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Messaggi di Gennaio 2018

Cuneo, gli industriali esortano i giovani a non studiare

Post n°4159 pubblicato il 31 Gennaio 2018 da ninograg1
 

Fonte: Il Fatto Quotidiano Società | 31 gennaio 2018  Filosofo

Cuneo, gli industriali ai giovani: «Se volete lavorare non studiate troppo». Parole chiare, dirette, senza troppe perifrasi. Parole nelle quali si condensa, in fondo, l’eterno problema del rapporto tra potere e sapere. Il messaggio è forte e chiaro: se siete colti, formati e pensanti siete un problema, cari giovani. È proprio così. Nulla è più fastidioso e insopportabile, per chi comanda, di un sottoposto che sappia pensare con la sua testa e, dunque, valutare da sé, con occhio vigile e mente libera, senza accettare in silenzio e con irriflessa passività il comando ricevuto. Lo sappiamo, nihil novi.

Da sempre il potere odia il sapere: mira a contenerlo, a limitarlo, ad amministrarlo, di modo che esso possa essergli funzionale e, comunque, mai si attivi per metterne in discussione l’assetto. Il potere odia il sapere e, in ogni caso, preferisce l’ignoranza. Che è troppo spesso sinonimo di passività e disponibilità a obbedire cadavericamente, senza battere ciglio. Ora tutti si fingono increduli per la frase, certo un po’ brusca, ma se non altro schietta e diretta, degli industriali di Cuneo. E magari a fingersi increduli sono gli stessi che da anni, a colpi di “buona scuola” et similia, hanno attivamente operato per condurci nel baratro della società analfabetizzata e a ignoranza sempre più diffusa. Dove quel che conta – vi dice qualcosa la “alternanza scuola-lavoro”? – non è lo studio, ma il lavoro immediato e quelli che il sommo poeta chiamava “i sùbiti guadagni”.

Insomma, giovani. Sappiatelo: se studiate, siete pericolosi per il potere. E dunque, a maggior ragione: studiate con zelo e vera passione, non v’è nulla di più rivoluzionario!

Società | 31 gennaio 2018

 

 
 
 

‘Le elezioni uccidono l’italiano’, ma per i media i colpevoli sono solo i 5stelle

Post n°4158 pubblicato il 30 Gennaio 2018 da ninograg1
 

Fonte: Il Fatto Quotidiano Media & Regime | 30 gennaio 2018

Questa mattina sull’aereo Berlino-Bruxelles mi trovo tra le mani una copia del giornale Le Soir (22 gennaio 2018), giornale belga in lingua francese. In ultima pagina trovo un trafiletto che attira la mia attenzione dal titolo: “Les élections tuent l’italien” (“Le elezioni uccidono l’italiano”). Intervista a Claudio Marazzini, presidente dell’Accademia della Crusca, che in poche righe di virgolettato si lamenta degli slogan della campagna elettorale italiana non supportati da un ragionamento completo. Giusto dico io, bravo Claudio. Il presidente Marazzini cita anche i due slogan incriminati, giustamente virgolettati anch’essi: “Aiutiamoli (les immigrés) a casa loro” e “Prima gli italiani”. Purtroppo senza citare chi o almeno quale parte politica proferisce questi slogan. Ma continuo fiducioso nella lettura confidando che tale informazione arriverà presto.

Dopo una breve domanda di approfondimento del giornalista nel rigo seguente Marazzini, sempre virgolettato, si lamenta del fatto che stanno uccidendo la lingua italiana. Ma sempre senza nomi e senza entrare nello specifico. Chiuse le virgolette. Finalmente arriva la prosa del giornalista a fare chiarezza: tra i principali accusati di tutto questo, colpevole per uso scorretto dei congiuntivi, Luigi Di Maio, candidato premier del M5S. E gli slogan razzisti di destra? Il dubbio plana su Bruxelles, come d’altronde il mio aereo. Articolo e viaggio finiscono senza l’identità di chi pronuncia gli slogan razzisti citati da Marazzini.

Mettetevi nei panni di un normale lettore belga che non conosce la politica italiana. Il messaggio finale dell’articolo è: M5S ignorante e razzista. Leggendo l’articolo, infatti, sembra proprio che anche gli slogan di estrema destra vengano proferiti da Di Maio. Che non li ha mai pronunciati ovviamente. Questo si chiama scambio di persona o di slogan? Oppure disinformazione spudorata?

Ma non è finita. Mi accorgo che l’intervista al presidente dell’Accademia non è originale ma una ripresa tagliuzzata da La Stampa. Titolo: “Le elezioni uccidono l’italiano. E il campione è il M5S”. Le virgolette sono tali e quali, non le ho aggiunte io. Ma è mai possibile che il presidente dell’Accademia della Crusca sia angosciato per la morte della lingua italiana a causa di una campagna elettorale? Nient’affatto. Ho contattato personalmente Marazzini che denuncia il fatto di non aver mai proferito il titolo dell’articolo: “Quel titolo è stato un lancio piuttosto artificioso che ha amplificato i miei argomenti. Figuriamoci se l’italiano può morire per una campagna elettorale! Sono gli italiani che, semmai, sono privati di un diritto, e scivolano sempre più verso la disinformazione”.

Sottoscrivo in pieno, caro presidente: ora Le SoirLa Stampa faranno pubblica ammenda e/o correggeranno il tiro? O lasceranno correre? Vedremo. In conclusione, peggio i congiuntivi sbagliati oppure lo scambio di slogan e di virgolettati?

Media & Regime | 30 gennaio 2018

 
 
 

Il regalo di Renzi ai petrolieri si scopre solo oggi: ha azzerato l’obbligo di intesa con le Regioni

Post n°4157 pubblicato il 29 Gennaio 2018 da ninograg1
 

Fonte: Triskel182

(Il Fatto Quotidiano)

L’obbligo di un accordo forte tra esecutivo ed enti locali preliminare alla realizzazione di progetti energetici era stato inserito nella Legge di Stabilità 2016, che recepiva – rendendoli di fatto inammissibili – sei dei sette quesiti referendari sulle trivelle. Dopo pochi mesi, però, in gran segreto Palazzo Chigi ha modificato una norma del 1990, aggirando e depotenziando quel vincolo. Risultato: lo Stato ha mano libera, così come emerso nella vicenda della raffineria di Taranto, dove confluirà il petrolio del megagiacimento Tempa Rossa, senza l’assenso della Puglia. Coordinamento No Triv: “Traditi milioni di italiani e cancellata una delle principali conquiste dei territori”.

Un gioco di prestigio messo in atto prima per svuotare la proposta referendaria sulle trivelle del 2016 e per eliminare, pochi mesi dopo, quelle garanzie che avrebbero permesso una vera intesa, e non solo di facciata, tra esecutivo ed enti locali su tutti i progetti energetici. Nel tentativo di evitare il referendum del 17 aprile, infatti, il Governo Renzi aveva ceduto alla pressione di dieci Regioni accettando (con un maxi emendamento infilato inLegge di Stabilità 2016) di concordare con esse i progetti. Dopo solo sei mesi, invece, ha cambiato le regole “grazie alla generale disattenzione delle opposizioni parlamentari” e con la semplice modifica di una norma del 1990. Una modifica passata sotto silenzio e scoperta dal costituzionalista Enzo Di Salvatore, padre dei quesiti referendari, nel riesaminare il fascicolo sulla raffineria di Taranto, dove confluirà il petrolio del mega giacimento Tempa Rossa. Quel cambio di regole ha permesso, infatti, al Governo Gentiloni di approvare, il 22 dicembre scorso, una delibera che consente la prosecuzione dell’iter dell’istanza di autorizzazioneper adeguare le strutture logistiche alla raffineria Eni a Taranto nonostante l’opposizione della Regione Puglia. In Parlamento nessuno se n’è accorto, ma ora a denunciarlo è il Coordinamentonazionale No Triv, secondo cui quella norma “tradisce l’accordo con le dieci Regioni interessate ed è anticostituzionale”. Il sospetto è che il Governo abbia agito nella convinzione che la riforma Costituzionale con l’accentramento delle competenze avrebbe messo un sigillo a quella modifica, ma le cose sono andate diversamente.

LA NORMA VARATA DAL GOVERNO RENZI – Al centro di tutto una norma rimasta nascosta nelle pieghe del decreto legislativo 127 del 30 giugno 2016 (Norme per il riordino della disciplina in materia di conferenza di servizi), che attua l’articolo 2 della legge 124 del 7 agosto 2015. “La norma in questione, varata dal Governo Renzi – ricorda a ilfattoquotidiano.it Enrico Gagliano, cofondatore del Coordinamento Nazionale No Triv – tradisce milioni di italiani e cancella una delle principali conquiste delle Regioni ottenute con la previsione, in Legge di Stabilità 2016, dell’obbligo del raggiungimento di un’intesa in senso ‘forte’ tra Stato e Regioni ai fini dell’approvazione di progetti petroliferi”.

NESSUNA INTESA PER TEMPA ROSSA – A settembre scorso è stata la ministra per i Rapporti con il Parlamento, Anna Finocchiaro, rispondendo a una interrogazione nel corso del question time, in sostituzione del ministro per lo Sviluppo economico, Carlo Calenda, ad annunciare che il Governo stava lavorando a raggiungere un’intesa con la Regione Puglia sul progetto Tempa Rossa, per i lavori di adeguamento del porto di Taranto. Eppure questo accordo non c’è mai stato. Il 22 dicembre scorso, su proposta del premier Paolo Gentiloni, dopo il diniego al rilascio dell’intesa da parte del governatore Michele Emiliano, il Consiglio dei ministri ha concesso ugualmente le autorizzazioninecessarie all’esecuzione del progetto della Total. Si prevede di stoccare presso la raffineria Eni di Taranto il greggio estratto a Tempa Rossa, in Basilicata (50mila barili di greggio al giorno) utilizzando tra l’altro le agevolazioni fiscali introdotte con le Zes, le Zone economiche speciali e di cui fa parte anche Taranto. Ma come è stato possibile andare avanti senza la Regione?

IL GIOCO DI PRESTIGIO – Per capirlo bisogna fare un passo indietro, al referendum anti-trivelle del 2016. Alcuni quesiti referendari erano stati assorbiti nella legge di Stabilità attraverso un maxi emendamento presentato dal Governo. Tanto che in seguito l’Ufficio centrale per i referendum presso la Corte di Cassazione li aveva dichiarati inammissibili, lasciandone ‘in piedi’ solo uno. “Tra quelli usciti dal referendum perché coperti da maxi emendamento alla legge di Stabilità c’era quello che garantiva alle dieci Regioni interessate che ogni volta che si fosse trattato di realizzare un progetto di tipo energetico – spiega Di Salvatore – il Governo avrebbe dovuto trattare con loro e conseguire un’intesa in senso ‘forte’, così come più volte ha richiesto la Corte costituzionale con la sua giurisprudenza”. Insomma, se la garanzia era già contenuta nella manovra, non c’era più bisogno di quel quesito nella consultazione. Cosa è successo invece? Che successivamente è stata modificata la legge 241 del 1990 e, in particolare, l’articolo 14 quarter. “La norma garantiva – continua Di Salvatore – che quando ci fosse stato uno stallo nel rilascio dell’intesa, l’esecutivo avrebbero dovuto cercare una trattativaaccordando un certo termine alle Regioni, scaduto il quale avrebbe dovuto ritirare la proposta e chiamare a sé il presidente della Regione per concertare una soluzione politica”. A dare la possibilità al Governo di attuare questa modifica è stata la legge delega adottata nel 2015 dal Parlamento e con la quale aveva autorizzato l’Esecutivo a procedere a una semplificazione della disciplina delle Conferenze di servizio, contenuta proprio nella legge del 1990. “Il Governo è andato anche oltre – spiega il costituzionalista – e ha eliminato la procedura contenuta nell’articolo 14 quarter”. Così la delibera di dicembre che riguarda Tempa Rossa fa sì riferimento (e legittimamente) a quella legge, “ma il punto – continua Di Salvatore – è che la norma non è più legittima”.

LE CONSEGUENZE – Secondo il coordinamento ciò comporta che da un anno e mezzo a questa parte tutti i progetti che riguardano gas e petrolio possono essere approvati e resi cantierabili in tempi rapidi, così come richiesto dalle società del settore Oil&Gas. “Con una semplice modifica normativa – commenta Enzo di Salvatore – il Governo Renzi ha fatto sì che lo Stato potesse superare facilmente l’opposizione delle Regioniconvertendo l’intesa in senso “forte” in una intesa in senso “debole”. D’ora in poi, su Tempa Rossa e, più in generale, per autorizzare la ricerca, l’estrazione, il trasporto e lo stoccaggio di idrocarburi, lo Stato avrà sostanzialmente mano libera. “La delibera che consente la prosecuzione del procedimentodell’istanza di autorizzazione per l’adeguamento delle strutture di logistica alla raffineria di Eni a Taranto – avverte il Coordinamento No Triv – rischia di essere la prima di una lunga serie se le Regioninon porranno la questione in sede di Conferenza Stato-Regioni”. Secondo Di Salvatore “questa norma è palesemente incostituzionale, anche alla luce dell’esito del referendumcostituzionale che ha ribadito che lo Stato non può in alcun modo prevaricare le Regioni nelle scelte che concernono l’energia ed il governo del territorio”.

 
 
 

Inps ancora in rosso: nel 2017 buco da 6,3 miliardi di euro

Post n°4156 pubblicato il 28 Gennaio 2018 da ninograg1
 

Fonte: WSI 25 gennaio 2018, di Alessandra Caparello

 

ROMA (WSI) – Ennesimo buco nel bilancio per l’Inps. L’istituto nazionale di previdenza sociale guidato da Tito Boeri potrebbe chiudere il 2017 con un rosso da 6,3 miliardi di euro.

Come scrive Fabio Pavesi per La Verità i dati sono peggiori rispetto alle stime negative fatte a settembre scorso, pari a circa -5,5 miliardi. A causare il rosso il divario insanabile tra contributi incassati dall’Inps e pensioni da pagare.

“La classica forbice tra entrate e uscite che produce perdite miliardarie ogni anno e che divora il patrimonio. Con lo Stato che non potrà che ricapitalizzare, iniettare denaro via anticipazione di cassa che diventano debito per l’Inps. Un debito che non verrà mai ripagato. Il film dell’agonia dell’Inps del resto è nei numeri. L’ente disponeva di oltre 40 miliardi di patrimonio nel 2011″.

A ciò si aggiunge un altro ente malato caricato sulle spalle dell’Inps, l’ex Inpdap, che paga le pensioni dei lavoratori pubblici incorporata nel 2012, e che ha portato 20 miliardi di deficit nei conti dell’Inps e continua a cumulare passivi e solo nel 2017 le previsioni stimano che il divario tra contributi versati dalle PPA e le pensioni da pagare sarà di quasi 8 miliardi di euro.

A vedere buchi la gestione degli artigiani (4,6 miliardi), quella dei coltivatori diretti e agricoltori (3,2 miliardi) e l’ex Inpdai, l’ente dei dirigenti d’azienda che tocca  ogni anno in media un rosso di 3,8 miliardi. E il peggio deve purtroppo ancora venire.

“Nel bilancio tecnico predisposto dagli attuari si paventi una situazione da brividi. Le perdite si cumuleranno anche nei prossimi anni a ritmi tra gli 8 e i 12 miliardi e questo vuol dire che nel 2023 il passivo patrimoniale dell’Inps arriverà a valere oltre 56 miliardi. Pagherà come sempre Pantalone la lunga traversata nel deserto dell’ente pensionistico italiano”.

 

 
 
 

Orologio dell’Apocalisse, due minuti alla mezzanotte ed è sempre colpa di Trump

Post n°4155 pubblicato il 27 Gennaio 2018 da ninograg1
 

Fonte: Il Fatto Quotidiano di F. Q. 25 gennaio 2018

Lo avevano già fatto un anno fa quando Donald Trump era stato eletto: spostare le lancette di 30 secondi verso la mezzanotte dell’Apocalisse. E un anno dopo il mondo è ancora più vicino al punto di non ritorno. Citando i dodici mesi della nuova presidenza americana, l’associazione degli scienziati atomici che mantengono il Doomsday Clock hanno spostato nuovamente le lancette che ora si trovano ad appena due minuti dalla mezzanotte. “Non succedeva dal 1953, all’apice della guerra fredda”, ha avvertito Rachel Bronson, la presidente dell’organizzazione. L’annuncio della nuova valutazione, raggiunta in coordinamento con un comitato di 15 premi Nobel e resa nota nel giorno del debutto di Trump a Davos, è stato dato a Washington dal Bollettino degli Scienziati Atomici, un gruppo di esperti fondato dopo la Seconda Guerra Mondiale. “Trump deve moderare la retorica nucleare, negoziare con la Corea del Nord, restare nell’accordo con l’Iran, ridurre le tensioni con la Russia e insistere per un’azione globale contro il cambiamento climatico”, affermano gli scienziati, secondo cui “nel 2017 i leader mondiali non sono riusciti a rispondere efficacemente alle minacce della guerra nucleare e del cambiamento del clima, creando la situazione più pericolosa per il mondo dalla fine della Seconda Guerra Mondiale”.

Nei decenni dalla sua istituzione l’orologio dell’Apocalisse era arrivato a due minuti dalla mezzanotte solo nel 1953, il momento più pericoloso nel secondo dopoguerra per le sorti del mondo. Quell’anno gli Stati Uniti avevano deciso di aggiornale i loro arsenali nucleari con la bomba all’idrogeno. Nel 2015 l’orologio era stato spostato da cinque a tre minuti dalla mezzanotte, mentre nel 2017, a causa dell’elezione di Trump, le lancette erano arrivate a due minuti e mezzo dall’Apocalisse. Al momento della sua ideazione, le lancette furono impostate a sette minuti dalla mezzanotte. In questi 70 anni si sono mosse una ventina di volte, toccando il loro minimo appunto negli Anni ‘50, con appena due minuti d’intervallo dal baratro. In passato, il pericolo numero uno per il mondo, uscito dal secondo conflitto bellico diviso in due blocchi contrapposti, era quello di un olocausto nucleare. A questa, nel tempo, si sono aggiunte altre emergenze, come per l’appunto i mutamenti climatici o la ricerca di nuove fonti energetiche sostenibili e sicure.

Il report del Bulletin of the atomic scientists sul Doomsday clock 2018

 
 
 

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