Assoggettato all’imposizione tributaria Nazionale Italiana anziché a quella Elvetica.

 

Assoggettato all’imposizione tributaria Nazionale Italiana anziché a quella Elvetica.

Con la sentenza n. 13114/2018 la Suprema Corte di Cassazione in composizione Penale, è intervenuta sul ricorso proposto avverso l’ordinanza di sequestro preventivo (dell’importo di euro 2.230.776) emessa dal Tribunale di Ferrara, in sede di riesame, nei confronti di un soggetto cui era stata contestata l’omessa dichiarazione dei redditi per gli anni di imposta 2010- 2013 configurante la fattispecie di reato punita ex art. 5 D.Lgs 74/2000. Assoggettato all’imposizione tributaria Nazionale Italiana anziché a quella Elvetica.
Tale ordinanza era scaturita all’esito di un’accurata indagine che aveva evidenziato vari elementi che hanno portato la Guardia di Finanza a ritenere che il soggetto in questione, nonostante la residenza anagrafica in Svizzera, avesse la sede principale dei propri interessi economici ed affettivi in Italia e pertanto dovesse essere assoggettato all’imposizione tributaria Nazionale anziché a quella Elvetica.
A sostegno dell’introitata azione per la cassazione dell’ordinanza de qua, per quello che è qui di interesse, il ricorrente adduceva la violazione dell’art. 4 della Convenzione Italo-Svizzera che dispone che il paese titolare della pretesa impositiva è quello in cui il contribuente ha la propria residenza, suffragata, nel caso di specie, da attestazioni rilasciate dall’autorità fiscale cantonale elvetica su richiesta delle imprese italiane incaricate dell’esecuzione materiale delle opere del ricorrente nonché da molteplici circostanze fattuali di per sé sufficienti a provare che egli avesse in Svizzera, e non in Italia, la propria residenza e il proprio centro di interessi ed affari.
Ed invero, prosegue il ricorrente, ai fini dell’individuazione della propria residenza e domicilio occorre tenere conto che: il numero degli immobili di cui è titolare in Italia corrisponde a quelli di cui è proprietario in Svizzera, a Parigi e a New York; le società di distribuzione dei suoi prodotti hanno sede in Ginevra e Parigi; che i suoi figli, come egli stesso, sono residenti in Svizzera e che in alcun modo risulta provata la sua dimora abituale in Italia.
In ordine alle deduzioni incorporate nel ricorso, la Suprema Corte ha ribadito che, ai fini delle imposte sui redditi, l’art. 2 T.U.I.R considera residenti le persone che per la maggior parte del periodo di imposta sono iscritte nelle anagrafi della popolazione residente o hanno nello Stato il domicilio o la residenza ai sensi del Codice Civile, mentre sono definiti “non residenti” coloro che non sono iscritti nelle anagrafi della popolazione residente per almeno 183 giorni dell’anno di imposta e che non hanno, ai sensi del Codice Civile né la residenza (dimora abituale) né il domicilio (sede principale di affari e interessi) con espressa precisazione che se manca uno soltanto dei suddetti requisiti, il contribuente viene automaticamente considerato residente.
Ne consegue che l’iscrizione nell’anagrafe dei soggetti residenti in altro Stato non è elemento determinante per escluderne la residenza fiscale in Italia allorché si tratti di soggetto che abbia nel territorio dello Stato la sua dimora abituale ovvero la sede principale dei propri affari ed interessi economici, cosi come delle proprie relazioni personali.
Peraltro, prosegue la Corte, alle medesime conclusioni conduce l’art. 4 della Convenzione tra Italia e Svizzera ratificata con la l. n. 943/1978, il quale, individuando criteri del tutto analoghi a quelli stabiliti dalla legislazione interna, facendo riferimento alle nozioni di domicilio, residenza ovvero a caratteri di analoga natura per la cui definizione rimanda espressamente alla normativa degli Stati contraenti, comunque prevede l’ipotesi in cui lo stesso soggetto possa essere considerato residente da entrambi gli Stati dando in tal modo, implicitamente conto della possibile inconsistenza del dato anagrafico.
Adottando tali criteri, l’ordinanza impugnata ha ritenuto che il ricorrente dovesse ritenersi residente in Italia sulla base del dato fattuale che egli dimori stabilmente in Italia elencando una serie di elementi dai quali desumere che in Italia fosse anche il suo domicilio, atteso che ivi si trova il suo studio di design, ivi si trovano pluralità di conti correnti a lui intestati, ivi utilizza frequentemente sia le carte di credito che la rete autostradale.
Tali dati fattuali, hanno portato gli Ermellini a rigettare il ricorso in quanto il ricorrente ha omesso di contestare i dati fattuali sui quali l’ordinanza si fonda, limitandosi ad incentrare la propria difesa sulla documentazione che avrebbe dovuto dimostrare la propria residenza a Ginevra. Il conseguente rigetto deriva non solo dalla circostanza per la quale la documentazione de qua non è stata prodotta (violando in tal modo il principio di autosufficienza del ricorso), ma altresì dall’assenza di rilevanza della stessa in quanto dalla medesima non emergerebbe l’avvenuto pagamento delle imposte in Svizzera relativamente ai periodi di imposta di cui si contesta, ai sensi dell’art. 5 D.Lgs. 74/2000, l’omessa presentazione delle dichiarazioni dei redditi.

@Produzione Riservata

Studio Legale Cimino

http://studiolegalecimino.eu/irpef-in-italia-anche-se-residente-in-svizzera/#

 

LA CORTE COSTITUZIONALE FA IL PUNTO CON SENTENZA :NIENTE CARCERE PER CHI RIPORTI UNA PENA FINO A 4 ANNI

LA CORTE COSTITUZIONALE FA IL PUNTO CON SENTENZA :

NIENTE CARCERE PER CHI RIPORTI UNA PENA FINO A 4 ANNI

http://studiolegalecimino.eu/niente-carcere-per-chi-riporti-una-pena-fino-a-4-anni-la-consulta-fa-il-punto/

avvocato
www.studiolegalecimino.eu

Con la Sentenza n. 41/2018 dello scorso 2.3.2018 la Corte Costituzionale si è espressa in ordine alla censura di legittimità costituzionale, in riferimento agli art. 3 e 27 co. 3 della Costituzione, dell’art. 656 comma 5 c.p.p., promosso dal Giudice per le Indagini preliminari del Tribunale di Lecce, nel procedimento penale in cui il  giudice rimettente si era trovato a decidere, in qualità di giudice dell’esecuzione, sulla domanda di sospensione  di un ordine di esecuzione della pena detentiva di tre anni, undici mesi e diciassette giorni di reclusione, che il pubblico ministero aveva emesso, in base all’art. 656, comma 1, c.p.p., privandolo della sospensiva in quanto la pena da scontare eccedeva il limite di tre anni fissato dal quinto comma dello stesso articolo.

La norma oggetto di censura prevede infatti che se la pena detentiva, anche se costituente residuo di maggiore pena, non è superiore a tre anni il pubblico ministero, salvo quanto previsto dai commi 7 e 9, ne sospende l’esecuzione. L’ordine di esecuzione e il decreto di sospensione sono notificati al condannato e al difensore nominato per la fase dell’esecuzione o, in difetto, al difensore che lo ha assistito nella fase del giudizio, con l’avviso che entro trenta giorni può essere presentata istanza, corredata dalle indicazioni e dalla documentazione necessarie, volta ad ottenere la concessione di una delle misure alternative alla detenzione ovvero la Sospensione dell’esecuzione della pena.

Il condannato aveva chiesto al giudice rimettente di dichiarare inefficace l’ordine di esecuzione, sostenendo che avrebbe dovuto essere sospeso nonostante la pena da espiare eccedesse il limite triennale atteso che l’art. 47 comma 3 bis della legge 354/1957 recante misure urgenti in tema di tutela dei diritti fondamentali dei detenuti e di riduzione controllata della popolazione carceraria, consente una particolare forma di affidamento in prova quando la pena detentiva da eseguire non è superiore ai 4 anni.

Stante questo rilievo normativo, secondo il condannato, il limite cui subordinare la sospensione dell’ordine di esecuzione dovrebbe armonizzarsi con tale tetto e ritenersi fissato anch’esso in quattro anni, anziché in tre come prevede la lettera della disposizione censurata.

A questo punto, non potendo il giudice interpretare la disposizione nel senso auspicato dal ricorrente (stante l’univoco tenore letterale della stessa) la questione della sua legittimità costituzionale è stata sottoposta alla Corte, in particolare quanto alla parte in cui la sospensione dell’esecuzione continua a essere prevista quando la pena detentiva da espiare non è superiore a tre anni, anziché a quattro. Ciò in quanto, l’omesso adeguamento del limite quantitativo di pena previsto dalla norma censurata a quello indicato ai fini dell’affidamento in prova allargato determinerebbe un “disallineamento sistematico“, frutto di un “mancato raccordo tra norme“, reputato lesivo anzitutto dell’art. 3 Cost., circostanza questa, che discrimina ingiustificatamente coloro che possono essere ammessi alla misura alternativa in quanto tenuti ad espiare una pena detentiva non superiore a quattro anni, da coloro che, potendo godere dell’affidamento in prova relativo a una pena detentiva non superiore a tre anni, ottengono la sospensione automatica dell’ordine di esecuzione.

Secondo il Gip rimettente, la disposizione censurata sarebbe in contrasto altresì con la finalità rieducativa della pena prevista dall’art. 27 terzo comma della Costituzione in quanto comporta l’ingresso in carcere di chi può godere dell’affidamento in prova allargato.

La Consulta ha ritenuto fondata la questione di legittimità rilevando che l’art. 656 co. 5 ha subito, nel tempo, una serie di correttivi volti proprio a mantenere una sorta di parallelismo del limite previsto per la sospensione dell’ordine di esecuzione e di quello previsto, a favore dei condannati, per chiedere di essere sottoposti a un percorso risocializzante che non includa il trattamento carcerario.

La Corte rileva altresì che, all’indomani dell’introduzione  dell’affidamento in prova per pene da espiare fino a quattro anni di detenzione, non è stata adottata alcuna modificazione del termine indicato dalla disposizione censurata, non essendo ancora stata ancora esercitata la delega legislativa conferita con la legge n. 103/2017 (Modifiche al codice penale, codice di procedura penale e all’ordinamento penitenziario) che ha previsto di fissare, in ogni caso, in quattro anni, il limite di pena che impone la sospensione dell’ordine di esecuzione.

Ciò nonostante, prosegue la consulta, occorre valutare caso per caso se esistano dei fattori (quali ad esempio la pericolosità del reato) che possano prevalere sulla coerenza sistematica e sul parallelismo dei limiti.

Nel caso in esame, la rottura del parallelismo, imputabile al mancato adeguamento della disposizione censurata, appare di particolare gravità perché è proprio il modo con cui la legge ha configurato l’affidamento in prova allargato che reclama, quale corollario, la corrispondente sospensione dell’ordine di esecuzione.

In conclusione, mancando di elevare il termine previsto per sospendere l’ordine di esecuzione della pena detentiva, così da renderlo corrispondente al termine di concessione dell’affidamento in prova allargato, il legislatore non è incorso in un mero difetto di coordinamento, ma ha leso l’art. 3 della Costituzione. Si è infatti derogato al principio del parallelismo senza adeguata ragione giustificatrice, dando luogo a un trattamento normativo differenziato di situazioni da reputarsi uguali, quanto alla finalità intrinseca alla sospensione dell’ordine di esecuzione della pena detentiva e alle garanzie apprestate in ordine alle modalità di incisione della libertà personale del condannato.

Nonostante il diverso parere dell’Avvocatura, la Corte ha quindi ritenuto che il Legislatore, attraverso l’istituto della messa alla prova allargata, abbia inteso equiparare detenuti e liberi ai fini dell’accesso alla misura alternativa, scelta che ben si giustifica, precisa la Consulta, in considerazione dell’obiettivo di deflazionare le carceri, non solo liberando chi le occupa ma anche evitando che vi faccia ingresso chi è libero.

Di qui l’incostituzionalità del 5° comma dell’art. 656 c.p.p. “nella parte in cui prevede che il pubblico ministero sospende l’esecuzione della pena detentiva, anche se costituente residuo di maggior pena, non superiore a tre anni anziché a quattro anni.”

@Produzione Riservata

Studio Legale Gelsomina Cimino

www.studiolegalecimino.eu

 

 

 

VITE SPEZZATE

VITE SPEZZATE

http://studiolegalecimino.eu/femminicidio-non-dimenticare/

 

FEMINICIDIO: PER NON DIMENTICARE

Cessa il fragore, si spengono le luci e il dolore resta!

Resta il rimorso per le parole non dette, per l’abbraccio mancato, per le promesse non mantenute.

Questo resta alle donne che non sentiranno più chiamarsi “mamma”; alle mamme che non vedranno più i loro figli.

Ci si aggrappa alla Giustizia, confidando che il colpevole venga punito e ben presto ci si accorge che basta un cavillo, una dimenticanza e LUI torna libero, libero di fare ancora del male, libero di infliggere ancora sofferenza e atroce dolore. “Una violenza cieca sempre più immotivata e incomprensibile”.

Grazie alla partecipazione di donne –  vittime di atroci delitti che hanno deciso di dire BASTA, l’Avv Gelsomina Cimino sta curando la costituzione di un’Associazione  Nazionale che sia dalla parte delle donne, contro il feminicidio, contro la violenza gratuita e che sappia ascoltare il grido di dolore che si nasconde dietro ad un occhio nero.

Non sarai più sola e quando deciderai di fare il primo passo verso la libertà, troverai esperti sempre pronti, che ti sapranno difendere, consigliare su cosa fare e dove andare.

La violenza sulle donne nel mondo è la forma più pervasiva di violazione dei diritti umani conosciuta oggi, che devasta vite, disgrega comunità e ostacola lo sviluppo.

Sono 6.788.000 le donne che hanno subito violenza almeno una volta nella vita in Italia.

Sono 3.466.000 invece coloro che hanno a che fare con casi di stalking.

Oltre 1 milione e 400 mila donne hanno subito molestie o ricatti sul lavoro.

Dobbiamo gridare al mondo intero: “La donna è uscita dalla costola dell’uomo, non dai piedi perché dovesse essere pestata, né dalla testa per essere superiore, ma dal fianco per essere uguale…un po’ più in basso del braccio per essere protetta e dal lato del cuore per essere Amata” (William Shakespeare)

Studio Legale Cimino

www.studiolegalecimino.eu

Assegno circolare Doppio termine per l’incasso e per il rimborso

http://studiolegalecimino.eu/assegno-circolare-doppio-termine-lincasso-rimborso/

Assegno circolare  Doppio termine per l’incasso e per il rimborso

avvocato a roma
avvocato gelsomina cimino

Con la Sentenza n. 5889/2018 la Corte di Cassazione è intervenuta sulla questione relativa alla prescrizione del diritto ad ottenere la restituzione delle somme oggetto di un assegno circolare mai riscosso.

Nel caso di specie la ricorrente aveva, invero, richiesto l’emissione, da parte di un istituto di credito bancario, di un assegno circolare a favore della figlia, la quale, tuttavia non provvedeva all’incasso ed anzi ne denunciava lo smarrimento.

Per comprendere appieno la questione, fondamentali sono le tempistiche delle circostanze fattuali portate all’attenzione della magistratura.

Occorre infatti tenere ben presente che l’emissione dell’assegno risale al marzo 2001 mentre, la denuncia di smarrimento è avvenuta nel luglio 2011.

A complicare il quadro probatorio, interveniva nel 2009, il trasferimento, da parte della banca emittente, della metà della somma al fondo depositi “dormienti”, istituito con la l. 266/2005, e relativo fra l’altro (si tratta in verità del Fondo per indennizzare le vittime di frodi finanziarie), agli assegni circolari non riscossi nel termine di prescrizione imposto dalla normativa vigente.

Orbene, la ricorrente, dopo aver tentato invano di riscuotere l’assegno consegnato alla figlia e non riscosso, a fronte del suddetto trasferimento, ricorreva al Tribunale di Torino onde ottenere la restituzione della somma incorporata nell’assegno.

Il ricorso veniva rigettato per carenza di legittimazione ad agire della ricorrente, in quanto il Tribunale ha ritenuto che la sola legittimata ad agire fosse la figlia, beneficiaria dell’assegno.

La mamma ricorreva quindi alla Corte d’Appello di Torino, la quale pur riformando parzialmente la sentenza di primo grado, riconoscendo la legittimazione ad agire della ricorrente, respingeva il ricorso atteso il decorso del termine prescrizionale per riscuotere l’assegno.

Seguitava il ricorso per la cassazione della sentenza de qua, il quale è stato ritenuto fondato da parte della Suprema Corte, che ha, in primo luogo chiarito il quadro normativo di riferimento, richiamando l’art. 2935 c.c., il quale prevede, in generale l’estinzione dei diritti in 10 anni, a decorrere dal giorno in cui il diritto stesso può essere fatto valere, salvo che la legge disponga diversamente.

Per quanto riguarda gli assegni l’art. 84 del R.D. 1736/1933 prevede, con riferimento agli assegni circolari, i quali vanno tenuti nettamente distinti dagli assegni bancari, il termine breve di tre anni per la prescrizione del diritto di azione dei confronti dell’emittente bancario.

In tale quadro normativo si inserisce altresì l’art. 345 ter della L. n. 266/2005, il quale prevede che gli importi degli assegni circolari non riscossi entro il termine di prescrizione del relativo diritto, sono versati al Fondo depositi “dormienti” entro il 31 maggio dell’anno successivo a quello in cui scade il termine di prescrizione, rimanendo, tuttavia impregiudicato il diritto del richiedente l’emissione dell’assegno circolare non riscosso alla restituzione del relativo importo.

Ne deriva quindi che una volta che sia decorso il termine triennale, il beneficiario dell’assegno circolare non può più ottenerne il pagamento, con la conseguenza che colui che ha richiesto tale titolo di credito può ripetere la provvista dal cd. Fondo depositi dormienti, e la relativa azione si prescrive nel termine ordinario decennale, applicando le regole proprie del “mandato” che caratterizza il rapporto fra cliente e Istituto emittente.

Applicando tali principi appare evidente come la ricorrente avesse piena legittimazione ad agire per la restituzione della somma essendo spirato (nel marzo 2004) il termine per la beneficiaria ad incassare l’assegno e non essendo ancora spirato il termine di prescrizione della ricorrente ad ottenere la restituzione della provvista al momento dell’introduzione della causa.

@Produzione Riservata

Studio Legale Gelsomina Cimino

http://www.studiolegalecimino.eu

 

 

studio legale roma avvocato gelsomina cimino

Studio legale Roma Avvocato Gelsomina Cimino

INVIACI IL TUO CURRICULUM
e parlaci di te…
LAVORA CON NOI

Lo studio Legale Cimino è cresciuto negli anni attraverso l’inserimento di giovani professionisti che hanno maturato e maturano progressivamente le loro capacità e esperienze professionali. Il candidato che vuole collaborare con lo Studio Legale Cimino, deve essere un professionista con un eccellente carriera universitaria, con il desiderio e l’attitudine ad impegnarsi nell’attività professionale con passione e dedizione e che voglia innescare in se stesso un processo di auto-formazione.

Inviaci il tuo CV in formato PDF e inserisci la tua presentazione raccontandoci le tue esperienze, la tua formazione e le tue aspirazioni.

info@studiolegalecimino.eu

http://studiolegalecimino.eu/lo-studio/

Utilizzare Facebook e i social per inoltrare messaggi e contenuti offensivi è reato

Utilizzare Facebook e i social per inoltrare messaggi e contenuti offensivi è reato

Con la Sentenza n. 57764/2017, la Corte di Cassazione interviene nuovamente sulla tematica dei social network e sui risvolti penali che possono assumere alcune delle condotte perpetrate su internet.

Il caso di specie: l’imputato era stato condannato alla pena di giustizia ed al risarcimento dei danni in favore della parte civile, in quanto ritenuto colpevole di atti persecutori in danno della stessa.

Il ricorrente lamentava carenza di motivazione nonché violazione di legge per diversi motivi: in primo luogo, i giudici di merito avrebbero fondato il proprio convincimento sulla base delle sole affermazioni della parte offesa senza considerare le circostanze fattuali che avrebbero giustificato la condotta lesiva (ossia la rabbia conseguente alla rivelazione da parte della moglie dell’imputato di avere una relazione extraconiugale).

In secondo luogo, secondo il ricorrente, non risultava provato lo stato d’ansia né il mutamento dello stile di vita della vittima.

In terzo luogo non sarebbe possibile configurare il reato in esame quando la condotta persecutoria sia realizzata attraverso Facebook.

In relazione alle censure mosse dal ricorrente, la Corte, premettendo che le dichiarazioni della persona offesa possono da sole essere poste a fondamento dell’affermazione di responsabilità penale dell’imputato, previa verifica della credibilità soggettiva del dichiarante e dell’attendibilità del racconto, osserva che i giudici di merito hanno compiutamente analizzato le condotte poste in essere dall’imputato e consistite nell’inoltro di sms dal contenuto ingiurioso e minaccioso, nella creazione di un profilo Facebook altamente offensivo nei riguardi della persona offesa e in ripetuti appostamenti e pedinamenti, escludendo che la protrazione delle condotte possa essere riconducibile a un moto rabbia dovuto alla rivelazione della relazione extraconiugale e dando compiuta motivazione delle ragioni per cui tali condotte non erano ascrivibili ad una mera percezione soggettiva della vittima.

Per quanto riguarda, infine, la configurabilità del reato in esame laddove la condotta persecutoria sia realizzata attraverso Facebook, la Corte osserva che la giurisprudenza ammette che messaggi o filmati postati sui social network integrino l’elemento oggettivo del delitto di atti persecutori, in relazione al fatto che  l’attitudine dannosa di tali condotte non è tanto quella di costringere la vittima a subire offese o minacce per via telematica, quanto quella di diffondere fra gli utenti della rete dati, veri o falsi, fortemente dannosi e fonte di inquietudine per la parte offesa. Infatti, nel caso di specie, a nulla rileva la circostanza che la donna poteva ignorare le foto, i video e i commenti semplicemente non accedendo al profilo Facebook, in quanto l’attitudine dannosa è riconducibile alla pubblicizzazione di contenuti, posto peraltro che l’apertura della pagina sul social network rappresenta solo una delle modalità con le quali si è estrinsecata la condotta persecutoria dell’uomo che, in più ha posto in essere un serie di condotte – invio sms e pubblicazione di vari post denigratori a carico della parte offesa – si da provocare  stato d’ansia e mutamento delle abitudini di vita della vittima, tali da integrare il reato contestato.

@Produzione Riservata

Studio Legale Gelsomina Cimino

www.studiolegalecimino.eu

 

LA CASSAZIONE DICE NO AI TELEFONINI IN CABINA ELETTORALE

http://studiolegalecimino.eu/nessun-telefonino-cabina-elettorale/

 

LA CASSAZIONE DICE NO AI TELEFONINI IN CABINA ELETTORALE

NESSUN SMARTPHONE IN CABINA 

Con la Sentenza n. 9400/2018 la Corte di Cassazione ha chiarito la fattispecie punitiva prevista dall’art.1 del D.L. n. 96/2008, il quale stabilisce che durante le consultazioni elettorali o referendarie è vietato introdurre all’interno delle cabine elettorali telefoni cellulari o altre apparecchiature in grado di fotografare o registrare immagini; punendo con l’arresto da tre a sei mesi e con l’ammenda da 300 a 1.000 chi contravviene a tale disposizione.

Nel caso affrontato dalla Corte Suprema, il ricorrente aveva impugnato la sentenza della Corte d’Appello di Firenze, la quale, pur confermando il giudizio di colpevolezza in relazione alla fattispecie imputata, in parziale riforma della sentenza di primo grado, condannava l’imputato alla pena pecuniaria di euro 15.000 in luogo della pena detentiva.

A sostegno del ricorso, la difesa del ricorrente obiettava che per la concreta applicazione della fattispecie incriminatrice, difettava nel caso de quo, la ritenuta condizione di procedibilità di cui al secondo comma della norma citata.

In particolare, il ricorrente assumeva vizio di violazione di legge laddove non era stato valutato che nel caso de quo difettava l’invito del presidente di seggio a non introdurre nella cabina il mezzo di riproduzione visiva.

L’interpretazione offerta non ha tuttavia persuaso i Giudici di Legittimità che, al contrario, hanno confermato, richiamando il dato letterale della norma, che la condotta costituente reato è esclusivamente quella descritta nel comma primo (Nelle consultazioni elettorali o referendarie è vietato introdurre all’interno delle cabine elettorali telefoni cellulari o altre apparecchiature in grado di fotografare o registrare immagini. 2. Il presidente dell’ufficio elettorale di sezione, all’atto della presentazione del documento di identificazione e della tessera elettorale da parte dell’elettore, invita l’elettore stessa depositare le apparecchiature indicate al  comma 1) e che il secondo e terzo comma, lungi da poter essere considerati condizione di procedibilità o punibilità del reato dettano solo oneri per il presidente di seggio, la cui inosservanza è priva  di conseguenze penali.

Tanto è vero che il quarto comma della citata norma, nel dettare la sanzione penale in caso di inosservanza, fa esclusivo riferimento alla condotta descritta al primo comma, e non già agli adempimenti posti a carico del presidente, dacchè è stata confermata la correttezza della decisione impugnata.

Produzione Riservata

Studio Legale Gelsomina Cimino

Nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge

L’aumento in bolletta voluto dall’Autorità per l’Energia  è illegittimo

Nessun potere impositivo dunque in capo all’Autorità la cui Deliberazione N°50 del 1 febbraio 2018 deve considerarsi contraria alle norme di rango costituzionale, quali il principio di legalità di cui all’art. 23 Costituzione

Con le Sentenze n. 5619 e 5620 pubblicate entrambe il 30.11.2017, il Consiglio di Stato interviene sulla questione – già lungamente dibattuta presso il TAR Lombardia che aveva affrontato la questione con diverse pronunce emesse tra il 2015 e il 2016 – relativa alla legittimità di diverse deliberazioni dell’Autorità per l’Energia Elettrica il Gas ed il Sistema Idrico (d’ora in poi A.E.E.G.S.I.), con particolare riferimento al “codice di rete tipo per il servizio di trasporto dell’energia elettrica”, nella parte in cui “introduce una nuova disciplina in materia di garanzie per l’accesso al servizio di trasporto, di fatturazione del servizio e dei relativi pagamenti” e “dispone che gli utenti del servizio di trasporto e vendita dell’energia (c.d. “traders”) debbono prestare garanzie alle imprese distributrici di energia elettrica.
La questione concerneva i corrispettivi degli oneri generali del sistema elettrico e alla possibilità che A.E.E.G.S.I. possa imporre ai traders obblighi di garanzia a favore dei soggetti distributori in caso di inadempimento delle obbligazioni gravanti ex lege sui clienti, utenti finali del servizio.
Per una migliore comprensione del thema decidendum, va premesso che “oneri generali di sistema” sono i costi relativi agli incentivi per le fonti rinnovabili e i costi da destinare a finalità sociali, di tutela ambientale e di uso efficiente delle risorse. Sono fissati per legge e, ai sensi dell’art. 39, co. 3, del D.L. 83/2012 vengono fatturati dal Distributore verso il venditore che dovrà riversarli alla Cassa per i Servizi Energetici e Ambientali (CSEA), oltre che alla società Gestore dei servizi Energetici.
Conseguentemente tali oneri generali di sistema si ritrovano inclusi nella bolletta elettrica e vengono parametrati al costo effettivo dell’energia e del servizio reso in favore del consumatore finale: gli interventi di A.E.E.G.S.I. sono stati nel senso di prevedere, a carico dei traders (il soggetto che porta l’energia nelle singole case) e laddove il cliente finale fosse rimasto inadempiente, di fornire garanzie idonee in favore del distributore affinchè quest’ultimo non avesse a risentire della morosità accumulata dai clienti finali.
Calcolando che il debito attuale in circa 1 miliardo di euro (ma la cifra è solo approssimativa),
l’ A.E.E.G.S.I. dopo essersi vista annullare in sede giurisdizionale, le precedenti deliberazioni che volevano tale debito a carico dei Traders, ha adottato una Deliberazione a dir poco sconcertante e certo tale da pesare sulle tasche dei cittadini, per cui tutta la morosità accumulata dal 1° gennaio 2016 sarà posta a carico dei cittadini in regola con i pagamenti!
A fondamento della Delibera (la n. 50 del 1° Febbraio 2018) l’Autorità ha posto l’esigenza di far fronte all’inadempimento dei venditori verso i distributori che tuttavia, hanno provveduto al pagamento verso la Cassa dei Servizi energetici Ambientali di quegli oneri di gestione che, tuttavia, stando alle pronunce della giustizia amministrativa, devono restare a carico degli Utenti Finali.

“Un gioco di parole per salvaguardare i Potenti a spese dei cittadini onesti e rispettosi degli impegni assunti”

Cerchiamo di fare ordine:
il risultato finale di oltre dieci procedimenti aperti presso il TAR Lombardia e culminati presso il Consiglio di Stato, è stato nel senso di precisare che i poteri attribuiti all’Autorità, sono quelli previsti dall’art. 2, co. 12, lett. e) della Legge n. 481/1995stabilisce e aggiorna… le tariffe di base, i parametri e gli altri elementi di riferimento per determinare le tariffe, di cui ai commi 17, 18 e 19, nonché le modalità per il recupero dei costi eventualmente sostenuti nell’interesse generale in modo da assicurare…la realizzazione degli obiettivi generali di carattere sociale, di tutela ambientale e di uso efficiente delle risorse di cui al comma 1 dell’articolo 1″e, soprattutto, ha escluso che l’Autorità, in forza della disposizione richiamata, possa ritenersi autorizzata ad intervenire a gamba tesa sui rapporti contrattuali tra distributore e venditore o tra questi e il cliente finale.
La sentenza del Consiglio di Stato – che pure, nella deliberazione n. 50/18, è stata assurta dall’Autorità, come presupposto fattuale da cui far discendere la “nuova” imposizione a carico dei cittadini – richiamando l’art. 3, comma 10 e 11 del Decreto Legislativo n. 79/99, ha piuttosto ribadito che l’Autorità ha SOLO il potere di individuare gli oneri generali di sistema, con “conseguente adeguamento del corrispettivo” relativo all’accesso e all’uso della rete di trasmissione.
Nessun potere impositivo dunque in capo all’Autorità la cui Deliberazione deve considerarsi contraria alle norme di rango costituzionale, quali il principio di legalità di cui all’art. 23 Costituzione (“Nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge.”) e norme di estrazione comunitaria che impongono il rispetto dei principi di economicità e ragionevolezza, da considerarsi come principi immanenti alla materia della produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia.
In definitiva, la conclusione cui è pervenuto il Consiglio di Stato, si ribadisce, di segno contrario alle affermazioni contenute nell’ultima Deliberazione di A.E.E.G.S.I., è nel senso di escludere alcun potere impositivo a carico dell’Autorità o di un terzo che non sia espressamente prevista dalla legge (e che si possa essere obbligati a pagare debiti altrui non è previsto da alcuna legge né nazionale né sovranazionale!); e soprattutto, nel dare atto che l’attuale compendio normativo evidenzia il “difetto di una previsione legislativa circa il soggetto che subisce le conseguenze dell’inadempimento dei clienti finali”.
Un vuoto normativo dunque, che impone un intervento del legislatore e non certo un colpo di coda ad opera di un’Autorità Amministrativa Indipendente a tutela dei poteri forti e – come sempre – a discapito dell’anello più debole della filiera.
Procedendo di questo passo, dopo il canone RAI, dopo gli oneri dell’energia, ci si dovrà forse aspettare che il cittadino onesto debba sostenere anche tutti i debiti per tasse non pagate da altri; per canoni di locazione delle case popolari; per sanzioni amministrative e chissà che altro ancora!?
È evidente che ammettere, legittimandolo, un sistema impositivo siffatto, significherebbe stravolgere, anzi, abbattere il sistema di garanzie sotteso alla Carta Costituzionale e alle norme di rango sovranazionale che vogliono il Cittadino al centro del sistema di tutele e guarentigie a difesa della personalità umana.

“Il buon cittadino è quello che non può tollerare nella sua patria un potere che pretende d’essere superiore alle leggi”

Studio Legale Gelsomina Cimino

http://studiolegalecimino.eu/laumento-bolletta-voluto-dallautorita-illegittimo/

 

il ristoratore che non indica la presenza di alimenti surgelati sul menù commette il reato di frode

Il ristoratore che non indica la presenza di alimenti surgelati sul menù commette il reato di frode

Con la Sentenza n. 4735/2018 la Corte di Cassazione in materia penale è intervenuta a chiarire cosa effettivamente rischia un ristoratore che ometta di indicare che le pietanze proposte con il menu contengano ingredienti surgelati e non freschi, intervenendo nel giudizio contro un soggetto condannato in primo grado e confermato in appello per il reato di cui all’art. 515 c.p. “frode nell’esercizio del commercio” perché, in qualità di legale rappresentante di una società proprietaria di un ristorante deteneva per la vendita, esclusivamente pesce congelato e compiva atti idonei alla somministrazione agli avventori dell’esercizio commerciale di ristorazione prodotti ittici surgelati in luogo di quelli freschi indicati nel menù”.

Contro le statuizioni della Corte d’Appello di Bologna, l’imputato proponeva ricorso in Cassazione dolendosi, in particolare, della circostanza secondo la quale la Corte avrebbe erroneamente ritenuto sussistente l’ipotesi di reato di tentativo di frode in commercio dalla mera esposizione di immagini ritraenti pietanze dalla quali non si potrebbe dedurre, in assenza di apposita lista, se i prodotti fossero freschi o surgelati, né ricavarne l’indicazione della natura dei prodotti impiegati nella sua preparazione. In sostanza, argomenta il ricorrente, l’immagine pubblicitaria delle pietanze aveva solo valenza “dimostrativa della presentazione del piatto” mentre “è solo con l’inserimento nella lista data agli avventori o posizionata sul tavolo che si manifesta l’intenzione del ristoratore ad offrire quei prodotti”, da cui deriverebbe l’insussistenza del reato contestato.

Secondo la Suprema Corte, tuttavia, il ricorso è manifestamente infondato oltre che inammissibile. Secondo l’indirizzo ormai consolidato della giurisprudenza di legittimità, “il tentativo del reato di cui all’art. 515 c.p. è configurato e si verifica quando l’alienante compie atti idonei diretti in modo non equivoco a consegnare all’acquirente una cosa per un’altra ovvero una cosa, per origine, qualità o quantità diversa da quella pattuita o dichiarata”. Di conseguenza, “costituisce il tentativo del delitto di frode in commercio anche il semplice fatto di non indicare nella lista delle vivande che determinati prodotti sono congelati, giacché il ristoratore ha l’obbligo di dichiarare la qualità della merce offerta ai consumatori“.

Ed invero, già con la Sent. n. 28/2000 le Sezioni Unite avevano superato il contrasto interpretativo presente in giurisprudenza sulla configurabilità del tentativo di frode in commercio, per cui secondo indirizzo ormai consolidato, “se il prodotto viene esposto sui banchi dell’esercizio o comunque offerto al pubblico, la condotta posta in essere dall’esercente l’attività commerciale è idonea ad integrare il tentativo perché dimostra l’intenzione di vendere proprio quel prodotto“.

Inoltre, il menu, o la lista delle vivande, “consegnata agli avventori o sistemata sui tavoli di un ristorante equivale ad una proposta contrattuale nei confronti dei potenziali clienti e manifesta l’intenzione del ristoratore di offrire i prodotti indicati nella lista, dunque, anche la mera disponibilità di alimenti surgelati, non indicati come tali nel menu, nella cucina di un ristorante, configura il tentativo di frode in commercio, indipendentemente dall’inizio di una concreta contrattazione con il singolo avventore“.

In sostanza, conclude la Suprema Corte, i giudici del merito hanno congruamente motivato la responsabilità penale del ricorrente, atteso peraltro che all’interno dell’esercizio commerciale erano presenti esclusivamente provviste congelate. Infine, quanto alle modalità di rappresentazione dell’offerta dei prodotti,”anche l’esposizione di immagini del prodotto offerto, in luogo della sua descrizione nel menù, è idonea a configurare la condotta della fattispecie criminosa, stante la natura diretta a incentivare la consumazione del prodotto“.

@Produzione Riservata

Studio Legale Gelsomina Cimino

http://www.studiolegalecimino.eu

 

 

USURA SOS BANCA “UN MONDO ANCORA SOMMERSO E OSCURO”

 

USURA SOS BANCA L’Usura strozza la nostra vita e quella di chi ci sta accanto!

Qualora si riscontrassero illeciti o irregolarità da parte della Banca o Società Finanziarie, non esitare a far elaborare una rigorosa e dettagliata perizia tecnica per quantificare quanto illegittimamente addebitato per usura, anatocismo, interesse, denunciando poi, sia gli aspetti tecnici che legali della contestazione per riottenere anche le somme indebitamente corrisposte.

Lo Studio Legale Cimino fornisce adeguata consulenza ed assistenza legale in materia di usura, anatocismo e contenziosi bancari in genere, per privati ed imprese, sia in ambito stragiudiziale che giudiziale, offrendo un parere preliminare volto ad accertare la presenza di elementi di contestazione che possano dar luogo ad azioni legali.

“L’usura è un mostro purtroppo ancora sommerso che, come un serpente, strangola le sue vittime(Sua Santità Papa Francesco) e i numeri del fenomeno sono impressionanti.

La crisi economica ha trascinato commercianti, impiegati e pensionati nella rete degli strozzini, dal fenomeno non sono immuni neanche le nostre imprese che sono le prede preferite.

La piaga sociale dell’usura persegue un vantaggio economico illecito utilizzando come strumento il prestito di denaro.

La preoccupante condizione economica delle famiglie e aziende italiane è alla base dell’incremento del fenomeno che, oltre a rappresentare un dramma per le vittime, rappresenta anche una grave minaccia per la nostra economia nazionale.

L’usura insomma non riguarda più la singola vittima, ma produce conseguenze negative nel tessuto sociale e nel comparto produttivo e industriale del nostro Paese.

È inaccettabile che il sistema bancario che non “fallisca mai” potendo contare su finanziamenti illimitati al costo dell’1% a spese dei cittadini e che non paghi mai per i turpi “errori finanziari” commessi, disponendo inoltre di privilegi normativi quali le discrezionali segnalazioni alle centrali dei rischi e le unilaterali dichiarazioni di verità e certezza dei propri crediti, che le pongono in posizione di supremazia rispetto a tutti i consumatori, stringendo nella morsa sempre più chi ha bisogno di aiuto.

Oggi conoscere il fenomeno dell’Usura è assai importante per combatterlo e soprattutto per prevenirlo.

Il modo più efficace per combattere l’usura è la prevenzione.

Non esitare a rivolgerti allo Studio Legale Cimino per una consulenza gratuita e per un parere:

l’arma vincente per riequilibrare il rapporto con la propria Banca e per uscire dalla morsa che ti consuma nel silenzio e col silenzio.

www.studiolegalecimino.eu