‘Le intenzioni più belle non creano risultati buoni se il processo di gestione non viene costruito in modo inclusivo, se uno spazio di discussione non viene proposto per ascoltare, interagire e crescere insieme. Creare queste condizioni richiede molto lavoro ma permette alla fine uno scambio generativo e resiliente che cambia il senso di appartenenza di una comunità e porta risultati concreti e solitamente duraturi.’
SUSAN GEORGE, CHIARA L. PIGNARIS, a cura di, Coltivare la partecipazione, Ed. la Meridiana 2020
Volgendo a concludere a breve -o, almeno, sospendere per qualche tempo- l’esperienza di questo blog, desidero ancora riflettere un po’ in questo spazio. Stavolta è su qualcosa che per me è importante da tempo e che mi si è riproposto con urgenza dopo un ricordo raccontato da mia madre.
La riflessione parte da una situazione personale e particolare, ma, dal mio punto di vista, interessa il vasto campo delle relazioni in generale.
Riguarda le diverse visioni del mondo, le diverse mappe di convinzioni che generano i nostri comportamenti. Riguarda il linguaggio, anch’esso una mappa fondamentale. Riguarda l’ ”incarnarsi” nella realtà di tutte le belle parole e i grandi concetti che ci sembra guidino la nostra vita. Riguarda il nostro “da che parte stare”.
Il ricordo raccontato da mia madre mi rende necessaria una risposta sul perché io mi trovi d’accordo con lei e, per tentare di farlo, mi servo delle poche cose che so riguardo alle pochissime cose che so 🙂
Il post è lungo, ma non è una novità da queste mie parti.
Il ricordo risale a quando mia madre era una adolescente – fine 15, inizio 16 anni -, non era ancora fidanzata con mio padre, che ha otto anni più di lei.
Mia madre si chiama Elena, mio padre Enzo.
Poi c’è una ragazza di nome Francesca, appartiene al giro di amici di mio padre, ed è più grande di lui di qualche anno.
A un certo punto Francesca comincia a dare fastidio a Elena, in tanti modi: si fa trovare sulle strade che percorre Elena, inizia a frequentare la sartoria dove Elena lavora … e ogni volta parla con Elena cercando di coinvolgerla in cose che riguardano la vita di Enzo, e anche cose del tipo che lui è fidanzato con lei, che Elena deve lasciarlo perdere, ecc. Elena sollecita Francesca a parlare con Enzo, le dice che lui è libero, le dice che lei non ha nulla a che fare con lui. Ma Enzo ha parlato con i suoi amici, ha detto che Elena è una bella ragazza … e, infatti, dopo un po’ di tempo si fidanzano. Sicuramente Francesca, frequentando gli stessi amici e le stesse amiche di Enzo, ha sentito o le sono state riportate le parole di Enzo riferite a Elena e, siccome a lei Enzo piace, decide di assumere questo comportamento persecutorio verso Elena. Elena, dopo aver a lungo resistito, dopo aver invitato Francesca a smetterla e a parlare direttamente con Enzo, dopo aver taciuto con Enzo ed essendone diventata nel frattempo la fidanzata, un giorno decide di parlare a Enzo. Elena si trova in una situazione difficile, ha forse anche bisogno di aiuto, di essere ascoltata, di confrontarsi. Racconta a Enzo la situazione e, con molta semplicità, gli dice anche che se lui ha una storia con Francesca, deve semplicemente lasciar perdere lei. Nella sua posizione di fidanzata, l’invito a scegliere è totalmente legittimo e condivisibile.
Enzo chiede a Elena che cosa ha risposto a Francesca ed ottiene da Elena delucidazioni. Successivamente, Enzo parla con Francesca, e poi va da Elena e le dice che da quel momento in poi deve stare tranquilla, non sarà più infastidita e che, se dovesse succedere ancora, lo deve dire a lui.
Sono d’accordo.
Gli eventi ricordati da mia madre somigliano, inoltre, in modo incredibile a un’esperienza vissuta da una mia amica, quindi, ricordando a mia volta l’esperienza vissuta dalla mia amica (ma con esiti diversi, cioè negativi), chiedo a mia madre se avrebbe fatto allo stesso modo anche se, invece di essere fidanzata con mio padre, ne fosse stata amica. Mi risponde di sì.
Sono d’accordo.
Sempre ricordando l’esperienza dell’amica, le chiedo cosa avrebbe fatto se mio padre, da fidanzato o da amico, le avesse detto “vedetevela tra voi due”. Lei mi risponde che si sarebbe allontanata da un amico così, figuriamoci dal fidanzato.
Sono d’accordo.
Perché sono d’accordo? Questa è la riflessione.
Mentre il perché mi è chiaro se penso a due fidanzati, lo è meno se penso ad amici. Ma sento di essere d’accordo.
Ricordo un gioco che si faceva quando ero adolescente: chi salveresti o chi butteresti giù da una torre. Il gioco include l’idea dello schierarsi, e lo schierarsi è un termine di guerra, di contrapposizione, di “o io” “o tu”.
Se parlo di Amore, se parlo dell’Altro, se parlo di Condivisione (e io ne parlo) … chi salvo, chi butto giù dalla torre? Ed è proprio necessario salvare qualcuno e buttare qualcun altro giù dalla torre?
Nel gioco ci sono presupposti ingannevoli: che ci sia una torre poco capiente :-), che qualcuno debba essere salvato e qualcuno no, che qualcuno sia esterno alla situazione e che abbia il potere su altre vite, ecc.
Ché poi sono alcuni dei presupposti ingannevoli che sembrano sempre più guidare il mondo.
Però è anche vero che nella quotidianità ci troviamo spesso-a-volte-ogni-tanto a metterci da una parte o da un’altra, a scegliere da che parte stare. Crediamo in qualcosa: valori, una fede, convinzioni che ci fanno ‘frequentare’, intimamente ed esteriormente, alcuni ambiti e non altri. Come facciamo a scegliere quello e non altro? Cosa ci guida? A chi diamo ragione e perché?
Ripropongo l’accaduto astraendo il più possibile, per cercare di semplificare, ma intendendo il termine “semplificare” come passo e segmento dentro il criterio di complessità.
A, B e C sono tre persone che si conoscono a vario titolo e in vario modo.
A comincia ad agire un comportamento provocatorio e scorretto con B e di nascosto di C, di cui A dice cose brutte e non verificabili da B. B vive un grande disagio. B, entrata in maggior confidenza e intimità con C, e dopo aver cercato in tutti i modi di fermare A, coinvolge C e gli racconta cosa sta avvenendo.
C si lascia coinvolgere, entra in relazione con tutti i componenti del gruppo, compreso se stesso; ‘si sporca le mani’, come si diceva anni fa con un significato positivo (entra in gioco, si impegna in un contesto che necessita o di aiuto o di chiarezza, ecc.). C fa anche una cosa molto bella: chiede maggiori informazioni, cioè esprime fiducia, esprime volontà di chiarezza, esprime “essere in relazione con”.
C non si sente superiore ad A e B, non si lava le mani a mo’ di Pilato, non si mette fuori dalla torre a salvare o a buttare giù, accoglie invece le parole di B (forse anche la sua preoccupazione per C, forse anche un certo timore di B, un bisogno di B, B che si configura come Alterità), parla con A, tutela l’amicizia mettendosi in gioco nell’amicizia stessa, si espone, si mette alla pari “con” (e non “di”) A e B.
Quindi C si mette alla pari con A e B, sceglie di esser-ci (in quel luogo, in quel contesto, in quell’insieme che si è formato); evita di mettersi in una posizione di potere, e crea invece una rete di condivisione e riflessione comune.
Sceglie di esserci, di mettersi dentro la situazione; si sente coinvolto.
Se sei fidanzato, è auspicabile che scegli la chiarezza, la sincerità, l’esserci … e la fidanzata.
Se sei amico, è auspicabile che scegli la chiarezza, la sincerità, l’esserci … e poi, caso mai, se vuoi, scegli A o B, ma questo è un livello successivo.
Esser-ci, lasciarsi coinvolgere, accogliere: ecco un motivo per cui sono d’accordo con mia madre.
Per riflettere in un modo che a me sembra più completo, includo e unisco l’esito ‘positivo’ dell’esperienza di mia madre (B) e quella con esito ‘negativo’ della mia amica (che sarà, quindi, anch’essa B).
Come già accennato, la mia amica ebbe un’esperienza simile, simile poiché lei non era fidanzata con la persona che usò verso di lei il comportamento di esclusione; inoltre, quell’episodio simile a quello di mia madre non fu l’unico negativo e offensivo che la mia amica si trovò a vivere in quella relazione amicale o simil-amicale. Ma io rifletterò, proprio per la somiglianza, solo su quell’episodio che, peraltro, provocò alla mia amica anche l’accusa di ‘spia” da parte del suo elegantissimo simil-amico.
Quindi, tenendo presente l’unione delle due esperienze, continuerò a usare A per indicare la persona dal comportamento persecutorio, B per indicare la persona perseguitata (si potrebbe anche dire stalkerata) e C per indicare la persona che in un caso tende alla soluzione e nell’altro se ne lava le mani.
Assumiamo quindi che A e B sono di genere femminile e C di genere maschile, così evito la doppia desinenza grammaticale di genere.
Il concetto di fondo, quello che sostiene tutto, è la VISIONE DEL MONDO che ha ognuno di noi, e dove troviamo ciò che ci guida e che è osservabile da diversi punti di vista. Quelli che seguono sono quelli con cui mi sono esercitata.
1. LINGUAGGIO E INTERPRETAZIONI
“Vedetevela tra voi due”
Dentro una visione del mondo agisce un linguaggio, con i suoi elementi grammaticali e le sue strutture sintattiche e con i suoi significati. Cambia il linguaggio usato e cambia la mappa/percezione del mondo e viceversa.
Qui intendo sottolineare l’uso dei pronomi. Un pronome viene usato al posto del nome, e anche se il contesto comunicativo rende chiaro a chi ci si riferisce, si sta comunque usando una generalizzazione. In questo modo, nella percezione i soggetti vengono opacizzati, le persone reali si fanno un po’ distanti, anche se questa opacizzazione non è percepita a livello cosciente.
Particolarmente, richiamo l’attenzione sui pronomi personali soggetto: io, tu, egli, ella, esso, essa (adesso è attestato l’uso anche di ‘lei’ ‘lui’), noi, voi, essi, esse (loro): “lui è fidanzato con me”, “se tu sei fidanzato con lei”, ecc..
In italiano spesso sono poco evidenziati, perché la persona viene indicata ed è riconoscibile dalla desinenza del verbo.
Il pronome non viene solo usato per costruire frasi grammaticalmente corrette, senza ripetizioni … sì, è utile, ma sottolinea anche una certa distanza fisica … ed emotiva: “vedetevela tra voi due”; “lui è straniero, lei è di un’altra razza”; “tu sei sfigato, loro sono fighi”; “noi siamo in gamba, voi fate schifo”.
Cominciano a crearsi gli insiemi, i confini i cui spazi interni sono percepiti come fondati su somiglianze, rassicuranti somiglianze, somiglianze che escludono ciò che non somiglia.
Anche gli aggettivi possessivi danno il loro contributo in questa riflessione: il mio fidanzato, la tua amica, il suo amico, i nostri amici, le nostre amiche ecc … Gli aggettivi aprono un po’ l’orizzonte rispetto ai pronomi, perché devono accompagnare il nome: “il mio tavolo” è una frase che dice a cosa mi riferisco; se dico invece “il mio”, pur essendo chiaro dal contesto che parlo del tavolo, ecco che avviene quell’opacizzazione di cui parlavo prima.
Notevole è poi il possibile contributo negativo dei pronomi possessivi: mio, tuo, suo, nostro, vostro, loro; che diventano anche, a volte, il mio/la mia, il tuo/la tua, il suo/la sua, il nostro, la nostra ecc.; cioè vengono usati in modo assoluto. Per esempio, “il mio”, utilizzato in questo senso assoluto, può indicare tutti i miei possedimenti, il mio pensiero, il mio modo di vedere, ciò che considero il mio mondo e, spesso, questo uso ha il significato “mio, e guai a chi me lo tocca”.
Questo uso è esclusivo, è oppositivo, crea contrasti e distanze, cioè: si dice ‘il mio’ per esprimere convinzioni del tipo “il mio si’”/ “il tuo no”; “il mio” ha diritto di esistere,” il tuo” no … il mio sentimento, la mia emozione, il mio mondo, la mia nazione, la mia amica, il mio fidanzato … tutto questo “mio” è “sì”, il resto è “no”.
E sulla base di ciò vengono fatte tante scelte, in ogni campo, ad ogni livello. Giù dalla torre, rimani sulla torre.
Ed è anche ciò che impedisce di “esser-ci”, di lasciarsi coinvolgere, di mettersi in gioco; è ciò che ci fa creare confini continuamente, buttando fuori di essi quello che non è inteso come “mio”.
Così è la mappa disegnata da questi elementi della lingua, così è la loro narrazione generale.
Non per tutti, per fortuna.
Fortunatamente, per qualcuno dire “io-mio” non significa far del male a “tu-tuo, lui-suo, ecc”; per qualcuno dire “io” non è buttare giù dalla torre “tu, lui-lei, loro”. Al contrario, è uscire da questi ingannevoli giochi, è percepirsi in modo connesso con l’esistente, è trovare soluzioni inclusive, inclusive anche di se stess*.
Amare il “mio” non significa odiare il “tuo”. Per qualcuno, per fortuna, esistono le sfumature, le differenze.
Qualcuno sa amare in modo diversificato le diversità che incontra, sa mettersi in gioco dentro gli eventi: ecco, qualcuno lo sa fare, qualcuno non tira una riga dove tutti devono rientrare in egual modo, fatta eccezione, all’occasione, proprio per se stess*.
Per fortuna esiste chi dice “mio” senza spazzare via “tuo, suo, loro”.
Però, purtroppo, questi inclusivi modi di vedere il mondo e di comportarsi sembrano essere in minoranza, e sono cancellati dalla lettura prevaricatrice del modo dominante; così, se, per esempio, una persona ragiona di amore con un’altra, ciò viene letto come sicuramente lesivo di una terza.
Molto facilmente, purtroppo, si mettono in campo fallacie logiche, bias cognitivi, equivalenze arbitrarie. Si entra nelle interpretazioni.
Ad esempio: la frase “Alfa ama una persona”, diventa facilmente “Alfa ama ‘solo’ quella persona”, che diventa sicuramente “Poiché Alfa ama solo quella persona, allora Alfa odia gli altri”. Con aggiunta di giudizio morale “quindi è cattiva”.
Ecco, allora, un turbinio di pareri personali fondati sul nulla, una continua alterazione del senso che l’Altro aveva dato alle sue proprie parole; per rimanere nel fatto accaduto alla mia amica: B chiede aiuto, ha un bisogno; C legge le parole di B totalmente dal proprio punto di vista esclusivo, giudicante, distante. C si sente infastidito da B, C non vuole entrare nella relazione e, quindi,“vedetevela tra voi due”.
Ecco, allora, un turbinio di affermazioni apodittiche, dove il verbo “è” spadroneggia tra la prima parte della frase e la seconda: A è cattivo-a; B è una spia, C è un-a menefreghista. “E’ così”: definizioni assolute.
Ecco, allora, che si blocca quello che dovrebbe essere un processo relazionale fluido, si blocca fondandosi su concetti di esclusione, pronomi che annullano i soggetti e quindi le differenze.
Se dico mio marito, il mio amico, (aggettivi possessivi uniti a nomi comuni di persona) opacizzo il soggetto rispetto all’uso del nome proprio; il nome proprio, invece, scollega il soggetto da me e lo evidenzia come tale nelle relazioni, aiuta a mettere a fuoco la sua unica storia personale. Figuriamoci quanta distante appropriazione avviene con i pronomi ‘il mio’, il ‘suo’, ‘il tuo’ … Confini, voglia di creare confini, muri, distanze, disinteressarsi …
Per me non è così, posso scegliere un campo in cui agire, persone con cui stare perché non sarà mai contro qualcuno, ma sarà allenamento per saper stare con più diversità possibili, o sapermene allontanare come rispetto della scelta dell’Altro, senza insistere con la mia presenza.
Se dico “il mio”, non dico “non-il-tuo”, per cui mi risulta facile coinvolgermi e coinvolgere.
E questo, come ho già detto, è uno dei motivi importanti per cui sono d’accordo con il comportamento di mia madre e con la sua opinione estesa, oltre al piano dell’amore di coppia, anche al campo dell’amicizia.
Un* amic* si lascia coinvolgere: si sente dentro un “noi”, non allontana usando quel “voi” che, nell’esperienza della mia amica, ammassa A e B.
Perché, ripeto, dovrei allontanarmi da un amico che dovesse dirmi “risolvete tra voi due” una questione che riguarda anche lui?
Perché lui, in modo lapalissianamente lampante, non si sente amico, non si sente parte, ma super partes … fuori dalla torre … e, quindi, rispetto la sua posizione di non amico con me, me ne vado, non c’è da convincere nessuno.
Perché c’è anche in atto un gioco di potere -come nel gioco della torre-, e in questo caso il potere si manifesta con una delle sue più tipiche caratteristiche, quella, cioè, di gestire le informazioni, di averne di più rispetto a chi sottomette. Sono vani gli sforzi di B per portare alla luce collettiva le informazioni, per poterle condividere e discutere insieme.
C potrebbe parlare con A e B contemporaneamente, ma non lo fa.
Che ci vada bene o no, ognuno si comporta secondo la propria visione del mondo.
L’educazione, la crescita individuale e collettiva si attua con l’incontro tra questa personale visione del mondo e l’arricchimento continuo derivante da altre visioni del mondo. Lo sbilanciamento da una parte o dall’altra limita o azzera lo sviluppo.
A, B e C hanno tutt* e tre parti interiori da far crescere, da far evolvere, ma chi se ne rende conto dei tre? Chi vuole farlo? Non potrebbe essere proprio il comportamento di B a innescare una crescita collettiva, del gruppo? Ma il suo tentativo di coinvolgimento, dovuto anche al fatto di essersi trovata in mezzo a due fuochi, fallisce sia con A che con C, oltre ad essere malamente interpretato e frainteso dalle personali visioni del mondo di A e di C.
2. IL “DUE”: SEPARAZIONI E DICOTOMIZZAZIONI
Dentro una visione del mondo c’è anche una tendenza al “due” in senso contrappositivo.
E’ una caratteristica dell’Occidente, abituato a pensare in termini binari, per opposti inconciliabili, o bianco o nero, senza sfumature in mezzo e, aggiungerei, senza considerare tutti gli altri colori 🙂
In termini linguistici, un trionfo della più restrittiva congiunzione disgiuntiva, un peana della “o”: molto, molto alla base dei valori e dei concetti che ci fanno da guida.
A volte mi sorge il dubbio che qua in Occidente abbiamo troppo a lungo frequentato quell’idea di Platone 🙂 per cui ogni essere umano è una metà di un intero, e andiamo in giro per il mondo a cercare l’altra nostra metà. Per quanto romantica possa sembrare quest’idea, vivere sentendosi metà certamente non aiuta. Per questo ci sentiamo così fragili? E’ perché ci pensiamo, e quindi percepiamo, come un “Uno- mio” che non può essere tale se non fatto da due metà???? Tutto ciò potrebbe generare uno sguardo limitato, che non vede il tre, il quattro il cinque … che non vede i contesti … che vede solo sé stesso (come il Punto nel romanzo ‘Flatlandia’), e in questa totale fragilità autopercettiva e inconscia, il soggetto compensa la fragilità spesso ponendosi nella posizione di colui/colei che può decidere chi buttare giù dalla torre o chi salvare, cioè in una illusoria posizione di totipotenza.
E questo è un altro dei motivi per cui sono d’accordo con mia madre: se si è capaci di superare le dicotomizzazioni e affacciarsi al più vasto orizzonte di connessioni e integrazioni, si è anche amic* che nemmeno riescono a pensare una frase del tipo “vedetevela tra voi due”, ma riescono a mettersi in gioco, scegliendo ogni elemento presente e coinvolto e, se necessario, ne integrano anche di esterni per continuare il cammino insieme.
3. LA SCELTA
Dentro una visione del mondo c’è il criterio di scelta, che spesso si evidenzia in maniera oppositiva e contrastiva rispetto a ciò che non è scelto, e alcune forme della lingua, come i pronomi di cui sopra, ne evidenziano bene l’essenza dicotomizzante e separatoria.
Due ricordi mi possono aiutare.
Il primo ricordo concerne una scena a cui ho assistito in treno anni fa.
Nei due sedili al di là del corridoio, di fronte a me, erano seduti un uomo e una donna. Vedendo il loro modo di relazionarsi, avevo distrattamente pensato che fossero in buoni rapporti d’amicizia, almeno d’amicizia. Leggevo, ma ogni tanto mi giungevano loro parole, pezzetti di frasi. A un tratto sento lei che, quasi con tono scherzoso, chiede a lui: “Perché non mi dai l’amicizia su fb? Te l’ho chiesta da tanto tempo”, e lui che subito risponde: “Devo difendere i miei amici”. Alzai gli occhi e vidi il volto di lei sbiancare, irrigidirsi; sentii la sua voce frenare un dolore e un’ira che stavano dilagando in lei mentre diceva: “E io cosa sono per te, allora?”
Lo confesso, mi alzai e cambiai vagone, per resistere alla tentazione di intervenire. In difesa di lei, chiaramente:-)
E questo è un altro dei motivi per cui sono d’accordo con mia madre.
Anche C ha chiarito a B che B non è su* amic*; C ha scavato sicuramente un solco tra sé e B, ha messo un confine, dice ”non è cosa che mi riguarda”: e quando si dice “ non è cosa che mi riguarda”, mediamente (sempre per il pensiero oppositivo-dicotomizzante) si afferma anche che c’è qualcos’altro che invece l* riguarda. Certamente non è B l’interesse (anche ) di C.
Il secondo ricordo concerne una conversazione con mio padre sulla separazione.
Lui, già un vecchio saggio, io appena separata. Parlavamo della separazione e lui sosteneva che non ci si debba separare. Io insistevo, gli dicevo che ci si può trovare in una situazione di doverlo fare, nonostante tutti i principi e i valori che la persona aveva lo ‘vietavano’. E lui disse così: “Prima di fare una scelta ci si deve pensare mille, un milione di volte … specialmente poi se coinvolge altre persone. Poi, fatta una scelta, si è fedeli a quella, anche nelle difficoltà. Non devi essere tu a venir meno in quella scelta … ma … se è lAltr* a venir meno, sì, allora puoi andartene … diventa anche una forma di rispetto, oltre che per te, anche per la scelta dell’Altr* di venir meno alla promessa, di non voler più stare con te …”
“Vale per tutto? Vale per il matrimonio, vale per l’amicizia … vale anche per chi ha fatto una scelta di vita religiosa?” E lui, uomo molto religioso, mi rispose “Sì. Anche un’istituzione può venir meno al patto, può tradire.”
E questo è un altro dei motivi per cui sono d’accordo con mia madre.
C è venuto-a meno, è venuto meno per primo all’interno del rapporto, ha dimostrato di non voler superare“ insieme” quel momento di difficoltà.
Rispetto alla scelta, io trovo molto interessante il pensiero di Jiddu Krishnamurti, una visione dove si intrecciano in una forma suprema e profonda i criteri della scelta e della libertà, e che rimandano all’Essere, al punto in cui si è in quel momento della vita. Essere-divenire-essere-divenire …
Già citato in questo blog, riporto ancora una volta qui sue frasi.
“Non pensiamo di essere liberi perché facciamo delle scelte; la scelta esiste soltanto quando la mente è confusa. Quando la mente è chiara la scelta non esiste. Quando voi vedete le cose con grande chiarezza, senza distorsioni, senza illusioni, allora la scelta non esiste. Una mente che non sceglie è una mente libera, ma una mente che sceglie, e quindi mette in atto una serie di conflitti e di contraddizioni, non è mai libera, perché è confusa in se stessa, divisa, frammentata.”
“La scelta c’è dove c’è confusione. Per la mente che vede con chiarezza non c’è necessità di scelta, c’è azione. Penso che molti problemi scaturiscano dal dire che siamo liberi di scegliere, che la scelta significa libertà. Al contrario io direi che la scelta significa una mente confusa, e perciò non libera.”
E’ qui egregiamente evidenziata la completa e perfetta unione tra pensiero e comportamento.
In queste frasi c’è già la spiegazione del fatto che a un* amic* non verrebbe nemmeno in mente di buttare già dalla torre qualche amic* per salvarne altr*, di rispondere “vedetevela voi due” o “devo difendere i miei amici” o altro. Se lo si dice, lo si pensa, lo si “è”. La questione è semplice: C non si sente amico di B.
A, B e C sono in rapporto. C, con il suo “vedetevela tra voi due” dimostra incapacità di inserirsi e sentirsi nel rapporto; attiva uno sguardo dall’alto di un ‘io’ che guarda ‘voi-loro’ da lontano e si tira fuori, o si è già tirato fuori dal rapporto amicale, o non vi è mai entrato.
Sporcarsi le mani, sentirsi nelle relazioni, entrarci. C non è stato capace di sentire-accogliere la sofferenza di B, e, qualora B avesse sbagliato, neanche di accogliere il suo errore, insomma , C si fa i fatti propri, dimostra di non essere amico di B.
C lascia che siano A e B a risolvere una situazione e, in questo modo, la configura come un combattimento, un agone tra due parti schierate.
Ma la situazione proposta da B non è nei termini di vincere o perdere, è nel significato di avere cura dello stare insieme.
Nel mettersi al di fuori e sopra (sbrigatevela tra voi), C si schiera comunque, si distanzia da B, lascia B nel suo conflitto, lascia B in solitudine. C si schiera: se non apertamente con A (ma anche sì), apertamente e sicuramente si schiera con se stesso, svilendo B .
C “non E'” amico di B.
Tutto diventa semplice se ci spostiamo sul piano dell’Essere, piano con cui arricchiamo profondamente il verbo “essere”, ma così tanto profondamente da toglierlo dalle pastoie apodittiche per riportarlo, invece, nel piano etico, assertivo, partecipativo, connesso, e ampliarlo all’Esser-Ci.
C “non è” amico di B .
E questo è un altro dei motivi per cui sono d’accordo con mia madre.
4. IDEE E VALORI E VITA QUOTIDIANA
“Voler bene al mondo, a tutt*”: è una tipica espressione con cui spesso ci illudiamo di essere presenti, ma ci dobbiamo spostare fisicamente per essere davvero nei luoghi del mondo, dobbiamo ‘esser-ci’ con le persone, nel mondo, per poter mostrare e dimostrare il nostro voler bene ‘a tutt*’.
La fisicità e la vicinanza fanno la differenza.
Una “mente non frammentata” agisce con coerenza nella realtà dei fatti e dei rapporti i valori che la guidano, non li lascia solo al livello di belle parole, bensì li incarna.
Grandi parole in generale, facili a dire da lontano, quando si è fuori dallo spazio-tempo in cui siamo incarnati, quando i fatti a cui si riferiscono accadono lontano da noi.
E infatti, sappiamo davvero come sarebbe il nostro comportamento se andassimo fisicamente dove tutto l’amore declamato deve diventare gesto parola silenzio?
C’è bisogno, dello spazio-tempo della quotidianità per sperimentare l’amore, l’affetto, l’empatia, in generale i nostri sentimenti e le nostre emozioni. Proviamo emozioni e sentimenti per persone e fatti che vivono e-o accadono lontano da noi, ma li esprimiamo e li agiamo sempre e comunque nello spazio-tempo dove viviamo.
In questo spazio-tempo dove viviamo si incarnano e si manifestano i concetti di mio, tuo, suo, nostro, vostro, loro. E’ qui che accadono le possibili distinzioni. Famiglia, comunità, luogo di lavoro sono gli spazio-tempo, cioè tutti i luoghi dove, di volta in volta, siamo-esistiamo-viviamo. Dobbiamo spostarci fisicamente per essere in un altro spazio-tempo e viverlo (il più possibile) dal vero, nella realtà delle cose e degli accadimenti. Almeno, questo avviene allo stato attuale delle cose, della nostra evoluzione, e del come ci percepiamo.
Nello spazio-tempo si creano legami, priorità, inclusioni, esclusioni, cioè si creano ambiti diversi di intimità. Una coppia ha un legame- ambito-comune-spazio-tempo che non è lo stesso che ognuno dei due (della coppia) stabilisce con un amico, con un’amica, una cugina, un vicino di casa.
Oh, si riesce così facilmente a far del male anche nello spazio-tempo in cui viviamo, alle persone con cui viviamo nello spazio-tempo, nonostante le nostre belle parole declamate, i bei concetti espressi. Il rischio delle belle idee è di viverle solo nei pensieri, come convinzioni su di sé e il mondo, ma che non diventano azioni; il rischio è di tradire la realtà, di non volerla né vederla più, se non è uguale a quei concetti: e quindi di fare diventare mappa la realtà, cioè un’interpretazione, un limite, una narrazione.
Trovo meraviglioso che la vita ci dia una misura; lo spazio-tempo entro cui apprendere … e per me, ciò non significa che amo solo “i miei” affini-vicini di uno spazio-tempo codificato e ripetitivo; anzi, questo amore sperimentato nel limite, mi permette di ampliare quel limite, quel confine, e comunque, per me, significa che i “miei” sono quelli con cui mi confronto nell’attimo in presenza, e quindi i ‘miei’ possono diventare tutti coloro che incontro e frequento nello spazio-tempo diveniente.
La con-vivenza ci dà la misura: il limite e il possibile, il continuo confrontarsi e formularsi e riformularsi nell’incontro fisico, nella relazione fisica, nel “con”.
Due punti fondamentali, inscindibili: “Con chi – In questo momento” si fanno linee guida per connessioni continue e progressive.
Scelta intesa come ‘essere’ ed ‘esser-ci’ e capacità di mettersi in gioco nelle relazioni.
E gesti che facciamo, leggibili dall’esterno, fisici, inseriti nello spazio-tempo.
E’ necessario anche per far crescere l’intero gruppo. E chi è fuori da quel ‘con’ non è necessariamente escluso o odiato, è in un livello dove, addirittura, ci si può dirigere attraverso quel “con chi”: l’escluso può essere quella diversità necessaria alla crescita del sistema.
Invece, attraverso la semplificazione e la superficialità si arriva a dire che “con” è uguale a “contro qualcun altro”.
Impariamo a stare “con-da tutte le parti” 🙂
Allora, multidimensionalizziamoci, impariamo a muoverci con criteri sistemici.
Mia madre voleva muoversi con criteri sistemici, giocarsi nel “con”, far crescere il sistema relazionale.
Ecco perché io sono d’accordo con lei.
Troppe volte le belle e alte parole degli ideali che ci sembra ci guidino si infrangono sugli scogli della vita, rompendosi in mille inutili pezzi e avendo come esito comportamenti opposti a quegli ideali.
Tante volte è successo che proprio dalle più belle parole ho imparato che nella pratica non c’è perdono; che c’è chiusura; che si ha più cura del sentirsi offesi che dell’aprirsi alla comprensione di ciò che ci ha portati all’incomprensione.
Viviamo in una confusione su noi stessi, sul mondo e sulla relazione tra noi e il mondo. C’è bisogno di riflettere. Io lo faccio come posso e come so, nel senso dell’essere in cammino.
Ritengo fondamentale la consapevolezza, di cui tante volte ho scritto in questo blog. Allargare le mappe, superare i confini: abitare gli interstizi, cercare la struttura che connette, per dirla con Bateson.
Traduco tutto ciò con “amare”, che significa anche aprire il nostro cassetto interiore dove abbiamo apposto questa targhetta, e vedere se quello che ci abbiamo messo dentro è proprio “amare”.
Non ci sono “torri” in quei luoghi dell’amare, non c’è l’idea di buttar giù qualcuno, di escludere; bensì ci sono abitudini al confronto, all’ascolto, al farsi carico, alla crescita del sistema.
Come facciamo a capirlo?
Siamo esseri divenienti, dotati di immaginazione e neuroplasticità, cioè esseri in apprendimento, capaci di confrontarci, quindi possiamo farlo.
Consapevolezza e responsabilità.