La mia casa

Fare sogni che muoiono all’alba

La mia casa non ha più il giardino ma un cortile sterrato, pieno di rottami accumulati in mucchi sparsi disordinatamente. I rottami sono neri e pieni di grasso, riconosco dalle forme copertoni, molle, lamiere. L’odore è intenso, penetrante.
Mi accorgo che tra i mucchi si muovono belve feroci, ci sono leonesse magre e affamate, tigri bianche con zanne sporgenti, sono usciti dalle gabbie. Non riesco a capire come mai ci sono delle gabbie a casa mia, ho paura e mi aggiro con molta cautela tra i rottami, non voglio farmi notare dagli animali, potrebbero avere una reazione violenta, nel mentre penso a come catturarle, so che non usciranno il muro è troppo alto ed il cancello è chiuso. Ad un certo punto mi ricordo che ho un numero di telefono per questi casi estremi, chiamo e aspetto queste persone sul cancello di casa.
Arrivano a bordo di un vecchio trattore, sono sporchi e mal vestiti, uno ha in testa una bandana bianca, un altro ha una cuffia e occhialini da aviatore e indossa un lungo soprabito di pelle marrone.
Fa caldo e c’è un sole accecante. Chiedo a questi uomini di far presto a catturare le belve che girano nel mio cortile. Mi rassicurano, mi dicono che saranno rapidi.
Salgono sul trattore e fanno ampi giri sollevando molta polvere, hanno tra le mani delle corde, tentano di prendere le leonesse ma queste saltano in cima ai rottami e si difendono.
Dopo una strenua lotta, fatta di rincorse e fughe riescono con delle reti a catturare tutte le belve e a liberare il cortile. Fanno entrare leonesse e tigri nelle gabbie e vanno via.
Rimangono solo i rottami, io e i rottami.

Marzalesco

Fare sogni che muoiono all’alba.

Sto tornando da un viaggio molto lungo. Sono accompagnata da un caro amico ben definito che porta il colbacco di nome Luca. Prima di tornare al paese decidiamo una sosta in un piccolo paesino, che porta il nome di Marzalesco, a precipizio sul lago. Un gran bel posto. Solo che fa molto freddo per esser fine agosto. L’albergo in cui prendiamo alloggio ha un pontile dal quale si tuffano nel lago gruppi di bambini vocianti e anche qualche adulto. Noi due stiamo imbacuccati a prendere quel poco sole che esce dalle nuvole. Il mio amico sostiene che quelli che si buttano in acqua sono tedeschi: “loro sono abituati a temperature quasi polari …”. A me interessa visitare Marzalesco, così ci incamminiamo e percorriamo stradine che sembrano carruggi, scalini che ci portano a salire in alto, racchiusi da casa in pietra e piccoli archi il tutto di un giallo impressionante. Mentre girovaghiamo senza meta esce una signora anziana, curva, sta scopando l’uscio della sua casa. La saluto e lei gentile mi risponde, ne approfitto per farle alcune domande sul centro storico. Mi dice – “prima era più bello, ora un pezzo alla volta se lo sta mangiando tutto “. Le chiedo – “chi e cosa si sta mangiando?”. Mi risponde con un ampio gesto della mano – “La chiesa, si sta mangiando il paese, un pezzo alla volta, se ne prende un pezzo alla volta, lo ingoia! ci ingoierà tutti!”. Il mio amico con una risata – “signora, lei ha proprio ragione sti preti son maledetti”. Propongo alla signora di accompagnarci fino in cima, sono curiosa di vedere la chiesa mangiatrice di case. Tutti e tre, con una lentezza esasperante, ci mettiamo in cammino verso la cima e quasi arrivati la donna ci mostra i “segni”. Il mio amico non riesce a vedere nulla, neppure io riesco a riconoscere qualcosa. Ma sta vecchietta indica i ‘cambi’ di colore tra una pietra e l’altra, dove finisce la casa e incomincia il muro della chiesa – ” prima qui c’erano altre case … ma lei se l’è ingoiate tutte e anche queste tra poco saranno sue…”.
Per raggiungere la chiesa bisogna percorrere una stradina, quasi un sentiero, con ai lati un bosco di alberi spogli che con i rami pungono una fittissima nebbia, un clima da non credere per essere ancora estate. La percorriamo tutta fino ad arrivare all’ingresso, uno scalone ci attende, sono novecentonovantanove gradini scavati nella roccia, a destra e a sinistra si notano archi, ampie nicchie e tombe con adagiati scheletri di monaci. Io e il mio amico troviamo molto macabro tutto ciò, la signora, intanto, ci distanzia un bel po’ dato che stiamo perdendo tempo a guardarci intorno. Lo scalone finisce con una portone, sullo stipite sono stati scolpiti i segni zodiacali. A me pare un assurdo che in un luogo di preghiera si siano i gemelli, lo scorpione, cancro e capricorno … e donne che si strappano i capelli, che allattano serpenti, tritoni, leoni con teste e code di drago … ma sono fatti così bene da prender quasi vita e staccarsi dalla pietra se non fosse per il mio amico impaziente di aprire il portone di legno che quasi mi spinge via. E finalmente riusciamo ad entrare in chiesa, una chiesa piccolissima, che uno si chiede: come fa da fuori esser così grande e dentro tanto piccolina … Le donne pregano nei banchi di legno, che sembrano quelli del mio paesello. Sull’altare, vestita di bianco con tanto di ‘mitra’ sta una donna che non è donna, è tanto brutta da sembrare uomo. Capelli neri escono dal copricapo e scendono sulla veste bianchissima e luminosa. È tutta indaffarata corre dall’altare ad un tavolo e dal tavolo all’altare. “che sta facendo ?” chiede il mio amico, “dice messa” gli rispondo. Lo immagino dai gesti anche se armeggia con coltelli e in ogni movimento si porta dietro il pastorale. Dopo aver seguito una procedura a me totalmente sconosciuta, la donna sull’altare si ferma e a quel punto uno scossone fa tremare il pavimento della chiesa tanto da cadere a terra. Solo io e il mio amico siamo terrorizzati, le donne continuano a pregare come se niente fosse. Io ho proprio l’impressione di slittare indietro di almeno cento metri. Ed è un’impressione confermata dalla donna che ci accompagna e che ci dice – ” se n’è presa un’altra. Si è mangiata un altro pezzo di casa…”.
Le chiedo – “ma ste donne che fanno? Perché non corrono via? Non hanno paura?”. “Stanno pregando per essere liberate. La loro casa è già stata ingoiata e anche loro insieme. Devono rimanere qui non possono andare via”.
Mi prende un grande desiderio di scappare già mi vedo aprire il pesante portone e correr giù di corsa i gradini dello scalone lasciandomi tutto alle spalle. Ma il mio amico non se ne vuole andare, anzi è attratto dai gesti della megera all’altare. Quella strega prende un coltello e taglia la testa ad un merlo, e ancora una scossa, la stessa sensazione di scivolare indietro anche se niente, apparentemente, cambia dimensione. La chiesa è sempre piccola uguale. Mentre il mio amico, animato non so da quale forza, mi urla che le dobbiamo liberare.
“Liberare? Sei matto!” gli rispondo mentre cerco di tornare indietro ma non ci riesco. Appare chiaro che più aumenta il mio desiderio di fuga, più rimango saldamente ancorata alle pietre lisce e levigate di quel pavimento. Il mio amico è calato nella parte del salvatore delle povere anime catturate, cerca in tutti i modi di avvicinarsi all’altare, e a quella pazza che continua ad armeggiare con penne piume e pastorale. Con enorme fatica riusciamo a raggiungere i primi banchi e finalmente la strega ci nota. A furia di darci ci ha visti, e non è molto contenta, lo si nota dallo stock di coltelli che sta estraendo dal fodero. Altro taglio al povero merlo, altro scossone e mi ritrovo in fondo alla chiesa e ancora il mio amico mi chiama, urla che dobbiamo raggiungere l’altare. Si ricomincia a strisciare sul pavimento di pietra liscio e freddo, le dita che fanno forza nelle scanalatura quasi fosse un’arrampicata libera, il sudore gelido che cola lungo la schiena, a questo punto sono sicura di essermi voltata verso il mio caro amico e di avergli detto “ma che cagata di sogno stiamo facendo”.