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Dead men walkin'

Post n°563 pubblicato il 27 Aprile 2008 da CacciatricediSangue

-il giorno X (sabato)- pt.1

Arrivati a casa più o meno all’1 di notte, tra la preparazione degli zaini e le sistemazioni per dormire, si punta la sveglia alle 4 meno qualcosa…e il risultato drammatico è che l’unico a dormire è stato il gatto. 

Come cadaveri montiamo in macchina, direzione aeroporto. Non so nemmeno come ho fatto ad arrivarci perché ancora dormivo.

Alle 6 e 40 c’è il volo, noi siamo a 700 metri a piedi dal terminal B, sono le 4 e 40, c’abbiamo un sonno porco e siamo già stanchi. Ci incamminiamo lungo l’autostrada, dopo aver lasciato l’auto, e passetto passetto arriviamo al terminal B che ovviamente, a quell’ora, è chiuso (fuck fiumicino!) torniamo indietro, entriamo dal terminal C e passetto passetto strascicato, occhi abbottonati arriviamo alla prima tappa… il check in della lufthansa!
Con somma e immensa giuoia davanti a noi troviamo una scolaresca americana accampata davanti alle macchinette del check in elettronico (che io non ho mai fatto e in preda alla disperazione ho deciso che quello sarebbe stato il mio battesimo). La fila scorre lentamente, giunta davanti al check in elettronico testo i miei neuroni. Che non funzionano a quell’ora della mattina, ovviamente.

Check in elettronico? Un fallimento totale il primo tentativo…e avendo i passeggeri a mo di gufi col fiato sul collo lascio perdere e torno in fila. Fabio è già sull’orlo dell’addormentarsi in piedi, cerco di studiarmi gli americani davanti a noi per tenermi sveglia.

Fatto finalmente il check in e rimasti a metà sulla tragedia napoletana di una viaggiatrice, la sua valigia e una hostess, passiamo sotto il metal detector e andiamo alla ricerca di caffè e bagno, cosi nell’ordine preciso. E poi di corsa ai primi posti a sedere, avevamo un’ora di buco da riempire col sonno visto che il volo era in ritardo (a saperlo ci saremmo alzati un’ora dopo – fuck Fiumicino!-)

Giunta l’ora dell’imbarco, ci mettiamo in fila, e successivamente prendiamo posto in quello che sarebbe stato il nostro aereo. Dopo essersi assicurati che tra tutti i posti possibili a noi c’è toccata l’ala con tanto di reattore in bella vista, il sonno cominciava a farsi sentire. Non ricordo di aver dormito profondamente, ma quasi, tanto da non aver sentito le hostess mentre lasciavano il nostro futuro kit di sopravvivenza sul posto di fianco. Inutile dire che Fabio invece di andare sul sicuro si è preso un cappuccino gentilmente offerto dalla AirDolomiti che lo ha perseguitato, e forse lo sta ancora facendo, per tutto il viaggio.

Arrivati in terra crucca e accompagnati da un festoso diluvio, decidiamo di:

- ambientarsi

- capire dove siamo

- capire dove c’è la navetta che ci avrebbe portato a Monaco città (della quale mia madre si era dimenticata di stampare il ticket precedentemente acquistato col volo)

- capire se i tedeschi comprendessero il nostro italiano addormentato

- formulare un’eventuale frase in inglese nel caso in cui l’italiano sia lingua bandita dalla terra crucca

- aspettare che spiova

Al punto informazioni, chiedo se la signorina parla italiano, e quando mi rassicura dicendomi di sì tiro un sospiro di sollievo. Ci indica la strada per i bus e ci avviamo. Ma non ai bus. O meglio, ci avviciniamo, ma invece di uscire e prendere la navetta, optiamo per un riposino extra con la scusa della pioggia. Mando qualche messaggio rassicuratore sul nostro arrivo in Germania, ricevo una telefonata sbagliata nel posto sbagliato, mi guardo intorno e decido di andare a sondare il terreno mentre Fabio lentamente moriva sulla panchina dell’aeroporto…

Intorno le 11 e qualcosa ci facciamo coraggio e andiamo a prendere la navetta. Prossimo obbiettivo: recuperare una cartina di monaco dettagliata (non come quella del touring che mi tagliava le strade a metà) e che sia comprensiva delle varie linee di trasporto.

Pisolino inevitabile di Fabio sul bus, che (diamo colpa al rincoglionimento da sveglia), alla prima fermata della navetta, leggendo Parken (con tanto di bella P bianca su sfondo blu) se ne esce con “ah! Siamo arrivati?” e mi cascano le braccia…

Scesi finalmente alla fermata giusta, davanti alla stazione, non restava che cercare un qualcosa che somigliasse a una cartoleria, un tabacchino o simile che vendesse cartine.
Il vuoto del mio cervello faticava a funzionare tanto che “Come se dice cartina? Porca miseria!” “Map” (a volte i neuroni di Fabio mi spaventano), entro in un negozio di…non so che cosa ma aveva una marea di carta e chiedo una cartina della città.

Con quella in mano le paure svaniscono.

Ora non restava che impegnare il tempo da bravi turisti e immergerci nel Zentrum.

E cosi che, seguiti da una nuvoletta fantozziana, ci aggiriamo tra la massa di gente passeggiante, negozi di boccali, tazze e corni (sigh), tra banchetti di asparghel bianchi e peruviani, per arrivare a MarienPlatz.

Inutile dire che l’occhio mi casca sul draghetto appeso su di una facciata del palazzo cinquecentesco!

Insomma, tra una foto curiosa e una turistica, si fa l’ora di pranzo, e visto che non siamo riusciti a trovare la fantomatica birreria (altro motivo per tornare a Monaco), ci infiliamo all’interno del palazzo abbagliati dai menù esposti fuori, e dai ricordi sbiaditi di Fabio.

Entrando dentro rimango sbalordita. È un posto chichettoso! Tanto che in me si insinua il dubbio. I menu che avevamo visto erano stati aggiornati? Possibile mai che tutta quella gente in giacca e cravatta si facesse servire da camerieri vestiti di tutto punto wurstel e crauti? Quella che sembrava la direttrice ci chiede se siamo in due e ci intima a seguirla. Prima sala, seconda sala, terza sala…sto posto è immenso! E ci accompagna al tavolo.
C’è qualcosa di strano, di diverso direi. Dov’è finito il locale che abbiamo visto all’ingresso? Le sedie in velluto? l’atmosfera chic? Poi sento urlare qualcosa in napoletano, alzo lo sguardo e vedo una tavolata di turisti. Ora capisco. Siamo nell’ala turistica con tovagliette rustiche, panche e soprattutto menù turistico in inglese con tanto di foto. Ora i conti tornano.

Quando arriva il cameriere, ci rivolge una domanda in tedesco, cerco di rispondere in inglese che ancora non avevamo scelto, chiedo a Fabio se avesse una mezza idea di cosa prendere e il cameriere impietosito: ”vabbè posso intanto chiedere cosa bevete?”

Con l’arrivo della birra ordiniamo titubanti i piatti fotografati sul menu dai nomi impronunciabili.
Dalla foto sembrava un piatto di fettuccine in brodo, dalla didascalia (meet consommè) sapevo che era brodo di carne. Quando arriva scopro che non erano fettuccine, ma una specie di crepes tagliate fine fine. Piatto particolare, commestibile. Il problema è arrivato con le salsicce. Sapevo che erano speziate ma non cosi! Alla prima mi si è ustionata la lingua. Alla seconda pure, con la terza salsiccetta ormai la bocca era diventata d’amianto. Mentre cercavo di capire come fossero fatte le patate che accompagnavano il mio piatto, sommerse di salsa e pezzi di cipolla, Fabio lottava con il suo di piatto. Calcolando che il cappuccino in aereo aveva creato piccoli problemi al suo stomaco, le spezie hanno fatto il resto.

Ma siamo ancora vivi, quindi niente veleno nei piatti crucchi.

Cerchiamo di restare il più possibile nel ristorante per evitare di vagare ancora per Monaco visto lo stato cadaverico che ci accompagnava e la stanchezza sulle spalle. Dopo il caffè, vedo tornare il cameriere, osservarci, e poi tornare indietro. Passato un quarto d’ora si rifà avanti, e alla nostra richiesta del conto lui ce lo porge direttamente dal taschino. Che voleva per caso mandarci via?? -_-‘

Ora dovevamo riempire il vuoto temporale. Troppo presto per raggiungere il locale, il vikingo, che avremmo ritrovato al locale, doveva ancora passare il confine.

Soluzione? Prendersi una sedia osservare l’interno del palazzo e fingersi morti cercando di accaparrarsi quel poco sole che ogni tanto spuntava tra le nuvole. Il vento però non ci aiutava.

Dopo aver contato le finestre, aver cercato le differenze tra un lato e l’altro del palazzo, dopo aver fatto con la mente il labirinto disegnato sul pavimento e, soprattutto, dopo aver capito di aver preso anche troppo freddo, decidiamo di alzare le chiappe e dirigerci al Backstage.

Usciamo da Marienplatz e ci avviamo verso la stazione, dove avremmo dovuto prendere la metro, o il trenino, o quello che era, che ci avrebbe portato nelle vicinanze del locale.

Scendiamo nel sottopassaggio e ci dirigiamo davanti alle macchinette automatiche per i biglietti. Piccolo problema. Io sono abituata alle metro romane, Fabio non è riuscito a farsi fare il biglietto giusto alla stazione di Bologna, e davanti a noi avevamo delle macchine infernali piene di tasti, tastini e codici. Lasciamo passare avanti chi aveva più confidenza con quelle cose, e lontano da sguardi indiscreti, ormai da soli, ci accingiamo a premere a casaccio i tasti sperando di trovare quello giusto. Il primo tentativo fallisce, ci da la possibilità di acquistare un biglietto per una tratta da 16 euro. Il secondo peggio ancora, ci da l’abbonamento giornaliero da 32. dopo aver capito che, troppi erano i tasti per sperare di trovare quello giusto, sapendo che il locale distava da li più o meno 5 kilometri, optiamo per il caro e vecchio taxi.

Con 10 euro siamo li davanti! Finalmente! Nel frattempo il vikingo aveva oltrepassato il confine con i suoi compagni di viaggio, lo aggiorno su dove fosse il posto, e dopo essersi rifocillato, ci avrebbe raggiunti.

Ci raggiunge uno dello staff e ci fa sapere che il Pagan Fest si sarebbe tenuto poco più giù e ci indica la strada.
Ci incamminiamo e, ovviamente, spunta il sole (bastardo).

Beh ora eravamo dove dovevamo essere. Non restava che attendere l’apertura dei cancelli…

 
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