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Messaggi di Luglio 2017

Addio badge: arriva microchip sotto pelle per timbrare il cartellino

Post n°4045 pubblicato il 31 Luglio 2017 da ninograg1
 

25 luglio 2017, di Mariangela Tessa WSI

 

Presto non ci sarà più bisogno di timbrare il cartellino. Basterà infatti un microchip inserito sotto la pelle, per accedere alla propria sede di lavoro. Negli Stati Uniti, l’esperimento partirà il primo agosto. Da allora infatti, un’azienda del Wisconsin (River Falls), la Three Square Market (32square.com), inizierà la prova: finora più di 50 degli 85 dipendenti hanno accettato la novità.

Grazie al microchip, dalle dimensioni di un chicco di riso, impiantato tra indice e pollice, i cyber-dipendentipotranno anche pagarsi bibite e snack al distributore interno.

“I microchip sono il futuro nel campo dei pagamenti, e noi vogliamo essere parte di questo fenomeno”, spiega Todd Westby, il ceo della startup che fornisce macchinette e software per la pausa pranzo agli uffici e negozi, specificando che “Il tutto senza senza rischiare nulla dal punto di vista della privacy, perché il chip non ha Gps integrato”.

Chi ci ripensa, potrà comunque farne a meno in pochi secondi, perché il microchip si può rimuovere come una scheggia.

Rifornitore dei microchip è la BioHax, azienda svedese specializzata in sensori biometrici, che mette a disposizione dispositivi da 300 dollari l’uno abilitati anche per il “near-field communications” (Nfc) così da funzionare come una carta di credito ”contactless”. In Svezia, questa tecnologià è stata già adottata dalla startup Epicenter.

 

:::::::::::::::::::::::::::::::::::::::

fin qui una news come tante: ma.... a mio parere è l'ennesimo tassello con cui ci stiamo da soli mettendo il cappio al collo. L'ultimo lembo di libertà ci sta per essere tolto i nome della praticità, del lavoro, ecc. dovremmo essere contenti perchè spariranno: carte di credito, carte sanitarie, carte d'identità e tutto quel che fino a ora ha fatto parte del nostro quotidiano; in loro vece avremo tutti un microchip sottocutaneo che conterrà, non solo, il vecchio badge con cui entrare al lavoro ma tutto il resto di cui sopra e tanto altro ancora... e visto che sono privati i produttori ci potrete scommettere che privati saranno anche i controllori: o meglio pubblico sarà l'ente appaltante e il controllo ma chi li gestirà direttamente.. saranno privati con tutto quel che significa una cosa del genere: a partire dalla conoscenza diretta dei nostri acquisti e comportamenti consumistici per finire a i nostri movimenti, desideri, malattie, e quant'altro e tutto in un .... microchip. Ne avevo parlato in due post di questo blog e un link a wikipedia, il terzo:

  1. RFID: l'ultima frontiera ... del consumo;
  2. RFID: non è fantascienza..;
  3. Microchip;
  4. Repubblica;

..... quindi in tempi NON sospetti e ricordo anche che atrove qualcuno derideva e qualcun'altro battezzava la cosa come complottismo e invece.... il futuro è qui!

 
 
 

Evasione fiscale, per Bruxelles la trasparenza sulle tasse pagate dalle multinazionali deve restare un optional

Post n°4044 pubblicato il 30 Luglio 2017 da ninograg1
 

di | 29 luglio 2017   Il Fatto Quotidiano

Trasparenza? Sì, ma col buco. Non c’è Lux Leaks che tenga. E poco importa se l’evasione delle multinazionali sottrae ai paesi Ue tra i 50 e i 70 miliardi di euro l’anno di mancate entrate fiscali. Per i cittadini europei avere informazioni chiare e complete su quante tasse pagano i grandi gruppi attivi sul loro territorio resterà un miraggio. La bozza di direttiva sulla “divulgazione di dati fiscali da parte di alcune imprese”, votata il 4 luglio dal Parlamento europeo, prevede infatti così tante scappatoie che, se passerà senza modifiche, meno del 10% delle grandi corporation dovrà pubblicare sul proprio sito una scheda con numero di dipendenti, ricavi, profitti e imposte versate in ogni Stato Ue in cui opera. Nel frattempo anche le iniziative per contrastare concretamente l’evasione fiscale, a livello europeo, languono. Le principali novità in materia derivano non da mosse di Bruxelles, ma da impulsi dell’organizzazione parigina Ocse, il “club” dei 35 Paesi da cui deriva l’80% del pil mondiale.

La scappatoia che annulla la trasparenza “per proteggere dati sensibili” – La pubblicazione su internet dei principali dati societari e fiscali divisi per Paese di attività era considerata dalla Global alliance for tax justice un passo importante. In questo modo, era il ragionamento del movimento internazionale che chiede una più equa distribuzione della ricchezza globale, l’opinione pubblica avrebbe gli strumenti per capire se le multinazionali godono di trattamenti di favore o sfruttano schemi societari ad hoc per spostare i proventi nei Paesi fiscalmente più convenienti. Sottraendo risorse che potrebbero essere usate per servizi pubblici e infrastrutture. Ma l’europarlamento, chiamato a emendare la proposta presentata dalla Commissione nell’aprile 2016 per poi avviare i negoziati con il Consiglio europeo, ha dato un colpo al cerchio e uno alla botte. Con una mano, su richiesta del gruppo S&D, ha rafforzato il testo della Commissione imponendo la pubblicazione dei dati disaggregati per ogni Paese (“country by country reporting”) invece che per le sole giurisdizioni europee e per i paradisi fiscali. Con l’altra, su spinta dei gruppi conservatori e dell’Alde, ha inserito un articolo che consente agli Stati membri di autorizzare i grandi gruppi a omettere “uno o più elementi di informazione” per “proteggere dati sensibili dal punto di vista commerciale e assicurare una concorrenza leale”.

Una clausola di salvaguardia che per il gruppo dei Socialisti e democratici “permetterà alle multinazionali di non pubblicare dati ritenuti sensibili per un periodo illimitato”. Transparency international Eu ha sottolineato dal canto suo che il testo “cerca di tenere insieme tutto”: da un lato “esibisce un forte supporto riguardo alla trasparenza sugli accordi fiscali delle multinazionali”, dall’altro “lascia loro la possibilità di avvolgere i loro affari in una cortina di segretezza”. Per Oxfam, la cui petizione contro i paradisi fiscali ha raccolto finora oltre 350mila firme, quella clausola rischia di minare l’efficacia del provvedimento nel contenere gli abusi.

Obbligo di pubblicazione dei dati solo se i ricavi superano i 750 milioni – C’è da dire comunque che anche la proposta iniziale dell’esecutivo Ue faceva acqua. la pubblicazione dei dati societari è stata (e rimane, dopo il passaggio in Parlamento) prevista solo per le multinazionali con almeno 750 milioni di fatturato annuo. Secondo lo European Economic and Social Committee, organo consultivo dell’Unione che ha tra l’altro il compito di fornire pareri a Parlamento, Consiglio e Commissione, fissare questa soglia equivale ad escludere l’85-90% delle aziende attive in più di un Paese. Perché non tutte le multinazionali hanno la stazza dei big statunitensi: l’Italia, per esempio, conta decine di medie aziende della meccanica, dell’alimentare e dell’abbigliamento con sedi in più di un Paese ma fatturati inferiori a quella soglia. “Applicare la misura proposta soltanto ad un simbolico 15% di questa categoria di imprese vorrebbe dire perdere di vista le preoccupazioni di quasi ogni cittadino europeo”, aveva avvertito lo scorso anno Victor Alistar, relatore del parere del comitato. Preoccupazione identica a quella espressa dallo European Network on Debt and Development, un gruppo di ong che si battono per un sistema finanziario più equo. Ma l’asticella è rimasta invariata.

Le promesse di Dijsselbloem e Moscovici dopo il caso Apple – La commissione si era mossa dopo che la responsabile della concorrenza Margrethe Vestager, al termine di due anni di indagini, aveva dichiarato “non conformi alle regole europee” i trattamenti fiscali di favore concessi rispettivamente da Lussemburgo e Paesi Bassi a Fiat finance and trade Starbucks, chiedendo ai due gruppi di restituire almeno 40 milioni. In agosto poi Apple sarebbe stata chiamata a sborsare 13 miliardi: l’equivalente delle tasse non pagate grazie a vantaggi non dovuti concessi dall’Irlanda. Dove, secondo la Commissione, il gruppo della Mela spostava i profitti realizzati nel resto dell’Unione per approfittare dell’aliquota ultraconveniente (meno dell’1%) concordata con Dublino. “Il mio messaggio alle multinazionali è: state combattendo la battaglia sbagliata. E’ tempo di voltare di pagina, i tempi stanno cambiando”, aveva tuonato poche settimane dopo il presidente dell’Eurogruppo Jeroen Dijsselbloem. “Dovete pagare le tasse in modo corretto, parte negli Usa e parte nell’Ue. Preparatevi a farlo”. “In Europa c’è un profondo squilibrio tra il carico fiscale di multinazionali e piccole e medie imprese, con queste ultime che pagano il 30% di tasse in più, una situazione inaccettabile”, aveva attaccato per parte sua il commissario per gli Affari economici Pierre Moscovici. Il momento, insomma, sembrava propizio per imporre una “glasnost” ad ampio raggio. Sembrava. Ma, tra soglia di fatturato troppo elevata e clausola di salvaguardia, la trasparenza di fatto sarà molto limitata. Intanto, mentre non solo Apple ma anche il governo di Dublino hanno fatto appello contro la decisione della Vestager, pure le iniziative europee per contrastare concretamente l’evasione languono.

Arenata la lista dei paradisi fiscali. Base imponibile consolidata in discussione dal 2011 – La lista comune delle “giurisdizioni non cooperative“, vale a dire i potenziali paradisi fiscali, avrebbe dovuto essere completata entro la fine del 2016: invece il progetto si è arenato alla selezione dei criteri, delle linee guida e delle “misure difensive” da adottare. Quanto alla proposta di definire una base imponibile consolidata comune a livello europeo per l’imposta sulle società, parte di un più ampio “piano d’azione sulla tassazione delle corporation”, se ne parla dal 2011 ma l’opinione della commissione giuridica del Parlamento europeo arriverà solo il prossimo dicembre. E si attende ancora il pronunciamento dello European economic and social committee. Eppure unificare la base imponibile significherebbe sbarrare la strada allo shopping fiscale delle multinazionali (la pratica di spostare gli utili nei Paesi più compiacenti dal punto di vista della tassazione) e impedire agli Stati di concedere alle aziende aliquote agevolate con accordi come quelli (più di 500) siglati dal Lussemburgo quando il presidente della Commissione Ue Jean Claude Juncker ne era primo ministro e finiti al centro dello scandalo dei LuxLeaks. Ne hanno beneficiato 340 multinazionali, dalla holding di Ikea a FedEx, da eBay a Telecom, passando per Fininvest e Intesa Sanpaolo.

I passi avanti nella lotta all’evasione? Merito dell’Ocse – Allargando lo sguardo, salta all’occhio che le principali novità in materia di lotta all’evasione sono scaturite non da mosse di Bruxelles, ma da impulsi dell’organizzazione parigina Ocse. Che ha promosso per esempio gli accordi sullo scambio automatico di informazioni fiscali firmati ormai da 100 Paesi. Compreso Panama, lo Stato dell’America centrale dove ha sede lo studio legale Mossack Fonseca che, come rivelato dall’inchiesta giornalistica internazionale nota come Panama Papers, gestiva i soldi di migliaia di personaggi noti creando società e conti offshore. Il sistema di condivisione automatica (Crs) è in vigore da quest’anno e entro il 21 agosto è prevista la prima comunicazione degli intermediari italiani, che dovranno inviare alle Entrate i dati su conti correnti, depositi, titoli e altre attività detenuti da persone residenti all’estero. Nel 2014, poi, l’Ocse ha messo a punto un articolato pacchetto di linee guida contro erosione fiscalespostamento dei profitti in Paesi a bassa tassazione (Beps). Fenomeni che stando alle sue stime sottraggono ai Paesi del G20 fino a 240 miliardi l’anno. Più di 70 Stati hanno sottoscritto, su quella base, un accordo multilaterale che prevede diverse azioni concrete: dal divieto all’uso di società veicolo con finalità elusive all’obbligo per le multinazionali di fornire un rapporto delle loro attività Paese per Paese. Proprio il tema della proposta di direttiva votata dall’Europarlamento. Se non fosse per quella scappatoia che la svuota di efficacia.

di | 29 luglio 2017

 
 
 

legge sui vitalizi: sentenza ‘suicida’

Post n°4043 pubblicato il 28 Luglio 2017 da ninograg1
 

Si alla fine l'hanno approvata, anche i 5 stelle (i quali hanno dimostrato di essersi perfettamente integrati nel 'sistema'), l'abolizione dei vitalizi... in realtà tutti sanno (proprio tutti) che questa legge avrà vita breve e servirà solo a far dire a tutti: avete visto? Noi l'abbiamo approvata ma i giudici la cancellano!!!

Infatti ritengo abbia ragione sul Fatto Quotidiano online di oggi quando afferma:  "qualora un provvedimento giudiziario sia affetto da incompatibilità o gravi contraddizioni tra dispositivo e motivazioni, allora si evince una volontà dei redattori di mandare quel provvedimento incontro a una fine certa. Si tratta di una prassi che è stata persino oggetto di un tentativo di regolamentazione, ovvero si è tentato di rendere questo atteggiamento un ‘illecito disciplinare’ da sanzionare, posto che l’unica sanzione a cui va incontro una sentenza suicida è quella processuale stessa. Pare che questo escamotage abbia un’origine nobile: durante il fascismo, le corti d’appello condannavano seguendo desiderata politici, ma poi motivavano in modo da predisporre la sentenza a una bocciatura da parte della Cassazione."

E questa si chiama malafede. Milioni cittadini che sono appena sopra, al limite e sotto il livello di povertà vengono per l'ennesima volta persi in giro se non raggirati dal ceto politico.

 
 
 

una cosa da NON fare...

Post n°4042 pubblicato il 27 Luglio 2017 da ninograg1
 

I redditi decrescono? Il FMI ha la, solita, ricetta già bell'è pronta: annullare la contrattazione nazionale, che equipara per l'intero stivale lo stpendio tabellare, a quella aziendale. Perchè non va bene? Perchè rende ricattabili i lavoratori delle aziende più piccole e, probabilmente, meno sindacalizzate e tutela, solo, quelle grandi e meglio organizzate o che hanno maestranze particolarmente importanti in settori strategici... quel che propone il FMI altro non è che una riedizione delle disgraziatissime 'gabbie salariali' dei brutti tempi che furono e che furono abolite solo dopo l'approvazione dello Statuto dei lavoratori e delle lotte operaie! Eppure il suggerimento del FMI, ne parla l'edizione online del Fatto Quotidiano, è ben presentato: le politiche di austherity del governo; la scarsa concorrenza; la mancanza di competitività; ecc. ecc. tutto vero, ma ... c'è sempre un ma pechè è quel che non dice la vera ragione: se si aboliscono i contratti nazionali una parte del paese sarà uguale alle free tax zone del Messico e un altra sarà come alcune zone della Germania: una manna per le imprese e un disastro per i lavoratori di queste, per ora potenziali, zone che perderanno anche un minimo di difesa contro lo strapotere aziendale....

Proposte alternative? Diverse e tutte valide. Una me ne viene in mente: eliminare alcune delle 97 leggi dello Stato che gravano sugli stipendi.. solo alcune e già il ptere d'acquisto aumenterebbe..

 
 
 

A Porto e Lisbona, in Romania e Costarica un miliardo l’anno per i pensionati all’estero (Valentina Conte)

Post n°4041 pubblicato il 26 Luglio 2017 da ninograg1
 

Il caso.Sono 373 mila gli italiani emigrati, per necessità o per pagare meno tasse L’Inps manda loro assegni molto più generosi dei contributi che hanno versato.
ROMA – I pensionati italiani all’estero? Sono 373 mila e incassano quasi un miliardo all’anno dall’Inps, sottraendo – seppur legittimamente – imposte e consumi alla madrepatria. Per fare un paragone, parliamo di una città grande quasi come Firenze. Sparsa per i continenti, ma per metà in Europa. Dove gettonatissimo è ancora il Portogallo, il paradiso fiscale delle pantere grigie: dieci anni a tasse zero, in cambio della residenza non abituale. E dunque, a patto di vivere almeno 183 giorni all’anno in loco, tra le meraviglie di Porto e Lisbona e con un costo della vita assai abbordabile, i pensionati italiani si ritrovano un assegno che lievita anche di un terzo. Altrettanto ambite, sebbene fiscalmente meno generosi, Bulgaria, Romania, le isole Canarie. E l’America Latina, con un rinnovato interesse per il Costarica.

 

Non di soli scaltri nonnetti si tratta, però. Lo zoccolo duro di chi risiede all’estero e lì percepisce la pensione è fatto da emigranti che “totalizzano”, cioè sommano da un punto di vista previdenziale, i periodi di lavoro in patria e fuori. Tutto fattibile, secondo le regole e gli accordi bilaterali. Se non fosse – a detta del presidente Inps Tito Boeri che ieri ha presentato una relazione in Parlamento – per quello «iato», la differenza «tra entità e durata dei contributi versati e possibilità di accedere alle prestazioni». Laddove le seconde sono «molto al di là» dei primi. Nel mirino di Boeri finiscono le prestazioni «assistenziali », che a differenza di quelle previdenziali (la pensione calcolata in base agli anni di lavoro) vengono erogate in presenza di contributi molto bassi o addirittura inesistenti.
Così si scopre, grazie ai nuovi dati Inps, che l’83% delle pensioni pagate all’estero corrisponde a una contribuzione inferiore ai dieci anni, il 70% sotto i sei anni e più di un terzo meno di tre. Assegni dunque estremamente bassi. Alcuni davvero micro, dieci o venti euro al mese, incassati una volta l’anno in gennaio (per questo il dato Inps dello scorso giugno rileva quasi 356 mila pensioni estere, mentre quello complessivo 2016 è pari a 373 mila). Ma il punto dolente, secondo Boeri, sta altrove. Ovvero nelle erogazioni “non contributive”. Come integrazioni al minimo, maggiorazioni sociali e quattordicesime.
Le prime due – che scattano per rimpolpare assegni risicati, 80 milioni di euro spesi nel 2016 per quasi 38 mila pensionati “esteri” – non solo non sono coperte dai contributi versati, ma rappresentano «un’uscita per lo Stato che non rientra nel circuito economico del Paese sotto forma di consumi». O di tasse. Altro discorso per la quattordicesima mensilità che spetta a tutti gli over 64 con un reddito fino a 13 mila euro, alzato dal governo Renzi. In questo caso, anche per via delle nuove norme, la spesa estera è più che raddoppiata: da 15,4 milioni a 35,6 milioni di euro (+131%). E così i beneficiari: da 46 mila a quasi 89 mila (+93%). Il 40% dei percettori risiede in Europa, quasi il 50% nel continente americano. Posti, secondo Boeri, «in cui esistono già redditi minimi garantiti». Questo significa «che il nostro Paese sta riducendo gli oneri per spesa assistenziale di altri Paesi».
Articolo intero su La Repubblica del 20/07/2017.

 
 
 

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