Creato da trampolinotonante il 14/11/2008

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guerra e pace

Post n°438 pubblicato il 11 Luglio 2014 da trampolinotonante

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continuando nella bella iniziativa della gentile Odioviacolvento

vorrei segnalare na cosa che m'è piaciuta assai

e che potrebbe far piacere a chi SI OCCUPA DI PACE E DI GUERRA

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 guerra e pace

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 stavolta non vi mando in giro ma faccio sì che tutto avvenga in casa. Potete centellinare quello che riporto. Due cose che io ho letto e riletto e mi son piaciute moltissimo: trattano della guerra e della pace. Nulla di più lampante, in questi giorni, direi.

NON VOGLIATEMENE. Tutto va centellinato, un pò al giorno, se avete voglia, altrimenti passate oltre!!!

 

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 guerra

 ERIC FROMM, SULLE CAUSE DELLA GUERRA


Il caso più importante di aggressione strumentale è la guerra. Ormai è diventato di moda credere che la guerra sia scatenata dal potere dell'istinto distruttivo umano. Questa è stata la spiegazione fornita da istintivisti e psicoanalisti. Per esempio, un importante esponente della ortodossia psicoanalitica, E. Glover, argomenta contro M. Ginsberg che "l'enigma della guerra è sepolto... nelle profondità dell'inconscio", paragonando la guerra a "una forma svantaggiosa di adattamento istintuale". (E. Glover e M. Ginsberg, 1934.)22

 Lo stesso Freud espresse una posizione molto più realistica dei suoi seguaci. Nella sua famosa lettera ad Albert Einstein, Perché la guerra? (S. Freud, 1933) individuò le cause della guerra non nella distruttività umana, ma nei conflitti realistici fra gruppi, costantemente risolti con la violenza, per l'assenza di una legge internazionale esecutoria che consentisse, come nella legge civile, di risolverli pacificamente. Attribuì soltanto un ruolo ausiliario al fattore della distruttività umana, per cui la gente è più disposta a combattere una volta che i vari governi abbiano imboccato quella strada.

 Per chiunque abbia qualche vaga nozione di storia la tesi dell'innata distruttività umana quale causa primaria della guerra è semplicemente assurda. I Babilonesi, i Greci, fino agli statisti del nostro tempo hanno pianificato le loro guerre per ragioni che ritenevano molto realistiche, soppesando accuratamente i pro e i contro, anche se, naturalmente, i loro calcoli furono spesso errati. Le motivazioni erano infinite: acquisire terra da coltivare, ricchezze, schiavi, materie prime, mercati, espansione e difesa. Talvolta ad accendere la scintilla fu la vendetta o, in una piccola tribù, la passione di distruggere, ma si tratta di casi atipici. La tesi secondo cui la guerra è provocata dall'aggressività umana non è soltanto non-realistica, è soprattutto dannosa. Distoglie l'attenzione dalle cause reali, indebolendo così l'opposizione contro di esse.

 Questa presunta tendenza innata alla guerra non è solo sconfessata dalla storia documentata, ma anche, elemento questo estremamente importante, dalla storia delle guerre primitive. Già nel contesto dell'aggressione fra i popoli primitivi, abbiamo dimostrato che questi - e particolarmente i cacciatori e i raccoglitori di cibo - erano i meno bellicosi, e che le loro lotte erano caratterizzate da una assenza relativa di distruttività e di efferatezza. Abbiamo visto inoltre che le guerre sono diventate sempre più frequenti e sanguinose. Dunque, se la guerra fosse provocata da impulsi distruttivi innati, si sarebbe verificato il contrario. Le tendenze umanitarie emerse nei secoli diciottesimo, diciannovesimo e ventesimo apportarono in guerra riduzioni della distruttività e della crudeltà, codificate - e rispettate fino alla prima guerra mondiale compresa - in vari trattati internazionali. In questa prospettiva progressista, sembrò che l'uomo civile fosse meno aggressivo del suo antenato primitivo; le guerre continuavano a scoppiare perché gli istinti aggressivi, pertinaci, si rifiutavano di piegarsi all'influenza benefica della civiltà. Ma quel che avvenne in realtà fu che la distruttività dell'uomo civile fu proiettata sulla natura umana, e quindi la storia fu confusa con la biologia. Se cercassi di tracciare anche soltanto una breve analisi delle cause della guerra, dilaterei notevolmente la struttura di questo libro; mi dovrò perciò limitare ad addurre un solo esempio: la prima guerra mondiale. La prima guerra mondiale fu motivata dagli interessi economici e dalle ambizioni dei leader politici, militari e industriali di entrambe le parti; non esplose perché le varie nazioni coinvolte avevano bisogno di scaricare la rispettiva aggressione "arginata". Poiché queste motivazioni sono largamente conosciute, è inutile ricostruirle nei particolari. In linea di massima si può dire che gli obiettivi principali della guerra 1914-1918 furono prevalentemente quelli della Germania: conquistare l'egemonia economica nell'Europa centrale e occidentale e acquisire territori all'Est. (Furono, poi, anche quelli di Hitler, la cui politica estera fu essenzialmente la continuazione di quella del governo imperiale.) Analoghi erano gli obiettivi e le motivazioni degli Alleati Occidentali. La Francia voleva l'Alsazia-Lorena; la Russia i Dardanelli; l'Inghilterra parte delle colonie tedesche; l'Italia almeno una piccola parte del bottino. Se non fosse stato per tutte queste mire, alcune delle quali stipulate in trattati segreti, la pace sarebbe stata conclusa anni prima, risparmiando così le vite di parecchi milioni di persone in entrambi gli schieramenti.

 Durante la prima guerra mondiale, entrambe le parti in lotta dovettero appellarsi a un senso di autodifesa e di libertà. I Tedeschi sostenevano di essere accerchiati e minacciati e, per di più, di combattere contro lo zar per la propria libertà; i loro nemici affermavano di essere minacciati dal militarismo aggressivo degli Junker tedeschi, e di combattere il Kaiser per preservare la propria libertà. Concluderne che questa guerra sia stata originata dal desiderio di Francesi, Tedeschi, Inglesi e Russi di scaricare la rispettiva aggressività è falso e serve soltanto a distogliere l'attenzione dalle persone e dalle classi e condizioni sociali cui risale la responsabilità di uno dei più grandi massacri della storia.

 Per quanto riguarda l'entusiasmo suscitato da questa guerra, bisognerà distinguere fra quello iniziale e le motivazioni che spinsero le rispettive popolazioni a continuare la lotta. All'interno dei Tedeschi' bisognerà distinguere due gruppi. Il piccolo gruppo dei nazionalisti - una piccola minoranza nella popolazione complessiva - strepitava per una guerra di conquista già parecchi anni prima del 1914: era formato prevalentemente da professori di liceo, da alcuni professori di università, da giornalisti e uomini politici, con l'appoggio di alcuni grossi personaggi della Marina tedesca e di alcuni settori dell'industria pesante. Si potrebbe descrivere la loro motivazione psichica come un misto di narcisismo di gruppo, di aggressione strumentale, del desiderio di far carriera e di acquisire potere all'interno di questo movimento nazionalistico e attraverso di esso. La grande maggioranza della popolazione si mostrò entusiasta soltanto poco prima e poco dopo lo scoppio della guerra. Anche a questo proposito emergono differenze e reazioni significative fra le varie classi sociali; per esempio, gli intellettuali e gli studenti erano più entusiasti dei lavoratori. (Un dato interessante che illumina la questione è il fatto che il capo del governo tedesco, il cancelliere del Reich von Bethman-Hollweg, come dimostrano i documenti del Ministero degli Esteri tedesco pubblicati dopo la guerra, era consapevole che sarebbe stato impossibile vincere il consenso del Partito Socialdemocratico, il più forte all'interno del Reichstag, a meno che non riuscisse prima a dichiarare guerra alla Russia, dando cosi ai lavoratori la sensazione di combattere contro l'autocrazia e per la libertà.) L'intera popolazione fu sottoposta al martellamento propagandistico del governo e della stampa che, pochi giorni prima e dopo l'inizio della guerra, usarono tutto il loro potere suggestivo per convincerli che la Germania sarebbe stata umiliata e aggredita, mobilitando cosi impulsi di aggressione difensiva. La popolazione nel suo complesso, però, non era motivata da forti impulsi di aggressione strumentale, per esempio dal desiderio di conquistare territorio straniero, come è dimostrato dal fatto che, persino all'inizio della guerra, la propaganda governativa negò ogni obiettivo di conquista, e più tardi, quando i generali controllarono la politica estera, gli obiettivi di conquista furono descritti come strumenti necessari per la futura sicurezza del Reich tedesco; comunque, nel giro di pochi mesi l'entusiasmo iniziale spari Per non tornare mai più.

È il caso di sottolineare che, quando Hitler fece scattare l'aggressione contro la Polonia, innescando cosi la seconda guerra mondiale, l'entusiasmo popolare per la guerra era praticamente eguale a zero. Nonostante gli anni di pesante indottrinamento militaristico, la popolazione dimostrò molto chiaramente che non era ansiosa di combattere. (Hitler fu costretto a inscenare un attacco a una stazione radio della Slesia da parte di presunti soldati polacchi - in realtà, nazisti mascherati - per risvegliare il senso di difesa contro l'aggressione.)

 Ma anche se la popolazione tedesca non voleva questa guerra (persino i generali erano riluttanti), prese le armi senza opporre resistenza, e combatté coraggiosamente fino alla fine.

 Ecco dove si pone il problema psicologico, non nella causalità della guerra, ma nell'interrogativo: quali fattori psicologici l'hanno resa possibile, pur non provocandola?

 Per rispondere a questa domanda, bisognerà esaminare parecchi fattori rilevanti. Una volta scatenata la prima guerra mondiale (e, con qualche modifica, la seconda) i soldati tedeschi (o francesi, inglesi, russi) continuarono a lottare perché erano convinti che la sconfitta avrebbe fatto sprofondare l'intera nazione. A livello individuale erano motivati dalla sensazione di combattere per salvarsi la pelle. Ma nemmeno questo basterebbe per giustificare il consenso a continuare. Certo, sapevano che, se fossero fuggiti, sarebbero stati fucilati, ma queste motivazioni non impedirono ammutinamenti su vasta scala in tutti gli eserciti; in Russia e in Germania sfociarono nelle rivoluzioni del 1917 e del 1918. Nel 1917, in Francia, non c'era praticamente un corpo dell'esercito i cui soldati non si fossero ammutinati, e fu soltanto per l'abilità dei generali francesi nell'impedire che un'unità militare sapesse cosa accadeva nelle altre che questi ammutinamenti furono repressi, con un miscuglio di esecuzioni di massa e qualche miglioramento nelle condizioni di vita quotidiana dei soldati.

 Un altro fattore importante nel determinare la guerra è il senso di rispetto profondamente radicato e il timore dell'autorità. Al soldato si era tradizionalmente cercato di inculcare il concetto che ubbidire ai suoi capi fosse un obbligo religioso e morale, che egli doveva adempiere a costo della vita. Ci vollero ben tre o quattro anni di orrori nelle trincee, e la consapevolezza crescente di essere usati dai capi per obiettivi bellici che niente avevano a che fare con la difesa, per spezzare questo atteggiamento di obbedienza, almeno in una parte considerevole dell'esercito e della popolazione.

 Ma vi sono altre motivazioni emozionali, più sottili, che rendono possibile la guerra, pur non avendo niente a che fare con l'aggressione. La guerra è eccitante persino se implica il rischio di perdere la vita e grandi sofferenze fisiche. Considerando che la vita della persona media è noiosa, tutta routine e senza avventure, l'atteggiamento di chi è pronto ad andare in guerra deve essere inteso anche come il desiderio di mettere fine al noioso tran-tran della vita quotidiana, di lanciarsi nell'avventura, l'unica avventura, in realtà, che la persona media può aspettarsi in tutta la sua vita.

 In una certa misura, la guerra rovescia tutti i valori. Incoraggia l'espressione di impulsi umani profondamente radicati, come l'altruismo e la solidarietà, impulsi che vengono mutilati dal principio dell'egocentrismo e della competizione indotti nell'uomo moderno dalla vita normale in tempo di pace. Le differenze di classe, anche se non scompaiono, si riducono notevolmente. In guerra l'uomo è nuovamente uomo, ha la possibilità di distinguersi, a prescindere dai privilegi sociali conferitigli dal suo status di cittadino. Per dirla in forma molto accentuata, la guerra è una ribellione indiretta contro l'ingiustizia, l'ineguaglianza e la noia che dominano la vita sociale in tempo di pace, e non bisogna sottovalutare il fatto che, se un soldato combatte il nemico per la sua pelle, non deve combattere contro i membri del suo gruppo per avere cibo, cure mediche, riparo, vestiario, che gli vengono forniti da una specie di sistema perversamente socializzato. Il fatto che la guerra abbia queste caratteristiche positive è un triste commento alla nostra civiltà. Se la vita civile offrisse quegli elementi di avventura, solidarietà, eguaglianza, idealismo, che si possono trovare in guerra, potrebbe essere molto difficile far combattere la gente. Il problema del governo consiste nello strumentalizzare questa ribellione, imbrigliandola al servizio dell'obiettivo della guerra; simultaneamente, per impedire che diventi una minaccia al potere costituito, si impone una rigida disciplina e lo spirito di obbedienza ai leader, rappresentati come uomini altruisti, saggi, coraggiosi, che proteggono il loro popolo dalla distruzione. Per concludere, le grandi guerre dei tempi moderni e quasi tutte quelle fra gli stati dell'antichità non furono provocate dall'aggressione arginata, ma dall'aggressione strumentale delle élite militari e politiche, come appare dai dati sulla diversa incidenza della guerra a partire dalle culture più primitive fino a quelle più sviluppate. Più una civiltà è primitiva, più rare sono le guerre. (Q. Wright, Chicago 1965.) La stessa tendenza è confermata dal fatto che la frequenza e l'intensità delle guerre si è accresciuta con lo sviluppo della civiltà tecnologica; è massima fra gli stati potenti con un governo forte, e minima fra l'uomo primitivo non sottoposto a leader permanenti. Come si può vedere nella tavola seguente, il numero di battaglie ingaggiate dalle principali potenze europee nei tempi moderni mostra la stessa tendenza. La tavola riporta il numero di battaglie combattute in ciascun secolo a partire dal 1480. (Q. Wright, Chicago 1965):

 

ANNI
NUMERO DI BATTAGLIE
1480-1499
9
1500-1599
87
1600-1699
239
1700-1799
781
1800-1899
651
1900-1940
892

Facendone risalire le cause all'aggressione innata, certi autori hanno semplicemente considerato la guerra moderna un fenomeno normale, provocato necessariamente dalla natura "distruttiva" dell'uomo. Hanno tentato di confermare questa tesi con i dati raccolti sugli animali e sui nostri antenati preistorici, distorcendoli per farli servire allo scopo. La loro posizione è nata dalla convinzione irremovibile che la civiltà moderna sia superiore alle culture pre-tecniche. La logica era: se l'uomo civile è afflitto da tante guerre e da tanta distruttività, ben peggio doveva essere ridotto l'uomo primitivo, così arretrato nello sviluppo verso il " progresso". Poiché non si può attribuire la distruttività alla nostra civiltà, bisogna giustificarla come risultato dei nostri istinti. Ma i fatti parlano diversamente.

(Erich Fromm, Anatomia della distruttività umana, Mondadori, Milano 1975, pag. 265)

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LA PACE CONTINUA NEL PRIMO MIO COMMENTO, POICHE' IL MASSAGGIO NON ENTRA NEL POST PERCHE' TROPPO LUNGO

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trampolinotonante
trampolinotonante il 11/07/14 alle 01:16 via WEB
INTERVISTA A PAPA FRANCESCO
- L'appuntamento è a Santa Marta, di pomeriggio. Una veloce verifica e uno svizzero mi fa accomodare in un piccolo salottino. Sei poltroncine verdi di velluto un po' liso, un tavolino di legno, un televisore di quelli antichi, col pancione. Tutto in ordine perfetto, il marmo tirato a lucido, qualche quadro. Potrebbe essere una sala d'aspetto parrocchiale, una di quelle dove si va per chiedere un consiglio, o per fare i documenti matrimoniali.
Francesco entra sorridendo: «Finalmente! Io la leggo e ora la conosco». Arrossisco. «Io invece la conosco e ora la ascolto». Ride. Ride di gusto, il Papa, come farà altre volte nel corso di un'ora e passa di conversazione a ruota libera. Roma con i suoi mali di megalopoli, l'epoca di cambiamenti che indeboliscono la politica; la fatica nel difendere il bene comune; la riappropriazione da parte della Chiesa dei temi della povertà e della condivisione («Marx non ha inventato nulla»), lo sgomento di fronte al degrado delle periferie dell'anima, scivoloso abisso morale in cui si abusa dell'infanzia, si tollera l'accattonaggio, il lavoro minorile e, non ultimo, lo sfruttamento di baby prostitute nemmeno quindicenni. E i clienti che potrebbero essere i loro nonni; «pedofili»: il Papa li definisce proprio così. Francesco parla, spiega, si interrompe, ritorna. Passione, dolcezza, ironia. Un filo di voce, sembra cullare le parole. Le mani accompagnano il ragionamento, le intreccia, le scioglie, sembrano disegnare geometrie invisibili nell'aria. E’ in ottima forma a dispetto delle voci sulla sua salute.
E' l'ora della partita Italia-Uruguay. Santo Padre, lei per chi tifa? «Ah io per nessuno, davvero. Ho promesso al presidente del Brasile (Dilma Roussef ndr) di restare neutrale».
Cominciamo da Roma? «Ma lo sa che io Roma non la conosco? Pensi che la Cappella Sistina l'ho vista per la prima volta quando ho preso parte al conclave che elesse Benedetto XVI (2005 ndr). Non sono nemmeno mai stato ai musei. Il fatto è che da cardinale non venivo spesso. Conosco Santa Maria Maggiore perché ci andavo sempre. E poi San Lorenzo fuori le mura dove sono andato per delle cresime quando c'era don Giacomo Tantardini. Ovviamente conosco Piazza Navona perché ho sempre alloggiato a via della Scrofa, là dietro».
C'è qualcosa di romano nell'argentino Bergoglio? «Poco e niente. Io sono più piemontese, sono quelle le radici della mia famiglia di origine. Tuttavia sto cominciando a sentirmi romano. Intendo andare a visitare il territorio, le parrocchie. Sto scoprendo poco a poco questa città. E' una metropoli bellissima, unica, con i problemi delle grandi metropoli. Una piccola città possiede una struttura quasi univoca, una metropoli, invece, comprende sette o otto città immaginarie, sovrapposte, su vari livelli.
Anche livelli culturali. Penso, per esempio, alle tribù urbane dei giovani. E' così in tutte le metropoli. A novembre faremo a Barcellona un convegno dedicato proprio alla pastorale delle metropoli. In Argentina sono stati promossi degli scambi con il Messico. Si scoprono tante culture incrociate, ma non tanto per via delle migrazioni, ma perché si tratta di territori culturali trasversali, fatti di appartenenze proprie. Città nelle città. La Chiesa deve saper rispondere anche a questo fenomeno».
Perché lei, sin dall'inizio, ha voluto sottolineare tanto la funzione di Vescovo di Roma? «Il primo servizio di Francesco è questo: fare il Vescovo di Roma. Tutti i titoli del Papa, Pastore universale, Vicario di Cristo eccetera, li ha proprio perché è Vescovo di Roma. E' la scelta primaria. La conseguenza del primato di Pietro. Se domani il Papa volesse fare il vescovo di Tivoli è chiaro che mi cacceranno via». Quarant'anni fa, sotto Paolo VI, il Vicariato promosse il convegno sui mali di Roma. Emerse il quadro di una città in cui chi aveva tanto aveva il meglio, e chi aveva poco il peggio. Oggi, a suo parere, quali sono i mali di questa città? «Sono quelli delle metropoli, come Buenos Aires. Chi aumenta i benefici, e chi è sempre più povero. Non ero a conoscenza del convegno sui mali di Roma. Sono questioni molto romane, e io all'epoca avevo 38 anni. Sono il primo Papa che non ha preso parte al Concilio e il primo che ha studiato la teologia nel dopo Concilio e, in quel tempo, per noi la grande luce era Paolo VI. Per me la Evangelii Nuntiandi resta un documento pastorale mai superato».
Esiste una gerarchia di valori da rispettare nella gestione della cosa pubblica? «Certo. Tutelare sempre il bene comune. La vocazione per qualsiasi politico è questa. Un concetto ampio che include, per esempio, la custodia della vita umana, la sua dignità. Paolo VI usava dire che la missione della politica resta una delle forme più alte di carità. Oggi il problema della politica - non parlo solo dell'Italia ma di tutti i Paesi, il problema è mondiale - è che si è svalutata, rovinata dalla corruzione, dal fenomeno delle tangenti. Mi viene in mente un documento che hanno pubblicato i vescovi francesi 15 anni fa. Era una lettera pastorale che si intitolava: Riabilitare la politica e affrontava proprio questo argomento. Se non c'è servizio alla base, non si può nemmeno capire l'identità della politica».
Lei ha detto che la corruzione odora di putrefazione. Ha detto anche che la corruzione sociale è il frutto del cuore malato e non solo di condizioni esterne. Non ci sarebbe corruzione senza cuori corrotti. Il corrotto non ha amici ma utili idioti. Ce lo spiega meglio? «Ho parlato due giorni di seguito di questo argomento perché commentavo la lettura della Vigna di Nabot. A me piace parlare sulle letture del giorno. Il primo giorno ho affrontato la fenomenologia della corruzione, il secondo giorno di come finiscono i corrotti. Il corrotto, comunque, non ha amici, ma ha solo complici».
Secondo lei si parla così tanto della corruzione perché i mass media insistono troppo sull'argomento, o perché effettivamente si tratta di un male endemico e grave? «No, purtroppo è un fenomeno mondiale. Ci sono capi di Stato in carcere proprio per questo. Mi sono interrogato molto, e sono arrivato alla conclusione che tanti mali crescono soprattutto durante i cambi epocali. Stiamo vivendo non tanto un'epoca di cambiamenti, ma un cambio di epoca. E quindi si tratta di un cambio di cultura; proprio in questa fase emergono cose del genere. Il cambiamento d'epoca alimenta la decadenza morale, non solo in politica, ma nella vita finanziaria o sociale».
Anche i cristiani sembrano non brillare per testimonianza... «È l'ambiente che facilita la corruzione. Non dico che tutti siano corrotti, ma penso sia difficile rimanere onesti in politica. Parlo dappertutto, non dell'Italia. Penso anche ad altri casi. A volte vi sono persone che vorrebbero fare le cose chiare, ma poi si trovano in difficoltà ed è come se venissero fagocitate da un fenomeno endemico, a più livelli, trasversale. Non perché sia la natura della politica, ma perché in un cambio d'epoca le spinte verso una certa deriva morale si fanno più forti». A lei spaventa più la povertà morale o materiale di una città? «Mi spaventano entrambe. Un affamato, per esempio, posso aiutarlo affinché non abbia più fame, ma se ha perso il lavoro e non trova più occupazione, ha a che fare con un'altra povertà. Non ha più dignità. Magari può andare alla Caritas e portarsi a casa un pacco viveri, ma sperimenta una povertà gravissima che rovina il cuore. Un vescovo ausiliare di Roma mi ha raccontato che tante persone vanno alla mensa e di nascosto, piene di vergogna, portano a casa del cibo. La loro dignità è progressivamente depauperata, vivono in uno stato di prostrazione».
Per le strade consolari di Roma si vedono ragazzine di appena 14 anni spesso costretta a prostituirsi nella noncuranza generale, mentre nella metro si assiste all'accattonaggio dei bambini. La Chiesa è ancora lievito? Si sente impotente come vescovo davanti a questo degrado morale? «Provo dolore. Provo enorme dolore. Lo sfruttamento dei bambini mi fa soffrire. Anche in Argentina è la stessa cosa. Per alcuni lavori manuali vengono usati i bambini perché hanno le mani più piccole. Ma i bambini vengono anche sfruttati sessualmente, in alberghi. Una volta mi avvertirono che su una strada di Buenos Aires c'erano ragazzine prostitute di 12 anni. Mi sono informato ed effettivamente era così. Mi ha fatto male. Ma ancora di più vedere che si fermavano auto di grossa cilindrata guidate da anziani. Potevano essere i loro nonni. Facevano salire la bambina e la pagavano 15 pesos che poi servivano comprare gli scarti della droga, il "pacco". Per me sono pedofili queste persone che fanno questo alle bambine. Succede anche a Roma. La Città eterna che dovrebbe essere un faro nel mondo è specchio del degrado morale della società. Penso siano problemi che si risolvono con una buona politica sociale».
Che cosa può fare la politica? «Rispondere in modo netto. Per esempio con servizi sociali che seguono le famiglie a capire, accompagnandole ad uscire da situazioni pesanti. Il fenomeno indica una deficienza di servizio sociale nella società». La Chiesa però sta lavorando tantissimo... «E deve continuare a farlo. Bisogna aiutare le famiglie in difficoltà, un lavoro in salita che impone lo sforzo comune».
A Roma sempre più giovani non vanno in chiesa, non battezzano i figli, non sanno nemmeno farsi il segno della Croce. Che strategia serve per invertire questo trend? «La Chiesa deve uscire nelle strade, cercare la gente, andare nelle case, visitare le famiglie, andare nelle periferie. Non essere una chiesa che riceve soltanto, ma che offre». E i parroci non devono mettere i bigodini alle pecore... (Ride)«Ovviamente. Siamo in un momento di missione da una decina d'anni. Dobbiamo insistere». La preoccupa la cultura della denatalità in Italia? «Penso si debba lavorare di più per il bene comune dell'infanzia. Mettere su famiglia è un impegno, a volte non basta lo stipendio, non si arriva alla fine del mese. Si ha paura di perdere il lavoro o di non potere più pagare l'affitto. La politica sociale non aiuta. L'Italia ha un tasso bassissimo di natalità, la Spagna lo stesso. La Francia va un po' meglio ma è bassa anche lei. E' come se l'Europa si fosse stancata di fare la mamma, preferendo fare la nonna. Molto dipende dalla crisi economica e non solo da una deriva culturale improntata all'egoismo e all'edonismo. L'altro giorno leggevo una statistica sui criteri di spesa della popolazione a livello mondiale. Dopo alimentazione, vestiti e medicine, tre voci necessarie, seguono la cosmetica e le spese per animali domestici».
Contano più gli animali che i bambini? «Si tratta di un altro fenomeno di degrado culturale. Questo perché il rapporto affettivo con gli animali è più facile, maggiormente programmabile. Un animale non è libero, mentre avere un figlio è una cosa complessa». Il Vangelo parla di più ai poveri o ai ricchi per convertirli? «La povertà è al centro del Vangelo. Non si può capire il Vangelo senza capire la povertà reale, tenendo conto che esiste anche una povertà bellissima dello spirito: essere povero davanti a Dio perché Dio ti riempie. Il Vangelo si rivolge indistintamente ai poveri e ai ricchi. E parla sia di povertà che di ricchezza. Non condanna affatto i ricchi, semmai le ricchezze quando diventano oggetti idolatrati. Il dio denaro, il vitello d'oro».
Lei passa per essere un Papa comunista, pauperista, populista. L'Economist che le ha dedicato una copertina afferma che parla come Lenin. Si ritrova in questi panni? «Io dico solo che i comunisti ci hanno derubato la bandiera. La bandiera dei poveri è cristiana. La povertà è al centro del Vangelo. I poveri sono al centro del Vangelo. Prendiamo Matteo 25, il protocollo sul quale noi saremo giudicati: ho avuto fame, ho avuto sete, sono stato in carcere, ero malato, ignudo. Oppure guardiamo le Beatitudini, altra bandiera. I comunisti dicono che tutto questo è comunista. Sì, come no, venti secoli dopo. Allora quando parlano si potrebbe dire loro: ma voi siete cristiani» (ride).
Se mi permette una critica.. «Certo...» Lei forse parla poco delle donne, e quando ne parla affronta l'argomento solo dal punto di vista del maternage, la donna sposa, la donna madre, eccetera. Eppure le donne ormai guidano Stati, multinazionali, eserciti. Nella Chiesa, secondo lei, le donne che posto occupano? «Le donne sono la cosa più bella che Dio ha fatto. La Chiesa è donna. Chiesa è una parola femminile. Non si può fare teologia senza questa femminilità. Di questo, lei ha ragione, non si parla abbastanza. Sono d'accordo che si debba lavorare di più sulla teologia della donna. L'ho detto e si sta lavorando in questo senso».
Non intravede una certa misoginìa di fondo? «Il fatto è che la donna è stata presa da una costola.. (ride di gusto). Scherzo, la mia è una battuta. Sono d'accordo che si debba approfondire di più la questione femminile, altrimenti non si può capire la Chiesa stessa». Possiamo aspettarci da lei decisioni storiche, tipo una donna capo dicastero, non dico del clero... (ride) «Beh, tante volte i preti finiscono sotto l'autorità delle perpetue...»
Ad agosto lei andrà in Corea. E' la porta per la Cina? Lei sta puntando sull'Asia? «In Asia andrò due volte in sei mesi. In Corea ad agosto per incontrare i giovani asiatici. A gennaio nello Sri Lanka e nelle Filippine. La Chiesa in Asia è una promessa. La Corea rappresenta tanto, ha alle spalle una storia bellissima, per due secoli non ha avuto preti e il cattolicesimo è avanzato grazie ai laici. Ci sono stati anche martiri. Quanto alla Cina si tratta di una sfida culturale grande. Grandissima. E poi c'è l'esempio di Matteo Ricci che ha fatto tanto bene...» Dove sta andando la Chiesa di Bergoglio? «Grazie a Dio non ho nessuna Chiesa, seguo Cristo. Non ho fondato niente. Dal punto di vista dello stile non sono cambiato da come ero a Buenos Aires. Sì, forse qualcosina, perché si deve, ma cambiare alla mia età sarebbe stato ridicolo. Sul programma, invece, seguo quello che i cardinali hanno chiesto durante le congregazioni generali prima del conclave. Vado in quella direzione. Il Consiglio degli otto cardinali, un organismo esterno, nasce da lì. Era stato chiesto perché aiutasse a riformare la curia. Cosa peraltro non facile perché si fa un passo, ma poi emerge che bisogna fare questo o quello, e se prima c'era un dicastero poi diventano quattro. Le mie decisioni sono il frutto delle riunioni pre conclave. Nessuna cosa l'ho fatta da solo».
Un approccio democratico... «Sono state decisioni dei cardinali. Non so se un approccio democratico, direi più sinodale, anche se la parola per i cardinali non è appropriata». Cosa augura ai romani per i Patroni San Pietro e Paolo? «Che continuino a essere bravi. Sono tanto simpatici. Lo vedo nelle udienze e quando vado nelle parrocchie. Auguro loro di non perdere la gioia, la speranza, la fiducia nonostante le difficoltà. Anche il romanaccio è bello». Wojtyla aveva imparato a dire, volemose bene, damose da fa'. Lei ha imparato qualche frase in romanesco? «Per ora poco. Campa e fa' campa'». (Naturalmente ride) *****************
Ciao a tutti
 
mpt2003
mpt2003 il 11/07/14 alle 08:09 via WEB
è un post da centellinare davvero , sia per la lunghezza che per l'importanza dei contenuti......da tenere tutta la settimana......ciao!
 
 
trampolinotonante
trampolinotonante il 15/07/14 alle 10:06 via WEB
difatti, cara mp!! è proprio quello il mio scopo. Non si può leggere d'un fiato, anche se son connvinto che sin possa leggere d'un fiato. Però è talmente denso che bisogna centellinare , come dici tu!" Grazie!
 
arw3n63
arw3n63 il 11/07/14 alle 18:24 via WEB
Quello sul Papa lo leggerò in un secondo momento. Sulla prima parte del post sono arrivata all'idea che le guerre vengono scatenate per motivi economici, di dominio, conquista territori e risorse o per difendere ideali di libertà e il proprio territorio di chi detiene il potere, raramente parte dal popolo e poi se si legge "Psicologia del Male" si comprendono anche certi meccanismi come l'obbedienza ad un'autorità ti porta a perpetrare malvagità ed azioni che in altre condizioni non avverrebbero. L'aggressività esiste in ogni essere umano ma penso che anche l'uomo primitivo combatteva per interessi, conquistarsi nuovi territori, nuove risorse e di conseguenza si veniva a creare una competizione tra clan e gruppi che sfociava in guerre.Ciao TT interessante il tuo post.
 
 
trampolinotonante
trampolinotonante il 15/07/14 alle 10:08 via WEB
cara Regina, hai compreso perfettamente!!! Tu pensi che solo i tedeschi potevano fare i campi di concentramento e bruciare 6 milioni di persone?? Nelle stesse condizioni psicologiche e ambientali, qualsiasi popolo avrebbe fatto la stessa cosa! Credimi!! homo homini lupus, disse quello e eveva ragione!
 
belf9
belf9 il 14/07/14 alle 15:05 via WEB
Proverò più tardi a leggere la pagia di Fromm e le parole di Papa Francesco. L'argomento è, purtroppo, di grande attualità :-(.
 
 
trampolinotonante
trampolinotonante il 15/07/14 alle 10:09 via WEB
e certo che è di grandissima attualità e lascia spazio e serissime rioflessioni!!!Grazie del passaggio, caro BELF!!! sei un amico
 
odio_via_col_vento
odio_via_col_vento il 14/07/14 alle 18:37 via WEB
Essere "tramortiti" forse è in linea col soggetto del post......:)
 
 
trampolinotonante
trampolinotonante il 15/07/14 alle 10:13 via WEB
Odioilvento!!! mi meravifli!!! tramortita una come te, abituata a ben altro, a spaziare concettualmente in campi culturali vastissimi e fisicamente nei posti più famosi al mondo?? Ma starai scherzando!!! questa per te dovrebbe esere robetta, quasi na nocciolina americana! Dico sul serio!!!se poi epr tramortiti intendi la serietà e la valenza concettuale dell'argomento, allora ti do ragione!! ma , torno a dire, che tu sei abituata a ben altro!!!grazie
 
Dolce.pa44
Dolce.pa44 il 16/07/14 alle 13:18 via WEB
Ciaoo ti volevo fare i complimenti per il blog :D ti segnalo il mio web se vuoi aggiungilo ai preferiti: dolce dormire beb palermo
 
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