Rielaborazioni 3

Si chiamava Massimo. Eravamo in seconda liceo, e sin dal ginnasio mi ero convinto di amarlo. Gli anni sessanta, quelli della mia adolescenza, erano un mondo che non potete neppure immaginare se non l’avete vissuto, i Beatles, l’assassinio di J.F.Kennedy, del leader dei diritti civili Martin Luther King e il primo allunaggio, sono solo alcuni dei tanti accadimenti che hanno cambiato l’intera società scaraventandoci nei tempi moderni. In ogni caso, era il periodo delle prime proposte per la decriminalizzazione dell’omosessualità. Tutti al liceo, sapevano di noi due o tre omosessuali. Vi era curiosità, certo, condita da domande che oggi, educati per immagini da internet, sembrerebbero assurde: “Ma entra tutto?” era la seconda, sempre. Eravamo in una scuola statale, non in un collegio religioso dove vecchie tonache nel silenzio omertoso davano sfogo alla depravazione, vi era molta tolleranza e, sempre, molta buona educazione, tra ragazzi e insegnanti. In tre anni Massimo mi aveva concesso soltanto, una volta, durante la lezione di latino, di accarezzargli il polpaccio infilando la mano sotto i calzoni, gesto al quale era seguito un casuale sfiorargli il sesso diventato turgido. Saremmo potuti diventare buoni amici, non ci fosse stato di mezzo il mio desiderio, ma, lo avrete sperimentato, fra i quindici e i diciotto anni, saliamo uno dei gradini, che nella vita si susseguono portandoci alla consapevolezza e all’età adulta, la scala delle esperienze. Così un giorno, ricordo ancora, era un martedì, avevo appena terminato di leggere Kerouac, libro culto in quegli anni, dissi a Massimo che il venerdì successivo i miei genitori sarebbero partiti per un fine settimana nella capitale con rientro previsto per il lunedì pomeriggio. Massimo veniva ogni mattina a Milano dalla periferia, gli spiegai che da venerdì fino a lunedì mattino sarei stato solo a casa. Dato che casa mia era a dieci minuti a piedi dal liceo perché non venire a studiare e a dormire da me.
Alla proposta mi lanciò uno sguardo che già mi aspettavo. Gli promisi solennemente che non ci avrei provato, non lo avrei sfiorato neppure con un dito. Sarebbe stato mio ospite in tutto, pranzo e cena e ci saremmo recati nei locali di Brera popolati dagli artisti e da personaggi della politica. Massimo sembrava poco convinto ma io mi lanciai in una delle mie migliori interpretazioni: “Ti prego decidi di sì, fallo per quando saremo vecchi, ricorderemo un divertente fine settimana insieme da amici fraterni”.
“Un fine settimana, ma cosa dico ai miei?”
“La verità, che un compagno di classe ti ha invitato a casa sua. Non occorre specificare che il compagno è dell’altra sponda. E visto che tu credi in Dio questa buona azione non verrà dimenticata”.
Accettò e furono giorni meravigliosi. Fu la mia prima esperienza di vita di coppia. Massimo si era portato solo due paia di slip ma dato che avevamo la stessa taglia fui ben felice di prestargli tutto il mio guardaroba. Tutti gli indumenti da lui indossati non furono lavati, ma da me conservati in buste di plastica per conservarne odore e sapore e li indossai giorni dopo come in un indimenticabile e meraviglioso amplesso. Si dormiva insieme nel lettone dei miei, sfiniti da grandi discorsi adolescenziali sui massimi sistemi e sulla nostra incontenibile voglia di cambiare il mondo, ascoltando musica fino a tardi. Al mattino, sfiorandoci con mani e gambe, si studiava seduti al tavolo della sala, nel pomeriggio si usciva nel centro elegante di Milano che per Massimo era una continua scoperta. Sabato dopo cena gli chiesi se potevo lavargli la schiena, una schiena bella, forte, maschia, sensuale, le mie mani scorrevano ogni muscolo, le scapole, la spina dorsale. Dopo cercai una scusa per andare a masturbarmi, lui capì e mi disse di farlo lì e mi guardò mentre godevo della sua schiena appena toccata e del sapone che scorreva sulla sua pelle. Quella notte, verso le due, per sua iniziativa mi prese, con forte dolcezza, senza parole, posò il suo pene eretto alla mia schiena, lo fece scivolare e dopo averlo insalivato, si insinuò tra le mie natiche e spinse per entrare ansimando sul mio collo. E poi ancora la notte tra domenica e lunedì, a luci spente mi fece inginocchiare e me lo ficcò in gola fino a venire. Eravamo un po’ goffi, impacciati. Erano le prime scoperte sessuali. Nessuno di noi fece cenno di ciò che era accaduto, né le mattine seguenti né mai. Dopo il nostro fine settimana insieme tutto riprese come prima. Fino a tre giorni prima delle vacanze estive quando mi diede una busta chiusa, dicendomi di aprirla da solo. L’autunno successivo, ultimo anno di liceo, non era più fra gli iscritti. Né mai riuscii a rintracciarlo.
E adesso che il tempo è trascorso ed io sono vecchio, nei pomeriggi in cui la malinconia è come l’onda della marea, sfilo da quella busta la grande foto in bianco e nero di lui, nudo splendido e in eterno giovane come un eroe, Massimo fermato per sempre nel fulgore dei suoi diciotto anni, tutta la vita ancora davanti a sé piena di promesse e d’ignoto.

“Forse cercare significati fisici e metaforici è una maniera maldestra per capire cosa succede quando due esseri umani hanno bisogno non solo di stare insieme, ma di diventare così totalmente duttili che ognuno si trasforma nell’altro. Essere ciò che sono grazie a te. Essere ciò che era grazie a me. Essere nella sua bocca mentre lui era nella mia, e non sapere più se era il mio o il suo uccello che avevo in bocca. Lui era il passaggio segreto che mi conduceva a me stesso, come un catalizzatore che ci consente di diventare ciò che siamo, il corpo estraneo, l’innesto, il cuore di un altro uomo che ci rende più noi stessi di quanto non eravamo prima del trapianto”.

 

Nota: le rielaborazioni sono destinate ad un sito di racconti erotici.
In questo periodo in cui nulla accade aiutano a trascorrere il tempo.

Rielaborazioni 2

Mi trovo alla scuola di ballo per disdire le lezioni omaggio, e, più volte, senza successo, ho cercato di attirare l’attenzione dell’attempata receptionist. Finalmente, la donna, si rivolge a me con un sorriso e senza ascoltarmi, dice: ”Cara, prima di tutto, deve scegliere un maestro”, e mi indica con la mano le foto di tre uomini e tre donne. Provo gentilmente a chiederle di non chiamarmi “cara”, ma si è già girata verso un altro cliente. Distrattamente guardo le foto che mi ha mostrato e una attira la mia attenzione. Sono così assorta che non mi accorgo che la receptionist è tornata con l’agenda e cinguetta allegra: ”Vedo che ha scelto la nostra Lori. Ottimo. Ha molta esperienza. Le va bene martedì, cara?”. Senza capire bene come, mi ritrovo con in mano il biglietto promemoria della mia prima lezione. Esco dalla scuola di ballo pensando che le cose non sono andate esattamente come volevo, ma la foto di Lori mi ha colpito. Sono sempre stata attratta dalle donne. Ho avuto una storia importante ora finita e in questo periodo sono annoiata, forse le lezioni con una bella donna possono dare brio a serate piatte.
Martedì, senza ben sapere cosa aspettarmi, mi presento con la mano tesa e Lori con un sorriso meraviglioso la fa scivolare sul suo fianco, spiegandomi che nel ballo, per prima cosa, devo prendere confidenza con il corpo del partner. Mi spiega: “Il ballo è un abbraccio, è un modo di camminare abbracciato ad una persona. Riuscire a comprendersi in questa camminata è come realizzare il miracolo di due persone che si muovono insieme nel mondo”. Rimango affascinata dalle sue parole e dal modo di muoversi. Siamo l’una di fronte all’altra, – e, sempre sorridendo continua la lezione: ”Il primo passo è imparare la postura. Busto eretto e immagina una coperta leggera sul braccio destro con cui avvolgermi”. La cingo con delicatezza, tra il punto vita e le scapole. Sento sotto la maglietta sottile la spallina del reggiseno. Lei appoggia con eleganza il braccio sinistro sul mio destro e con la mano arriva quasi al centro della schiena. Quel tocco mi dà un brivido. Ora le mani: la mia sinistra accoglie la sua destra, palmo contro palmo. Siamo in contatto, e il mio lato destro aderisce perfettamente al suo sinistro. Mi accorgo in questo abbraccio, della sua fisicità prorompente, il calore del suo corpo contro il mio, il seno perfetto, le gambe tornite da anni di allenamento. Ne seguo i movimenti, cercando di concentrami sui passi, mi ingarbuglio nei miei stessi piedi. Lei ripete instancabile. Al termine di quaranta minuti disastrosi mi congeda con un sorriso e con l’invito a rivederci martedì prossimo.
In men che non si dica, i miei martedì diventano un appuntamento che bramo tutta la settimana. Imparo, con impegno, la “salida basica”, la “parada”, ma è nella rotazione della “sacada” quando Lori appoggia la coscia alla mia, o nel “gancio” quando indugia il contatto con la mia gamba, che sento la mia eccitazione salire. E’ sempre molto professionale, ma nei ripetuti contatti che abbiamo rallenta sempre un po’ di più il movimento. Prendo coraggio e la invito per un caffè e lei, con sorpresa, mi propone casa sua. Accetto. Mentre guida parla. Parla entrando in casa. Parla salendo le scale, davanti a me, gradino dopo gradino, rallentando il passo per cuocermi lentamente. Nell’androne non parla più. Mi ha già messo la lingua in bocca, con una mano mi slaccia la camicia e con l’altra i pantaloni. Tutta la nostra stoffa cade sul pavimento e le mie mani cercano la sua pelle. I baci sul collo. La sua voglia. La mia voglia. Il suo corpo freme di piccole scosse. Le sue cosce mi stringono in paradiso.
I nostri martedì non sono lezioni di ballo. Sono i nostri corpi che si intrecciano sulle note di un tango, e io penso che il mondo gira perché lei gira con me in passi di danza orizzontali. Il rapporto tra due donne è speciale, ti travolge la testa, ti spacca il cuore e ti toglie il respiro.
Lori diventa il mio primo pensiero. Un desiderio che vive in funzione del tempo che ci divide dall’ultimo incontro al prossimo.
Non immaginavo che potesse finire all’improvviso, ma come lei mi spiegò in seguito: finisce tutto ciò a cui non si può dare un nome. Me ne accorgo solo ora ripensandoci, non aveva mai dato un nome ai nostri incontri. Mi faceva entrare in casa di nascosto. Nessuno sapeva di me. Nessuno sapeva di noi.
Chiusa la questione con me, ora ha un nuovo gioco, un uomo. Dovrei farmene una ragione, invece, alla sera, passo davanti a casa sua, vedo l’auto del nuovo amico e riesco ad immaginare il palestrato torello che, dopo la monta, si sistema il pacco prima di salire in macchina.
A me non è rimasto nulla solo il silenzio. Non risponde più alle mie chiamate; non legge i miei messaggi. Mi ignora completamente.
E’ notte e sono qui, sul retro di casa sua, nascosta nelle ombre. Aspetto, vedo il suo uomo uscire, prendere l’auto e andarsene. So dove Lori tiene la chiave di scorta. La prendo ed entro in casa. La musica, che proviene dal piano di sopra, attutisce i miei passi mentre salgo le scale. Apro la porta e la prima cosa che vedo è una bottiglia di vino vuota con due bicchieri lasciata sul tavolo rotondo. C’è odore di sigaretta. Trattengo il fiato e la cerco. Le voglio parlare, le voglio spiegare ciò che sto provando, la sofferenza, l’amarezza, il mio desiderio. Mentalmente mi sono preparata un bel discorso di quelli che si fanno solo una volta nella vita. Lori è in camera da letto, nuda, forse stanca, sicuramente appagata. Mi dà la schiena e non si accorge di me e del laccio rosso che è comparso tra le mie mani. L’ho sfilato dalla tasca e lo tendo tra le dita, è un attimo metterglielo al collo, su quella curva che ho baciato cento volte. La sorpresa e l’alcool giocano a mio favore. Stringo il laccio con tutte le mie forze. La tiro a me in un abbraccio. Scalpita. Si affanna per ritrovare il respiro. Si muove come in una danza. Con le mani cerca di allentare la stretta. Siamo nuovamente in contatto. La sua schiena aderisce perfettamente al mio petto. Sento il suo calore. Respiro il suo odore. L’adrenalina mi inonda, mi trasporta ad una eccitazione mai provata. Godo di quell’abbraccio mortale. Stringo sempre di più, sento la vita che l’abbandona, i suoi occhi si chiudono piano, un rantolo esce dalle sue labbra ed io raggiungo il massimo del piacere nel momento in cui si spegne tra le mie braccia. Cadiamo a terra, due persone immobili nel mondo.
Ora lei è soltanto mia.

** fatti e persone sono di pura fantasia.

Rielaborazioni 1

Lei è sotto la doccia. L’acqua le cade sul corpo e vi indugia formando repentini rigagnoli nell’abisso di quei seni che hai baciato, morso e succhiato per ore. A tempo con lo scroscio d’acqua del soffione apri il rubinetto e riempi la caldaia della moka fino alla valvola. Inserisci il filtro e inizi a mettere i caffè, con gesti lenti per non disperdere la polvere, intanto sorridi per quel colore marrone che si sovrappone e che ti riporta ai ciuffi della notte appena finita. Avviti con cura la parte superiore e mentre appoggi la moka sul fornello accesso, lei appare col tuo accappatoio annodato in maniera bislacca. Puoi vederle le cosce splendide, ancora umide, socchiudi gli occhi e sei colpito dal profumo, non sai distinguere se è il bagnoschiuma che ha usato o le rose che hai comprato la sera prima. È tutto un attimo, lei sparisce nuovamente in bagno e i tuoi pensieri vengono distolti da un leggero borbottio. Il caffè sale ràpido e per la cucina si espande il suo aroma. Ora lei appare con un asciugamano annodato come un turbante, puoi vederle la nuca, il collo liscio. Una ciocca di capelli sfugge alle costrizioni della spugna e aderisce alla pelle in un ricciolo nero. Lei si siede, lo fai anche tu, e davanti a voi il silenzio prende posto.
Servi il caffè, tendi verso di lei la mano con la tazzina piena, riempi la tua, con lo sguardo le offri lo zucchero appoggiato sul tavolo. Lei non ne vuole. Con il cucchiaino compi brevi movimenti, finché lo zucchero non è completamente disciolto, la guardi rispettando il silenzio di questa mattina che mangia la notte appena passata. Alla fine è lei la prima ad assaggiare il caffè e, lì per lì, pensi che forse la tazza è sporca. Ma lei dice:
“Mi piace nero, bollente, ma questo è freddo”.
Rimani di stucco. Non hai tempo di replicare. Lei si alza, va in camera da letto. Senti il fruscio dei suoi abiti raccolti in giro per la stanza. Porti la tua tazzina alle labbra e ti accorgi che anche il tuo caffè è freddo. Prendi le tazze e la caffettiera, rovesci tutto il liquido nel lavandino. Sciacqui e ricominci con perizia a riempire d’acqua e di caffè la moka. Calcoli che sia tutto corretto. Rimani in piedi aspettando che la caldaia entri in pressione e che, goccia a goccia, il caffè salga nel bricco, ascolti i rumori, ne annusi l’aroma. Prendi due tazzine pulite, le riempi e le appoggi sul tavolo. Lei arriva vestita come la sera prima, con la camicetta che le hai tolto e la gonna che le hai sfilato. Accende una sigaretta e avvicina la tazzina ma subito la spinge via. Non ha bevuto, ma lo sa. Te lo dice in silenzio. Te lo dice attraverso il fumo che esce dalle labbra.
Tocchi la tazzina ed è fredda.
Una sensazione di gelo ti attanaglia la gola. Vuoi parlare ma non riesci a dire una parola. Vuoi spiegare che lo puoi rifare, un altro tentativo.
Lei si alza. Prende la borsa, cerca le chiavi dell’auto. Si prepara. Prima di aprire la porta si volta e appoggia le sue labbra alle tue in un bacio che è freddo come il tuo caffè.

Rielaborazioni per ingannare il covid.

Covid’s World

Prendo spunto da un post*   letto oggi, ma soprattutto dall’immagine che accompagna lo scritto, il noto quadro di Andrew Wyeth – “Christina’s world”.
Il quadro ritrae una giovane che sembra, ad un primo sguardo, sdraiata nell’erba, con più attenzione si nota una postura del corpo non naturale, tesa verso la casa lontana. Christina è affetta da disabilità motoria e caparbiamente preferiva spostarsi con la sola forza delle braccia trascinandosi piuttosto che usare la sedia a rotelle. Wyeth è riuscito a trasmettere un paesaggio al contempo sia dolce che amaro; un paesaggio sentito ed elaborato.

Come tutti, soffro questo tempo di covid che mi ha privato di ogni sistematica abitudine: i film al cinema d’essai, con annesse chiacchiere con i titolari sulle ultime uscite.  I concerti, l’ultimo di Paolo Fresu. Le mostre. Le uscite fotografiche. Le visite agli amici. Le cene con il mio più caro amico.

A Christina è stata offerta la possibilità di usare le braccia per opporsi al suo male.

A noi è stata offerta la privazione di tutto su un piatto d’argento.

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*) il blog di bisou_fatal

 

Una sera al lago

Ogni mattina un cayenne mi supera mentre vado al lavoro. È sempre lo stesso ma non so chi è il proprietario, abita, per certo, in paese. Tutte le mattine alle otto meno un quarto lo vedo arrivare nello specchietto retrovisore, mettere la freccia e superarmi, nero, lucido, grosso. Ogni mattina penso che lui ha il cayenne con il turbo multiaccessoriato, il cui costo di un pneumatico equivale al prezzo di tutta la mia autovettura, antenna compresa. Ogni mattina sento lo spostamento d’aria quando mi passa al fianco e si dilegua all’orizzonte. Ogni mattina penso che lui ha un’auto di lusso costosa e che io invece c’ho un blog di scarico del tutto gratuito. Vuoi mettere il mio blog con il suo cayenne nero e cromato … non c’è paragone…

Ci sono situazioni che sarebbe meglio non raccontare mai anche se si ha un posto dove mettere i pensieri, dove ragionarci. Sarebbe meglio evitare perché il silenzio, invece del racconto, è quanto di meglio una persona, in certe occasioni, possa offrire. Ma poi non si ha la capacità di starsene zitti e così si comincia a raccontare di una sera nata strana, di me che giro a vuoto in una stanza all’affannosa ricerca di qualcosa che pensavo di avere e che invece non trovo.
La donna che è con me parla a ruota libera seduta al centro del letto, il suo discorso mi arriva a pezzetti distratta, come sono, dal mio cercare quello che non trovo.
“Perché tu mi sai capire”, dice, … capire, cosa vuol dire perché io so capire? Che cosa so capire? …
“Perché posso chiederti” … chiedere, sempre a chiedere consigli, possibile che non si possano avere idee proprie? Soluzioni proprie? Occorre sempre chiedere ad un altro, ad una terza persona, ad una quarta …
“Perché io credo …”, la interrompo,
“shhhhhhhh hai sentito ?”, le chiedo,
“… no”, mi risponde,
cerca di captare quel qualcosa, ma poi riprende a parlare e io di nuovo a fermarla…
“Ascolta. hai sentito?”
.”Non sento niente…” mi guarda
“Proprio non hai sentito niente?”
“Forse proviene dal piano di sopra…”
Riprendo a cercare quella cosa che ero sicura di avere, mentre lei riannoda i fili del discorso fino a quando, fino a quando accade.
Solo nelle pagine di “Novecento” c’è la spiegazione di quello che può accadere ad un tratto, così all’improvviso. Ci sono cose, dolori, sensazioni, dacci il nome che vuoi, che solo quelle pagine sanno rendere al meglio, come quando racconta dei quadri …
“A me m’ha sempre colpito questa faccenda dei quadri. Stanno su per anni, poi cadono. Stanno lì attaccati al chiodo, nessuno gli fa niente, ma loro ad un certo punto, cadono giù come sassi. Nel silenzio più assoluto, con tutto immobile intorno, non una mosca che vola, e loro, vengono giù. Non c’è una ragione. Perché proprio in quell’istante? Non si sa. Cos’è che succede ad un chiodo per farlo decidere che non ne può più? C’ha un’ anima anche lui, poveretto? Prende delle decisioni? Ne ha discusso a lungo con il quadro, erano incerti sul da farsi ne parlavano tutte le sere, da anni, poi hanno deciso una data, un’ora, un minuto, un istante, è quello, frann, caduto. Non si capisce. È una di quelle cose che è meglio che non ci pensi, se no ci esci matto. Quando cade un quadro. Quando ti svegli, un mattino, e non la ami più. Quando apri il giornale e leggi è scoppiata la guerra. Quando vedi un treno e pensi io devo andarmene da qui. Quando ti guardi allo specchio e ti accorgi che sei vecchio…”
Quando sei in una stanza con una donna seduta nel mezzo del letto e pensi che sia la cosa più terribile di questa terra. Quella stessa persona con cui hai provato prima freddo poi caldo e ti sembra la cosa più spaventosa di questa terra.
Mentre penso questo mi viene in mente di quando andavo a giocare da una mia compagna di scuola, lei apriva di poco la camera da letto di sua madre, e mi preparava a vedere la cosa che, secondo lei, era la più bella del mondo. Indicava, raccomandandosi di stare a debita distanza, l’enorme bambola seduta al centro del letto matrimoniale. Indossava un vestito bianco con una marea di tulle ben sistemate e da cui uscivano piedini infilati in scarpette di vernice bianca, in testa aveva un cappello a larghe tese e le braccia nude un po’ piegate. La mia amica estasiata mi raccontava che sua madre gliela avrebbe affidata solo tra qualche anno, quando sarebbe stata più grande, più responsabile. sospirava e mi chiedeva se mi piaceva e quando quel giorno sarebbe arrivato me l’avrebbe fatta toccare. Non le ho mai detto di quanto mi facesse schifo quell’enorme bambola sistemata al centro del letto. Non l’avrei toccata per tutto l’oro del mondo. quella montagna di stoffa immobile, statica, con occhio fisso, era orribile. Mi limitavo a guardare senza dire una parola aspettando di andarmene. Mia madre mi aveva insegnato che non si devono turbare le persone con inutili commenti e quello era un inutile commento. Avrei disprezzato qualcosa che la mia amica smaniava di possedere, di toccare, il suo oggetto, a me oscuro, del desiderio. La donna al centro del letto ora è silenziosa, mi guarda e non sa che pesci pigliare, non sa che cosa fare con una che piange. Che ricorda e piange.
Io ricordo e piango, non me ne accorgo neppure di quanto grosse sono le mie lacrime, so solo che il dolore è immenso così grande che mi si spezza il cuore. cadono le mie lacrime all’improvviso sul pavimento come un quadro senza che ce ne sia motivo. Perché proprio in quell’istante? Cos’è che succede ad un cuore per farlo decidere che non ne può più? Ne ha parlato tutte le sere con i canali lacrimali a mia insaputa? Si sono messi d’accordo per una notte di maggio in un posto che se fai silenzio, se sai ascoltare, senti il rumore del lago. per anni non hanno detto niente non si sono mai lamentati poi all’improvviso, scendono lacrime come un rubinetto aperto e non c’è modo o maniera di fermarle e non c’è modo o maniera di non sentire dolore. È una di quelle cose che non dipende da me e neppure da lei che non sa cosa fare. Non capisce. È una di quelle cose che è meglio non ripensarle per non uscirne matta.

Profumo di Menta

C’è un angelo biondo nella mia infanzia. Le nostre mamme erano amiche e noi abbiamo qualche mese di differenza, qualche centimetro e qualche chilogrammo. Sua madre non sapeva come chiamarla e così scelse il mio nome attirando le critiche di mia madre.
Da piccole giocavamo sempre insieme nel cortile sterrato. Giochi fatti di corse a perdifiato con le automobili a pedali, la mia era di ferro, pesantissima, colorata di rosso, con il numero ‘sei’ scritto sul cofano, me l’aveva messa a posto mio nonno, aveva gonfiato le gomme, raddrizzato la lamiera e pitturato la carrozzeria. La mia amica, invece, ne usava una azzurra senza numero. Ci buttavamo senza freni, a tutta velocità giù dalla discesa, con il rischio di capottarci e quando eravamo stanche di pedalare ci dedicavamo a grandi ricette.
Avevo sei anni una marea di riccioli biondi che si mischiavano a quelli suoi uguali, quando facevamo finta di cuocere miscugli di terra e acqua e sassi, con pentole enormi rubate dalla cantina. Ricordo che a livello della strada dove picchiava forte il sole, c’era un cespuglio di menta alto quanto me, strappavo le foglie, le sfregavo tra le mani e si sprigionava il profumo, le aggiungevo alle nostre ricette ma a lei quel profumo dava fastidio e scappava via ogni volta che mi avvicinavo.
Un giorno arrivò con una borsa, all’interno nascondeva giornalini, credo li avesse fregati a suo fratello, mi disse facciamo le stesse cose delle foto e dei disegni, mi disse che era bello. così incominciarono altri giochi fatti in un’umida cantina con mattoni rossi lasciando fuori la luce e il caldo dell’estate.
Lei era sistematica e precisa. io ero molto più goffa ed imbranata, ricordo solo che il suo corpo mi faceva star bene, ne ero estasiata, come se non ci fosse nulla di più bello. In quel periodo ho pensato che tutto quello fosse una piacevole variante alle pentole e alle macchinine.
Non c’era in me insegnamento che mi potesse far supporre che c’era qualcosa di sbagliato in due esseri umani che si toccano. E poi perché sbagliato? Nessuno me lo spiegò mai. Mio padre un giorno mi portò via di peso dalla mia amica che porta il mio stesso nome senza dire una parola, senza nessuna spiegazione. Come se tutto si potesse risolvere allontanandomi da lei.