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« Attacco al cuore della d...Un giovane su 4 non ha u... »

In Italia, il fenomeno autodistruttivo delle nuove generazioni è incentivato espressamente dalla destra al governo

Post n°3567 pubblicato il 10 Luglio 2010 da cile54
Foto di cile54

Giappone, la stanza segreta di un milione di giovani

Folle di ragazzi giapponesi, definiti hikikomori, si isolano progressivamente dalla società fino a rinchiudersi volontariamente nelle proprie camere e nel silenzio di internet. è un modo per protestare contro una società altamente competitiva e gerarchica. In Italia il fenomeno è sporadico, tanto da non meritare studi approfonditi, ma sarebbe meglio prendere qualche contromisura sociale e culturale per evitare un pericoloso corto circuito tra generazioni.

Adolescenti dalla spiccata intelligenza, creativi ma introversi, che si rinchiudono in se stessi per rabbia o per incapacità di affrontare il mondo. Soli fino alla disperazione. Gli hikikomori giapponesi potrebbero essere raccontati già solo così, senza bisogno di altre parole. Oppure ci si potrebbe appassionare alle avventure di Tatsuhiro Satō, 22 anni, disoccupato da quattro, che sopravvive con i pochi soldi inviati dai genitori ed è terrorizzato dall’idea di uscire di casa. Capelli lunghi e scuri, occhi da bambino, il giovane protagonista della novella ideata da Tatsuhiko Takimoto vede tutto intorno a sé come una cospirazione, una minaccia, un pericolo per la propria mente disturbata. Tatsuhiro è il personaggio di una serie Tv famosa qualche anno fa in Giappone, la “NHK ni yōkoso!”, benvenuti nel mondo di NHK.

L’acronimo rappresenta allo stesso tempo la rete televisiva Nippon Hōsō Kyōkai, che trasmetteva la serie, ma anche la fantomatica Nihon Hikikomori Kyōkai, organizzazione sovversiva che farebbe capo alla stessa stazione televisiva e che vorrebbe riempire il mondo di giovani disadattati sfruttando il comprovato potere ossessivo di manga e anime. La storia scava in superficie tra le miserie degli hikikomori, un po’ per de-demonizzarli, un po’ per fare da specchio a coloro che, tra i giovani consumatori di prodotti televisivi, sono tristemente indirizzati su questa strada. Il tutto con la semplice dolcezza dei cartoni animati giapponesi, con quei volti dagli occhi grandi come Bambi e quei dialoghi a metà tra l’infantile e l’epico. Ad azzardare un paragone viene alla mente il miglior Massimo Troisi in Ricomincio da tre e il suo mitico Robertino, figlio di una donna ossessiva e bigotta, cresciuto stretto tra le quattro mura di «un museo», incapace di esprimere se stesso e turbato da un mucchio di complessi. «Ma quali complessi - sbroccava Troisi - tu tiene ll’orchestra intera ‘ncapa, Robbè...». E tutti ridevano.

Solitudine tecnologizzata. Satō e Robertino non si somigliano in nulla se non nelle paranoie che ne accompagnano l’esistenza. Il disadattato fiorentino di mezza età interpretato dall’ottimo Renato Scarpa rischia il manicomio a causa delle ossessioni cattoliche di “mammina”. Il giovane psicotico del cartone giapponese vive rinchiuso in casa, addossando ad altri le colpe delle sue paure e del suo fallimento. Sulle spalle di entrambi tonnellate di fobie che trasformano l’esistenza in un difficile guado tra la nascita e la morte. A dividerli però profonde differenze di matrice culturale che dovrebbero impedire l’incrociarsi e il confondersi delle due storie, tra Italia e Giappone. Ma è davvero così?

Nel 2006 apparve nel circuito indipendente Digima un film di Marco Prati che scavava tra le pieghe della solitudine tecnologizzata nel nostro Paese, «la favola sociale di un trentenne postmoderno e senza nome, che riesce a emergere dalla routine quotidiana inseguendo un amore platonico e ossessivo». Una storia certamente piuttosto lontana dalla vicenda del giovane Satō, tanto che il titolo del film, Hikikomori, sembrava quasi preso in prestito da una realtà non sua. Eppure suonava un campanello d’allarme, avvertendo che tutto è possibile, anche nel nostro Paese.

In Giappone il fenomeno cresce da almeno vent’anni, nonostante tutti gli sforzi per arginarlo. Folle di ragazzi progressivamente si isolano dalla società fino a rinchiudersi volontariamente nelle proprie camere e nel silenzio di internet, in quella che la psicologa Francesca Lecce chiama “la stanza segreta”. E vi rimangono per mesi, per anni, a volte per interminabili decenni. Vi è chi nega l’esistenza di qualsiasi sindrome, considerando questo un fenomeno costruito a tavolino da parte di ricercatori desiderosi di fama, troppo zelanti nel mettere insieme casi dissimili di timidezza eccessiva e ansia da prestazione. Altri minimizzano i numeri e lo considerano un disturbo assolutamente episodico. In tanti ne danno responsabilità ad aspetti molto filosofici della cultura confuciana. «Come l’anoressia, che è una malattia in gran parte limitata alle culture occidentali, l’hikikomori è una sindrome legata a una base culturale, ossia che emerge in un determinato Paese in un momento particolare della sua storia». Questo raccontava nel 2006 Maggie Jones in un’inchiesta sul New York Times.

Stessa teoria sostenuta dall’antropologa Carla Ricci nel suo Hikikomori: adolescenti in volontaria reclusione, pubblicato nel 2008. Il determinato Paese, in questo caso, è il Giappone del boom economico, quello che già decenni fa spaventava il mondo a causa della sua crescita rapidissima. Negli anni Ottanta, mentre eserciti di turisti in volo da Tokyo sbarcavano in Europa armati di calzoncini, cappellino e macchina fotografica, grandi imprese come Sony e Toyota divoravano i mercati e i nuovi ricchi made in Japan compravano in Occidente tutto il comprabile. Alla base di tanto successo ingredienti quali il nazionalismo esasperato dalla sconfitta bellica, la lealtà quasi religiosa verso i superiori, lo stakanovismo culturale dei lavoratori. Gli stessi fattori che pesano oggi come macigni sulle spalle dei giovani rampolli della classe media, quelli destinati a essere salaryman, i “colletti bianchi” del sistema Giappone.

Se fino a pochi anni fa era un’aspirazione comune indossare giacca e cravatta di poco prezzo, simboli dell’impiego aziendale e di una condizione privilegiata di stabilità economica, oggi per i giovani questo è uno stereotipo che sfocia nel ridicolo e nella tragedia, un anti-modello che viene associato a basso prestigio sociale, schiavitù da salario e mancanza assoluta di libertà personale. Su youtube gira un cartone animato che riassume in 30 secondi la vita di un salaryman giapponese. Dalla culla alla bara una corsa disperata, colpi di gomito a destra e a manca e sulla faccia un’espressione truce che scompare solo alla morte. Per molti questo è un dramma ma la società ci scherza su, cinicamente. In un videogioco online chiamato karoshi, che significa “morte da troppo lavoro”, un avatar salaryman deve uscire da una porta evitando trappole mortali. Il gioco consiste semplicemente nel suicidarsi. Se l’omino riesce a uscire, il giocatore ha perduto la partita.

Autorealizzazione cercasi. L’enorme pressione che la società mette sulle spalle dei giovani destinati alla carriera in azienda potrebbe essere la causa scatenante dell’hikikomori. «Ad esempio - sostiene la dottoressa Lecce - se un figlio decide di non seguire un preciso percorso come il frequentare un’università d’élite o un’azienda di prestigio, i genitori vivono e fanno vivere ai propri figli tale situazione come un grande fallimento». Questione di aspettative familiari, quindi, di percorsi formativi e di fiducia nelle proprie capacità. In Giappone la spinta verso l’autorealizzazione comincia prestissimo, già durante la scuola media, quando ai ragazzini viene presentato un duro percorso a ostacoli da superare di slancio. Un paio d’anni, non di più, faranno la differenza tra l’anonimato e la strada verso il successo. Lo stress da competizione diventa ben presto talmente pesante che molti non resistono e non è raro che qualcosa, nei fragili meccanismi dell’adolescenza, si rompa. «Hikikomori  è null’altro che una forma di resistenza a questa pressione - sostiene l’antropologo culturale James Roberson - Alcuni si dicono: “Al diavolo tutto, non mi piace e non lo so fare”». E si rinchiudono nel mondo parallelo della Tv e di internet. Secondo lo psicologo Tamaki Saitō, che per primo teorizzò questo disturbo mentale negli anni Ottanta, in Giappone vi sarebbero oltre un milione di ragazzi, l’80 per cento maschi, per i quali il porto sicuro della solitudine è l’unico baluardo contro la condanna del successo ad ogni costo.

Ma la storia non finisce qui. Negli anni passati il modello di società nipponica asservita all’impresa è stato esportato con successo in tutto l’estremo oriente, a partire dalla Corea del Sud. Infatti da almeno un decennio l’economia sudcoreana ha preso il volo e oggi incalza quella del Sol levante. Brand come Hyundai, Samsung, Daewoo o LG, sono oramai presenti in ogni angolo del pianeta. Ed ecco che Maggie Jones, nel 2006, già sottolineava l’insorgere dei primi casi di hikikomori in Corea del Sud e anche a Taiwan. Da poco se ne comincia a parlare in altri Paesi dove i ragazzi sono spinti prematuramente sulla strada della competizione e del successo. Negli Usa per esempio. In Cina. In Italia! Nel 2008, durante un’intervista, Tamaki Saitō chiedeva alla ricercatrice Claudia Pierdominici se non vi fossero casi nel meridione italiano. «Non ne ho mai sentito parlare», fu la risposta. Invece nel febbraio 2009 un articolo sul Corriere della Sera apriva uno squarcio su questo fenomeno nel nostro Paese, attraverso spezzoni di storie adolescenziali raccontate da psicologi.

Alla fine del ragionamento un’affermazione forte: «Gli hikikomori, anche in Italia, sono sempre di più». Si nascondono tra i tanti “mammoni” nostrani, quelli stigmatizzati dal povero Robertino del film di Troisi, del quale tutti ridono. Sorgono dagli anfratti dell’abbandono scolastico, schiacciati da un’offerta formativa su cui incombe sempre più la pressione aziendale. Le imprese spingono per poter assumere lavoratori già formati e inquadrati e il sistema educativo è sempre più un’appendice propedeutica al bisogno di competitività dell’industria nazionale. Cresce di conseguenza il numero di ragazzi che rifiutano di adeguarsi e si rinchiudono tra le proverbiali quattro mura.

In Italia l’hikikomori è ancora un fenomeno sporadico, tanto da non meritare nemmeno studi approfonditi. Ma, a fare il paragone con il modello importato da Tokyo, la strada che percorriamo è fin troppo chiara. Se un giorno le statistiche del disagio sociale dovessero improvvisamente fotografare nel nostro Paese una realtà diversa e indesiderata, non si vada troppo lontano a cercare le responsabilità.

Bruno Picozzi

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