia questa la sua genialità e la sua arte. Lui un ragazzo vissuto in forte solitudine, ha cercato qualcosa su cui aggrapparsi e l’ha trovato in Rebecca la musa ispiratrice di almeno la metà delle canzoni, la donna che definisce angelo terreno, che lotta affinché gli uomini rimangano con lei, qui sulla Terra, in mezzo a quest’inferno che è la vita (“Wait in the fire”), ma la tragedia incombe, lui sente che la morte arriverà presto a prenderlo, perché il destino così ha deciso. Non voglio essere retorico ma credo che sia impossibile ascoltare questo disco senza  provare un pizzico di commozione, senza  lasciarsi andare a riflessioni sulla propria vita, sui propri sentimenti, senza vagare con la mente e scavare nelle proprie inquietudini e nei propri dolori. Grazie Jeff.

Buon ascolto da JANKADJSTRUMMER

Discografia essenziale

  • 1994 – Grace
  • 1998 – Sketches for My Sweetheart the Drunk ( postumo )
  • 2007 – So Real: Songs from Jeff Buckley ( raccolta)

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Leonard Cohen cronaca dello show di Lucca 2013 + articolo sulla sua poetica + discografia essenziale by Jankadjstrummer

 

cohen lu cohencohenlu1 Leonard Cohen cronaca dello show di Lucca del 09 luglio 2013

Magnetico, impeccabile e in una atmosfera magica il concerto di Leonard Cohen a Lucca, tanto che per le tre ore mi dimentico dei disagi causati dalla scelta dell’Organizzazione di creare il parterre dei posti numerati molto rialzato che non permette una visuale decente del palco,quando Cohen lo calca, puntualissimo alle 21, l’emozione è palpabile, perchè insieme a questo quasi ottantenne elegante con giacca, gilet e Borsalino entra anche la sua leggenda ed il pubblico lo accoglie con un boato. Cohen si toglie il cappello e se lo porta al petto “Grazie per la bellissima accoglienza, qui è bellissimo, non so quando tornerò ma posso dire che questa sera vi darò tutto quello che ho”, sorride e partono le prime note di ‘Dance me to the end of love’, la esegue in ginocchio davanti alla chitarra, poi uno sguardo alle sue coriste e ancora un sorriso. Tutto è perfetto, senza tentennamenti, eleganza estetica, soft, senza sfarzi anche nella musica della band che lo accompagna, musicisti di comprovata qualità Sharon Robinson (voce) Rosco Beck (basso,voce ), Alexandru Bublitchi (violino), Neil Larsen (tastiere, organo, e armonica), Mitch Wattkins (chitarre), Charlie e Hattie Webb, The Webb Sisters (voce, chitarre, arpa), Rafael Gayol (batterie e percussioni) e John Bilezijkjan (oud). Fortunatamente dai grandi schermi posti ai lati del palco è possibile vedere questo grande gentleman dal viso scavato e dalla corporatura esile dotato di una voce profonda e tenebrosa ma nel contempo vellutata, quasi un personaggio d’altri tempi capace, però, di arrivare ed affascinare anche il pubblico giovane accorso numeroso a conferma che il dualismo che contraddistingue le sue liriche, quel misto di sacro e profano che è sempre stato il suo segno distintivo risulta di estrema attualità. La scaletta dei brani pesca dagli anni Sessanta fino ai giorni nostri e mostra la perfezione di una musica fatta di altissime liriche e melodie senza tempo, parte “Everybody knows”, il pubblico si scalda e lo accompagna con il battito di mani e lui si inchina per ringraziare, arriva “Who by the fire” preceduta da uno stupendo assolo di oud, poi ritmi incalzanti, arpe che impreziosiscono la voce incantatrice di Cohen. C’è spazio per il nuovo album “Old ideas” con l’ accattivante “The gypsy’s wife ” a suggellare il legame tra la sua anima gitana e la Spagna. Il concerto vola via veloce, Cohen riesce a calamitare il pubblico e ad irretirlo, si inginocchia, canta, recita e saltella danzando su di un tappeto persiano le varie : “ the Future” The darkness” e la intensa “ Anthem” introdotta dalla recitazione di un verso che è l’essenza del suo sentire: “Forget your perfect offering ,there is a crack in everything”, Cohen si porta la mano sul cuore perché come dice nel brano “è da lì che viene la luce”. La prima parte del concerto sfuma con i ringraziamenti e con una frase che smorza la tensione emotiva: “Non andate via, torniamo da 15 minuti”, c’è tempo per spostarsi e sorseggiare una birra fresca tra la calca nei vari punti ristoro intorno alla grande piazza Napoleone ormai diventata palcoscenico naturale della estate Lucchese. il concerto riprende con Cohen che saluta il pubblico agitando la mano e imbracciando la chitarra e intonando le note di “Suzanne” occhi chiusi e atmosfere eteree, Il pubblico segue in religioso silenzio, con il fiato sospeso, prima di applaudire per un tempo che sembra infinito e trovando il tempo di fare una dedica a Fabrizio De André che l’ha tradotta e pubblicata sul suo album “Canzoni” Per “If it be your will ” Cohen recita alcuni versi della canzone (“If it be your will that I-speak no more and my voice be still as it was before.. From this broken hill I will sing to you From this broken hill All your praises-they shall ring If it be your will To let me sing”. “Se è un tuo desiderio che io non parli più e che la mia voce sia ancora com’era prima, non parlerò più/ aspetterò fino a che/ non si parlerà in mio favore /se questo è un tuo desiderio che una voce sia vera/ da questa accidentata collina/ tutte le tue lodi risuoneranno se questo è un tuo desiderio/ per lasciarmi cantare. Qui è forte un senso della fede che lui solo riesce a trasmettere l’assoluta devozione per chi è più grande di noi, da umile servo a cui è stata concessa il dono della voce, la canzone, a sorpresa, la lascia cantare alle due coriste, le Webb Sisters accompagnate solo da arpa e chitarra. Una esecuzione magistrale, emozionantissima di rara perfezione musicale che il pubblico ha apprezzato tributando loro un applauso infinito, li accanto un Cohen attonito con il capo chino e il cappello sul cuore. Da brivido. Ma non c’è tempo per romantiche sdolcinatezze, Cohen si toglie la giacca e ci regala una strepitosa “So long, Marianne” che il pubblico canta insieme a lui quasi a suggellare la magia e quel flusso d’amore che solo lui è capace di trasmettere e il pubblico lo sa bene tanto che gli riserverà un applauso senza fine. Si riparte con il basso e la batteria ad annunciare “First we take in Manhattan” , e ancora “Bird on wire” Chelsea N°2 e Sisters of mercy esecuzioni intense che donano emozioni e brividi in questa notte torrida. A questo punto Leonard tira un po’ il fiato, cede il microfono e lascia la scena a Sharon Robinson per una versione commovente di “Alexandra Leaving” che non fa rimpiangere la versione originale, questo secondo set si chiude con un crescendo che lascia senza fiato: prima il classico romantico-pop “I’m Your Man”, eseguito con l’energia di un ventenne e tanta ironia quando riesce ad esaltarsi nei diversi ruoli che si disegna per compiacere la sua amata che poi rappresenta quello che si può definire la donna ideale; nessun cenno di stanchezza, tutto sommato sono passate un paio d’ore dall’inizio, così parte quella che viene considerata una preghiera senza tempo,una versione asciutta, spirituale di Hallelujah cantata con una intensità da pelle d’oca e solo in questo momento si capisce perchè così tanti musicisti la considerano una delle più belle canzoni di sempre e perché un po’ tutti la vogliono cantare e poi “Take this Waltz” ( prendi questo valzer ) una famosissima poesia di Garcia Lorca tradotta da Cohen, qui eseguita con grazia estrema. Infine regala una perfetta esecuzione di “Famous blue raincoat ” capace di spezzare il cuore a tutti e non solo agli amanti delusi. Sembra che sia finito tutto ma l’estasi che Cohen e la sua band riescono a donare continua con dei bis che diventano un’apoteosi, una sublimazione dei sentimenti. Il concerto di questo elegante crooner si chiude con brani che quasi mai vengono inseriti in scaletta: la rarissima cover de The Drifters “Save the last dance for me”, poi “I tried to leave you” per concludere “ Closing time”. Oltre tre ore di concerto memorabile che senza voler esagerare è stato un viaggio nella poesia di Jikan,il Silenzioso cosi come venne chiamato quando fu ordinato monaco buddista e si interrogava sui suoi stati d’animo per capire perchè in certi momenti mi sentiva particolarmente malinconico, condizione che gli ha premesso di scrivere e di cantare con la sua voce seducente le sue immortali poesie o se vogliamo al poeta che scriveva canzoni.

Dal vostro Jankadjstrummer

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A VOCE DALLA LAMA AFFILATA”

Ogni volta che decido di scrivere qualcosa su Leonard Cohen mi assale una forma di pudore e di inadeguatezza che mi fa pensare di non essere all’altezza di parlare di poesia, perché un conto è parlare di musica rock con piglio leggero quasi canzonatorio altro conto è addentrarsi in territori sconosciuti per riuscire a tradurre i sentimenti, le emozioni che si provano leggendo una poesia o ascoltando un brano di Cohen. Questa volta, però, ho deciso di provarci perché ritengo che sia doveroso far conoscere meglio ai lettori del sito questo straordinario cantautore e poeta ma anche abile romanziere. Leonard Cohen è nato in Canada (Monthreal 21/09/1934), da una famiglia di origine ebrea, inizia la sua carriera nel 1956 pubblicando un libro di poesie e dedicandosi alla musica solo a partire dal 1967 dopo essersi trasferito negli USA. Nel 1968 pubblica il suo primo disco “Songs of Leonard Cohen” che ebbe un buon successo.. I lavori successivi sono “Songs from a Room” (1969), “Songs of love and hate” (1971) e “Live songs” (dal vivo). Poi entra in un periodo di crisi personale dal quale esce pochi anni più tardi con la pubblicazione di “New skin for the old ceremony” (1974). Alla fine degli anni ’80 vive in California, a Los Angeles. Dopo l’apocalittico album “The Future” (1992) Cohen decide di ritirarsi in un monastero buddista in California; trascorre così un periodo di meditazione e si prende cura dell’anziano maestro Roshi, dal 1993 fino al 1999. Dopo quasi dieci anni di silenzio discografico la sua casa discografica pubblica i dischi live “Cohen Live” (1994) e “Field Commander Cohen” (2000, registrazioni di concerti del 1978), e “More Greatest Hits” (1997). Dopo il 2000 si rimette al lavoro con la sua vecchia collaboratrice Sharon Robinson e pubblica all’età di 67 anni l’album “Ten New Songs” (2001). Parallelamente all’attività musicale c’è quella letteraria che riassumo brevemente: La sua prima collezione di poesie, “Let Us Compare Mythologies”, viene pubblicata nel 1956 quando è ancora studente universitario. “The Spice Box Of Earth” (1961), la sua seconda collezione, lo lancia verso la fama internazionale, poi nei primi anni ’60 pubblica due romanzi, “The favourite game” (1963) e “Beautiful Losers” (1966). Poi un libro di poesie “The Parasites of Heaven” in cui compaiono alcuni testi (tra cui la celebre “Suzanne”) che successivamente diventeranno canzoni. “Impossibile ascoltare un suo album quando fuori splende il sole” ammonivano i critici, perchè quando Cohen parla dei suoi turbamenti religiosi o delle sue malinconiche crisi esistenziali la sua voce è un rasoio pronto a fendere gli stati d’animo , le passioni e i sentimenti.     “Per sua natura, una canzone deve muovere da cuore a cuore”. È questa la poetica e la filosofia con cui Leonard Cohen ha costruito non solo la sua carriera artistica, ma la sua stessa vita. La sua musica si avvicina alla poesia, al sentimento delle cose non dette, alle allusioni, alle metafore, un linguaggio che è solo dei poeti. Tanti sono stati gli artisti rock  che hanno riconosciuto di essere stati fortemente influenzati dalla musica di questo cantore, Nick Cave, Morrisey ma anche molti altri hanno attinto dal suo repertorio ma in generale dalla sua poetica  e dal suo modo di esprimere le inquietudini. Mi piace ricordare “Hallelujah” resa ancor più famosa e struggente da Jeff Buckley, Suzanne ripresa magistralmente da Fabrizio De Andrè ma anche I’m your man nella interpretazione di Nick cave. Il tempo per Cohen ha un suo ritmo: “Di solito tendo alla tristezza. Per alcune canzoni ho impiegato diversi anni. Nessuna di essa è stata un parto facile, dopo tutto questo è il nostro lavoro. Tutto il resto va spesso in malora, in bancarotta totale, e così quel che rimane è il lavoro, ed è quello che faccio per tutto il tempo, lavorare, creare l’opus della mia vita. Il nostro lavoro è l’unico territorio che possiamo governare e rendere chiaro. Tutte le altre cose rimangono confuse e misteriose”. Cohen nei suoi lavori affronta l’amore, la passione, il viaggio, la sofferenza, la solitudine, e i sentimenti di un uomo che divora letteralmente le sensazioni che prova, con uno straordinario talento che incanta e affascina chi lo legge e lo ascolta. Il suo bagaglio musicale nasce della chanson francese di Jacques Brel e George Brassens, ma il forte influsso dato dalle sue radici ebraiche, gli fa prediligere anche molti temi biblici. Cohen è un poeta che parla contemporaneamente con delicatezza e una forza stilistica unica donando grande profondità ai suoi versi, teneri e passionali, fragili e risoluti al tempo stesso, confermando, ancora una volta la sua grande sensibilità e l’acutezza nel sentire, nel percepire, nel raccontare quella vita che ama con tutto il suo essere e senza riserve.

GLI  ALBUM DI LEONARD COHEN

  • Songs of Leonard Cohen (Columbia, 1968) > ottimo
  • Songs From A Room (Columbia, 1969)
  • Songs Of Love And Hate (Columbia, 1971) > ottimo
  • Live Songs (Columbia, 1972)
  • New Skin For The Old Ceremony (Columbia, 1973)
  • Best of Leonard Cohen (Columbia, 1975)
  • Death Of A Ladies’ Man (Columbia, 1977)
  • Recent Songs (Columbia, 1979)
  • Various Positions (Columbia, 1984)
  • I’m Your Man (Columbia, 1988) > ottimo
  • The Future (Columbia, 1992)
  • Cohen live (Columbia, 1994)
  • Field Commander Cohen (Columbia, 2000)
  • Ten New Songs (Columbia, 2001)
  • The Essential Cohen (anthology, Columbia, 2002)
  • Dear Heather (Columbia, 2004)
  • Live in London ( 2008 )
  • Live in Isle of Wight 1970 ( 2009 ) > ottimo
  1. Songs Of Leonard Cohen E’ il suo album d’esordio,uscito nel 1968 in piena contestazione politica, periodo dominato musicalmente da songwriters  del calibro di Bob Dylan e Joan Baez  che scrivono di emancipazione, lotte e rivoluzioni di popoli mentre lui preferisce parlare di individualità. Le sue liriche sono caratterizzate da binomi che saranno poi sviscerati nel corso della sua carriera “ sesso/religione “ vincente/perdente , profondità / semplicità. I suoi 10 brani colpiscono per la delicatezza, per il tono lieve e romantico, per la dimensione profondamente intimista e per la straordinaria melodia. Si parte con  “Suzanne”, una canzone di straordinaria tenerezza ed eleganza, un personaggio da venerare chiunque essa sia nel binomio che dicevo, madonna/prostituta , Cohen ne narra dolcemente  la sua storia con un suono lieve di chitarra, violino e dolci cori. Poi si passa all’ atmosfera cupa di “Master Song”, con fiati in evidenza e tappeti di tastiere. Si ribaltano i ruoli della dicotomia schiavo-padrone Cohen, infatti, è convinto che nelle sconfitte c’è gloria e che si annullano le differenze tra vinti e vincitori. I toni melodici del flauto accompagnano la  calda e lenta “Winter Lady”, mentre “The Stranger Song” è caratterizzata da un suono veloce di chitarra. Si arriva, poi, alla bellissima “Sisters of Mercy”, una dolce ballata che assomiglia ad una ninna nanna che mal si concilierebbe con le prostitute protagoniste del brano ma  la voce sussurrata e l’arpeggio della  chitarra di Cohen gli imprimono quasi un certo misticismo. La musica sale di ritmo con la stupenda serenata “So Long, Marianne”, con batteria e violino a dar man forte al suo canto. Poi le ballate “Hey That Way To Say Goodbye” in cui si parla di una separazione, “Stories Of The Street”,   storie vere di diseredati, poi la tristezza  di  “Teachers” e  di  “One of Us Cannot Be Wrong”, chiude questo primo capitolo.
  1. Songs From a Room del 1969 è il suo secondo disco, prosegue sulle stesse atmosfere cupe fatte quasi interamente di storie disperate al limite della depressione, gli arrangiamenti sono ben costruiti, scarni e mai pomposi ; l’angosciosa “Seems So Long Ago Nancy”, le epiche “Story Of Isaac” e “The Partisan”  in cui il i temi centrali sono i rapporti tra gli uomini e la violenza della guerra. Il disco è oscuro, meditativo con pochi spunti di allegria se non nei due brani dai toni quasi sognanti che chiudono l’album  “Lady Midnight” e “Tonight Will Be Fine”,

    3. Songs Of Love and Hate del 1971 è l’album che chiude il trittico in cui continua a funzionare il connubio chitarra voce, senza perdere la magia del suono e le atmosfere malinconiche . Le canzoni sono ancora incentrate sulla desolazione e sulla solitudine. Nell’album ci sono delle vere e proprie perle  “Famous Blue Raincoat”, una riflessione sui rapporti d’amicizia che finiscono o che vengono traditi. La struggente ode a Giovanna d’Arco altera e stanca (un altro brano ripreso da De André) e “Last Year’s Man” è la triste condizione dell’uomo in piena crisi esistenziale.

  2. Live Songs è un album live che ripropone brani dei primi 3 album.
  3. New Skin For the Old Ceremony (1973) è un disco che si caratterizza per il suono orchestrale e per dei testi che continuano sulla stessa falsariga dei precedenti scavando sulla condizione del’uomo. Niente di esaltante.
  4. Death Of A Ladies’ Mand del 1977 è l’album del ritorno dopo anni di pausa ma fu un vero flop anche a causa di dissapori con il produttore.
  5. Recent songs del 1979  è, invece,  un disco complesso perché oltre che esplorare i rapporti di coppia si muove su un terreno molto controverso: la religione. Cohen è ebreo ma in questo periodo studia altre religioni tra cui la Scientology  e poi il buddismo che rappresenta per lui una forma di meditazione che va al di la del deismo
    8. Con Various Position del 1984, prosegue il suo cammino religioso e questo lavoro ne risente molto, le canzoni sembrano dei salmi ma sono tanto profonde e cariche di umanità che possono essere definite nobili canzoni d’amore  (“Hallelujah”, “The Law”, “Dance Me To The End Of Love”, “If it Be Your Will”)
  6. I’m Your Man l’album del 1988, è la sintesi di tutta l’amarezza e la paura di affrontare l’esistenza. Un disco accolto finalmente in maniera entusiastica dalla critica americana perché torna con delle ballate formidabili “First We Take Manhattan”, “Tower Of Song” e “Ain’t No Cure For Love”,  che sono un mix di folk e di arrangiamenti moderni in cui c’è spazio anche per il ritmo, si scrolla di dosso l’abito del cantautore impegnato, hippie incapace di rinverdire il suono e le liriche.
  7. The Future del 1992,  è un disco apocalittico perché profetizza un catastrofico futuro per l’Umanità , un pessimismo cosmico riscontrabile in tutto il lavoro ma che rappresenta il suo maggiore successo di pubblico grazie a brani come  “Waiting for the Miracle”, “Closing Time”  e “Anthem”, che abbandonano il classicismo del folk acustico per accostarsi ad un suono più pop, più moderno.

Dopo questo disco Cohen  scompare dalle scene, vive in un monastero zen nei pressi di Los Angeles solo e lontano dal mondo per circa 8 anni fino a che non pubblica:

  1. Ten New Songs del 2001, dieci nuove canzoni registrate con l’aiuto di Sharon Robinson,  il disco comunque risente  ancora il periodo-zen come testimoniano alcuni dei brani (“Love Itself”, “In My Secret Life”).

    12. Dear Heater, è il disco della maturità Cohen ha compiuto 70 anni e con la fedele Sharon Robinson snocciola dei brani che sono dei veri e propri aforismi, stati d’animo e riflessioni sul mondo su tanti temi di interesse: “On That Day” un brano, privo di retorica, sull’11 settembre,  “The Letters”, una riflessione sul tradimento e “ Because Of” un bel brano ironico  dedicato ai suoi amori, bella l’immagine delle donne mature nude che chiedono di essere ammirate almeno per una volta.

JANKADJSTRUMMER

ALLELUIA

Ho sentito parlare di un accordo segreto
che siglò Davide e che è piaciuto al Signore
ma a te non importa tanto la musica, non ‘e vero?
insomma fa cosi’ il quarto, il quinto
la sceso minore e il sollevamento maggiore
il re perplesso che compone alleluia

Alleluia…

Cosi’ la tua fede era forte ma ti serviva la prova,
la vedesti che si bagnava sul tetto
la sua bellezza e il chiarore della luna ti lasciarono senza fiato
lei ti lego’ alla sua sedia della cucina
ti ruppe il tuo trono e ti taglio’ i capelli
e dalle tue labbra tiro’ fuori un alleluia

Alleluia…

Amore, sono stato qui già un’altra volta
ho vista questa stanza e ho camminato su questo pavimento
vivevo da solo prima di conoscerti

ho vista la tua bandiera all’arco di marmo
ma l’amore non è una marcia di vittoria
è un freddo ed un triste “alleluia

Cosi’  una volta mi informavi
di quello che succedeva veramente laggiu’
ma adesso questo non me lo fai più, non ‘e vero?
ma ti ricordi che quando ho traslocato, anche tue la santa colomba avete traslocato
e ogni respiro che avevamo preso era un “alleluia”

Insomma, forse ci sara’ un Dio lassu’
ma cio’ che ho mai imparato dall’amore
è come sparare  a qualcuno che ti punta una pistola
non è un pianto che si ode di notte
non è qualcuno che ha visto la luce
ma è un freddo ed  un triste “alleluia”

cohen

LA PREMIATA DITTA BRUNORI SaS – Recensione dei primi 3 album da Jankadjstrummer

brunori 1 

BRUNORI SAS   VOLUME 1

Dario Brunori, cantautore, imprenditore mancato, ha costituito una società, la “ Brunori Sas” ed è con questa ragione sociale che ha pubblicato il suo primo disco “ Vol. 1”, con cui ha incassato l’ambito Premio Ciampi  2009 come miglior disco d’esordio.  Questo giovane cantautore calabrese colpisce per la sua semplicità, per le sue canzoni pop, cantabili da tutti oltre che per la  ricerca musicale fatta con spontaneità e sincerità. Lui si definisce ”un  neo-urlatore italiano”, con questo lavoro esorcizza le paure e i drammi legati ad una precarietà lavorativa ormai irreversibile che tocca i 30enni di oggi  “E’ il mutuo il pensiero peggiore del mondo. Tasso fisso, con l’euribor c’è chi sta impazzendo da un anno. Cosa vuoi che scriva? Di cosa vuoi che canti?” (“Come Stai”). Si sprecano le citazioni riguardanti il vissuto e la quotidianità della nostra Italia degli anni ’80 e ’90  trattata con molta ironia, palloni arancioni “super Santos” sulla spiaggia,  la Fenech, Novella 2000 tutta una carrellata di personaggi che hanno fatto la storia italiana, canzoni popolari in cui lo spirito di Rino Gaetano rivive. Ottimo il brano “Guardia 82”, uno spaccato della provincia calabrese dove i ricordi estivi sono legati ai primi amori e alle inquietudini giovanili, i rimpianti di una spensieratezza adolescenziale ormai svanita.   Molto carina la stralunata e qualunquista “ Paolo” che richiama alla memoria in grande Ivan Graziani, “Nanà” pezzo in cui se la prende con la retorica degli artisti mediocri e  “stella d’argento” una cover degli anni ‘60 cantata, se non ricordo male, da Fred Buongusto qui riproposta molto melodica ed originale che starebbe bene intonata in compagnia e con un bel bicchierone di vino fresco, intorno ad un falò sulla spiaggia di Guardia Piemontese. La grandezza di Brunori sta nel fare proprie le esperienze dei cantautori italiani  e rileggerli con un suo stile se vogliamo canzonatorio, graffiante ma anche diretto ed essenziale. Sono delle coloratissime foto “Polaroid” che colgono le nostre inquietudini e la nostra pura quotidianità. Musicalmente Vol. 1 si presenta come un lavoro cantautorale, chitarra, voce e minimo accompagnamento fatto di lievi incursioni di fiati, l’essenziale che rende il cantato anzi l’urlato pungente ed impertinente, impertinenza che viene richiamata anche nella copertina del disco che ritrae un adolescente in canottiera anni ‘70 che  fa la faccia buffa all’obiettivo, quasi una foto autobiografica. Dario Brunori è senz’altro un artista da seguire con attenzione perché sono sicuro che presto avrà il successo che si merita.

  1. Il pugile
  2. Italian dandy
  3. Nanà
  4. Paolo
  5. Come stai
  6. Guardia ’82
  7. L’imprenditore
  8. Di così
  9. Stella d’argento

BRUNORI  SaS  VOL. 2°   “ POVERI CRISTI”

brunori 2

TRACKLIST

  1. Il giovane Mario
    2. Lei, lui, Firenze
    3. Rosa
    4. Una domenica notte
    5. Il suo sorriso (con Dente)
    6. La mosca
    7. Bruno mio dove sei
    8. Animal colletti (con Dimartino)
    9. Tre capelli sul comò
    10. Fra milioni di stelle

Aspettavo il disco che confermasse il valore della premiata Ditta Brunori Sas, dopo 2 anni, finalmente, è arrivato, il 17 giugno 2011 uscirà il secondo Volume dell’irriverente cantautore calabrese. Ho avuto, in anteprima, il disco ed è sorprendente constatare la sua crescita e la sua maturità raggiunta, Dario con questo lavoro si lascia tentare dalla tradizione del cantautorato italiano vedi De Andrè di Storia di un impiegato o il Guccini di Stanze di vita quotidiana per proporre una sorta di concept album sui “poveri cristi” nostrani. Dieci storie di tutti i giorni che scavano nelle vicende semplici ma al tempo stesso tragiche di personaggi che fanno i conti con i problemi quotidiani e con le piccole e grandi vicende umane che li attanagliano. La leggerezza con cui tratta questi temi è la chiave di volta di tutto l’album, i drammi umani raccontati si trasformano spesso in paradossali tragicomiche come nel brano” Il giovane Mario” che sogna di risolvere i problemi economici familiari con le slot-machine, sente il peso di una vita di stenti e la sua sconfitta umana diventa malessere interiore, tragedia, cerca di farla finita legandosi al lampadario con un cappio al collo, senza tener conto, però, della  fragilità del solaio; questo è un esempio dei 10  poveri cristi che affollano questo lavoro del Brunori, storie semplici vissute da persone semplici e trattate con profonda ironia. Storie di normale quotidianità, in cui si fondono sentimenti contrapposti leggiadria e crudezza nei racconti o la rabbia e i buoni sentimenti dei personaggi.  Le canzoni di Brunori sfiorano sempre il grottesco ma sono densi di malinconia,  commuovono ma con il sorriso sulle labbra, in questo, come ebbi a dire nella recensione del 1° volume, trovo il suo punto di riferimento, il suo nume tutelare, nella poetica di Rino Gaetano. In brani come Rosa o Tre capelli sul comò risulta evidente il richiamo alle sonorità e al modo di approccio lirico tipico del cantautore crotonese tuttavia questo non mi sembra per niente un limite anzi ritengo che sia un elemento caratterizzante di una ritrovata vena nel panorama dei nuovi cantautori che la dice lunga sulla rinascita della poesia italiana. In poveri cristi si urlano le debolezze, le gioie ma anche la voglia di vivere, la rabbia, l’indignazione delle persone comuni a cui Brunori riesce a dar voce. Vi segnalo una dolce e commovente “ Bruno dove sei” dedicata al suo padre morto in cui emergono i valori della famiglia e del rispetto ma senza nessuna retorica, e “Il suo sorriso”, in duetto con Dente, brano carico di ironia, un tentativo ben riuscito di fare una canzone pop fuori dai clichè tipici della canzone italiana. Questo Vol 2° mette un po’ a nudo i sentimenti personali, non c’è più tempo per la nostalgia dell’estate passata al mare di Guardia Piemontese o per i primi impulsi amorosi adolescenziali, è il tempo di far emergere le contraddizioni di una società instabile partendo dalle persone comuni, dalle storie personali non rinunciando mai agli insegnamenti dei grandi cantautori italiani.

Un disco che consiglio con forza! Buon ascolto da Jankadjstrummer

 

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BRUNORI SaS  – vol. 3° – Il cammino di Santiago in taxi “…. passando da Belmonte Calabro.

E’ uscito da qualche giorno il terzo capitolo o volume del cantautore calabrese “il cammino di Santiago in taxi“, sono già al 4° ascolto e sto scoprendo che ci sono molte novità rispetto ai suoi primi due album, non fosse altro che per la purezza del suono che Dario Brunori ha affidato  al tecnico giapponese  Taketo Gohara considerato ormai il deus ex machina del sound alternativo e alla location scelta per registrare il disco: un ex convento seicentesco di frati Cappuccini a Belmonte Calabro, una scelta – afferma il cantautore- capace di rompere la routine di una classica sala di registrazione ma che dà a  lui e la sua band stimoli nuovi che solo  la tranquilla campagna calabrese è capace di offrire.  Altro elemento caratterizzante  di queste undici tracce scelte è quel duplice risultato di scrivere testi e musica di ispirazione cantautorale ma nello stesso tempo adattarlo ad una band come la sua già ben rodata e con l’aggiunta di strumenti nuovi ( batteria elettronica ,basso, tastiere), un buon supergruppo che ha acquistato sempre più quote nella sua società in accomandita semplice.  Anche l’approccio alle canzoni è cambiato, non più ballate accompagnate con la chitarra acustica ma l’utilizzo del piano che, per certi versi, addolcisce e rende più intimo il suono. I testi sono sempre pieni di semplicità e forse di un pizzico di ingenuità anche quando con fervida ironia scava nella quotidianità delle famiglie o nella deriva della società italiana. Non si tratta di un disco di rottura perché c’è molto del Brunori del passato: la malinconia, le storie, la religione, le abitudini ma anche la nostalgia del falò sulla spiaggia o della gita scolastica in pulman, ma  in questo vol.3° si ritrova una forte dimensione interiore dell’artista preso com’è dalle sue paure e dalle angosce comuni a tutta una generazione di disillusi sempre in conflitto tra impegno  e voglia di evasione. In questo, secondo me, sta l’essenza nel cammino di Santiago in taxi, la voglia di lottare, soffrire di raggiungere la meta agognata ma con comodità senza quella esigenza frenetica che sono lo stereotipo delle nuove generazioni. I brani sono molto belli ma richiedono un ascolto continuo e più concentrazione perché sono un caledeoscopio di storie diverse, citazioni, immagini cinematografiche che si assaporano solo con un po’ di decantazione. Siamo in presenza di un Brunori molto maturo e cresciuto artisticamente a cui va perdonata la mancanza di quella sana rabbia che è patrimonio della gente del sud  ma che viene compensata con una lucida analisi spesso canzonatoria della società italiana alle prese con una crisi epocale.

Track By track

1)      Arrivederci Tristezza:  un pianoforte lieve e un intenso testo vive nella eterna lotta tra ragione ed intelletto che  sfocia nel finale  in una liberatoria  vittoria del sentimento in una apoteosi di archi e vibrofono.

2)      Mambo Reazionario: ha il giusto ritmo e le atmosfere alla Rino Gaetano, testo pungente contro il conformismo di chi alla lotta, agli ideali oggi cedono alla famiglia come nido tranquillo e alla  voglia di benessere “ colui che si piega alle leggi del mercato e compra il divano cammellato, accostando Che Guevara a Pinochet che ballano felici sulle basi di Beyoncè”

3)      Kurt Cobain: lo spunto è la breve vita del cantante dei Nirvana: una profonda riflessione su come la popolarità  spinga a vivere una vita di eccessi e come questa spesso diventa frustrazione in soggetti deboli che non sopportano di interpretare il ruolo del mito.

4)      Le quattro volte : sono il susseguirsi delle stagioni della vita che si ripetono sempre uguali tanto da produrre forti frustrazioni ma Brunori concede una via d’uscita: “si può nascere un’altra volta e poi rinascere ancora un’altra volta, se ti va”.

5)      Il Santo Morto è il  classico brano di Brunori, un brano che è un collage di frasi, citazioni che vanno dalle immagini pubblicitarie ( Pulcino Pio, Nonna Pina e le sue tagliatelle ) ad altre messe in bocca a personaggi famosi, “Giordano Bruno  disse “come on baby Light my fire and Stand by me”  esercizi che rimandano allo stile Battiato.

6)       Il manto corto è un brano strumentale in cui è ben in evidenza un sax quasi jazzato che ricorda le sonorità afro- beat della Ju-Ju music nigeriana anni ’70. Gradevole riempitivo.

7)      Maddalena e Madonna è una delle più belle canzoni del disco, una storia romantica, che gioca sul nome dell’”amica” e della Madonna, carica di nostalgia per tempi passati “davanti al Bibò” e  ”  la voglia di andare ancora e c’era l’amore che cambiava il colore del cielo, il sapore del vino, l’odore dell’aria al mattino era solo per te che scrivevo cazzate su un foglio a quadretti”,  qui Dario Brunori  rivela di aver sotto mano da qualche anno questa lirica, ma di essere riuscito a ‘chiuderla’ solo ora “perché dentro di me si agita un ‘Dario’che detesta l’attitudine nostalgica e passatista e un ‘Dario’ che ci starebbe a mollo dalla mattina alla sera”.

8)      In “Nessuno” viene fuori il  Brunori più profondo, più intimo, emergono le sue debolezze anche quando cerca di nascondersi e si cruccia sia per sua mancanza di personalità ed anche per quando si commuove “solo se non c’è nessuno”, una sorta di autoanalisi dei suoi comportamenti  pubblici e privati.

9)      In Pornoromanzo c’è una forte allusione alla “Lolita” di Nabokov, una sorta di storia d’amore tra un professore e la giovane studentessa, brano rockeggiante caricato volutamente di spavalda sessualità.

10)  La vigilia di Natale è una sorta di riflessione sulla normalità familiare,sulla piatta quotidianità e la voglia di fuggire dalla mediocrità della vita sognando “ancora quella casa al mare”. E’ qui che si nota la bravura del Brunori autore, scrivere un testo, se vogliamo, crudo, amaro in cui la nostalgia prevale ma che regale forti emozioni.

11)  Sol come sono sol:  è una canzone d’amore che tratta dell’amore infelice, a ritmo di valzer ,di un promesso sposo lasciato all’altare. Brunori si diverte nel titolo a giocare con le note e con le parole e forse prende in giro Jovanotti e quel suo “io lo so che non sono solo anche quando sono solo”,  in un pezzo drammaticamente ironico che raccontare il fallimento di un matrimonio.

TRACKLIST

  1. Arrivederci tristezza
  2. Mambo reazionario
  3. Kurt Cobain
  4. Le quattro volte
  5. Il santo morto
  6. Il manto corto
  7. Maddalena e Madonna
  8. Nessuno
  9. Pornoromanzo
  10. Vigilia di Natale
  11. Sol come sono Sol

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