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Post n°3300 pubblicato il 28 Settembre 2014 da ninograg1
dal blog cambiare il mondo di G.Z. Karl Le ragioni della sconfitta militare ucraina Riguardo alla sconfitta delle forze ucraine, perché di ciò si deve parlare, è doveroso premettere che un’analisi militare è oltremodo difficile. I fatti sono stati oscurati dalla propaganda di guerra proveniente da entrambi i lati e, inoltre, non esistono documenti seri e certi relativi alle forze in campo, ai loro movimenti, alla loro organizzazione e così via. Bisognerà, cioè, rifarsi ai fatti per come sono accaduti e per come sono stati riportati (in occidente, al solito, molto malamente dalla nostra stampa). Partiamo dalla situazione antecedente al conflitto. Col referendum dei mesi scorsi, la Crimea passa alla Russia, che fa sentire il peso della sua forza militare scacciando le truppe ucraine dal territorio della Crimea, sia pure senza sparare praticamente un colpo. Dopodiché è la volta delle province russofone del Donbass a tenere referendum per l’indipendenza e la successiva adesione alla Federazione Russa, che però non ha luogo poiché la Russia preferisce una strategia gradualistica e di guerra a bassa intensità. All’inizio di giugno scatta così l’operazione antiterrorista del governo ucraino. Con l’inizio delle attività belliche il 4 giugno scorso, Poroshenko presume di poter riconquistare in un mese e poco più di tempo il Donbass, regione strategica per l’Ucraina specialmente dal punto di vista economico trattandosi a tutt’oggi di un notevole bacino carbonifero, le cui risorse sono indispensabili alla dissestata economia ucraina. Perché in un mese e poco più? Perché la storia ci insegna, da ultimo con l’offensiva tedesca del 1941 in URSS e i rovesci che poi ne seguirono, che il tempo dei combattimenti in quella regione del mondo è solo l’estate. Già in ottobre, infatti, con i primi acquitrini, le truppe di terra finiscono inevitabilmente per impantanarsi. Ecco perché Poroshenko scatena il prima possibile l’offensiva. Perché sa che deve chiuderla al più presto, non disponendo di una finestra temporale lunga prima dell’arrivo delle piogge. Peraltro, egli sa bene che attaccare subito gli offre il vantaggio di contare sull’impreparazione dei filorussi. Questi sono gli elementi a favore di Poroshenko. In più, almeno stando a quanto riportato in occidente, egli dispone di una forza militare di gran lunga superiore a quella male armata, male organizzata e improvvisata dei filorussi, giacché le forze armate ucraine dovrebbero comprendere almeno 800.000 uomini (ma ripetiamo che non esistono cifre ufficiali verificabili). Questo è il calcolo che spinge Poroshenko all’offensiva. Senonché, sarà proprio questo calcolo la sua tomba militare. Le forze armate ucraine spingono sull’acceleratore nel corso del mese di giugno e nella prima metà di luglio i giornali occidentali, tra cui quelli italiani, annunciano trionfalmente che la guerra sta per finire perché gli ucraini ormai stanno per accerchiare e prendere definitivamente Donetsk e Lugansk. Dopo l’intermezzo dell’abbattimento del volo malesiano i combattimenti riprendono furiosi, ma questa volta sono i filorussi a passare alla controffensiva e a sbaragliare le forze di Kiev. Cos’è successo e soprattutto cos’è accaduto che i giornali (anche italiani) non ci hanno spiegato o voluto spiegare? Innanzitutto, occorre ricordarsi sempre che, come insegnava von Clausewitz, ogni guerra ha un suo punto “culminante”, il momento cioè in cui i rapporti di forza si rovesciano. Per intendersi e restare in “zona”, la battaglia di Stalingrado fu il punto culminante della seconda guerra mondiale. Ora, il punto culminante non si verifica per mera casualità, bensì per ragioni ben precise e tutte razionali (anche se agli occhi della stampa occidentale queste o si producono perché esistono le streghe che gettano il malocchio o perché il russo è un orco brutto e cattivo). Vediamo, allora, cosa può essere successo. Sicuramente, le forze militari ucraine, benché preponderanti rispetto alle forze filorusse (godendo peraltro del supporto delle forze aeree), non erano in realtà così numerose e ben armate come la propaganda voleva far intendere. Stando a stime un po’ più realistiche, le truppe effettivamente pronte al combattimento erano, molto probabilmente, pari solo a 40.000 uomini. Come si vede, non certo un gran numero, specie in rapporto a una regione estesa come il Donbass e soprattutto in relazione alla sua conformazione geografica. Di qui l’invio di truppe volontarie e anche di forze paramilitari riconducibili ai partiti Svoboda e Settore Destro, vale a dire forze politiche di chiaro orientamento di estrema destra. Qui veramente ormai non stupisce più la doppia morale dell’occidente. A Poroshenko si permette di inviare forze paramilitari di questo tipo per riconquistare il Donbass, quando Milosevic, a suo tempo dipinto come un nazista, non ha mai impiegato in Kosovo forze paramilitari usando per la repressione le forze del Ministero dell’Interno jugoslavo (e poi serbo). Le truppe irregolari serbe, specie di Arkan, operavano infatti in Croazia e Bosnia, tra il 1992 e il 1995, e non in Kosovo, e oltretutto non si trovavano sotto il comando del Governo di Belgrado, come riconosciuto dalla Corte Internazionale di Giustizia nella sua sentenza nel caso Bosnia contro Serbia. Già l’impiego di forze paramilitari, e quindi di fanatici ma non certo di professionisti, rivela lo stato di difficoltà in cui versavano e versano le forze armate ucraine. Queste forze che disponevano comunque della superiorità aerea arrivano alle porte delle due città menzionate prima, ma non riescono a quanto sembra né a chiudere mai l’accerchiamento né tantomeno a entrare nelle città. Difatti, per alcune settimane non faranno altro che colpirle da lontano con l’artiglieria. Perché ciò? Qui la ragione è da un lato direttamente militare e dall’altro lato è logistica. Direttamente militare perché evidentemente, dopo un mese e mezzo di combattimenti condotti da truppe scarse e malarmate, gli assedianti di Donetsk e Lugansk non ce la fanno più fisicamente. D’altronde, se questi erano gli effettivi, in assenza di turnover è del tutto ovvio che esse iniziassero a dare, come hanno dato, segnali di cedimento. Il problema era poi aggravato da altri fattori: 1) la lontananza dal centro dell’Ucraina; 2) il dover combattere su due fianchi; 3) un sistema economico fragile. Detto sinteticamente, premesso ancora una volta che il turnover delle truppe ucraine doveva essere praticamente assente date peraltro le distanze tra il Donbass e i quartieri centrali di comando ucraino, la lontananza dal cuore del paese ha tagliato le gambe alle scarse forze armate ucraine dal momento che ne ha reso viepiù difficile, a mano a mano che ci si allontanava verso est, i rifornimenti logistici. L’Ucraina infatti è un territorio vastissimo, in special modo quando le truppe messe in campo sono poche e malarmate. Queste forze, poi, non hanno dovuto combattere una guerra su due fronti. Questa presuppone, per esempio, un confronto militare contemporaneamente a est e a ovest. Ma di certo esse si sono trovate in una situazione assimilabile, dovendo combattere su due fianchi lontani l’uno dall’altro (Donetsk e Lugansk), con ciò disperdendo forze ed energie, già assai poco ampie e logorate progressivamente, che non potevano essere concentrate su un obiettivo solo (come avviene per l’appunto anche nella guerra su due fronti). A ciò va sommata la fragilità dell’economia ucraina in questo momento che non permette affatto uno sforzo bellico prolungato con la crisi economica in corso. Ogni sforzo militare di questo tipo richiede, oggi, una economia preparata alla guerra e quella ucraina era ben lungi dal potersi dire pronta ad affrontarne una. Come si vede, quindi, le condizioni militari di partenza erano, per Poroshenko, solo all’apparenza favorevoli. Esse potevano, in altri termini, dirsi favorevoli, per di più in assenza di rifornimenti da parte occidentale, solo a patto di concludere nel giro di pochissimo tempo il conflitto. Dall’altro lato, le forze militari di Novarussia erano sicuramente messe ancora peggio delle forze ucraine, non disponevano di aerei ed erano improvvisate. Ma avevano alcuni fattori a loro vantaggio: 1) giocavano in “casa”; 2) non avevano nulla da perdere giacché per loro la repressione ucraina significava solo oppressione e perdita di libertà; 3) guerreggiavano su un fronte per loro più compatto; 4) erano vicinissime alla linea di rifornimento rappresentata dal confine russo; 5) potevano giocare col turnover delle truppe, perché da quanto si è capito, sebbene numericamente inferiori, le truppe filorusse venivano mandate aldilà del confine a riposare per poi rientrare a combattere e, in questo modo, potevano avere la meglio su truppe superiori in uomini ma molto più stanche; 6) avevano un apparato economico e bellico di rifornimento come quello russo alle spalle. È chiaro, in ogni modo, che i russi sono scesi in campo a combattere a fianco di Novarussia. Ma va detto che ciò non hanno fatto in modo scomposto, bensì mimetizzandosi e con numeri limitati ma bastevoli a fronteggiare paritariamente gli ucraini, in maniera tale da evitare l’accusa di un’aggressione diretta. Di più, i russi hanno fornito, è evidente, il supporto necessario a neutralizzare l’aviazione militare ucraina, offrendo per un verso l’armamento antiaereo necessario alle truppe filorusse sul terreno e, per altro verso, guidando da poco di là del confine, dai propri centri radar, le forze della difesa antiaerea di Novarussia nell’individuazione e nell’abbattimento dei caccia militari ucraini. Bisogna altresì aggiungere un dettaglio molto significativo dal punto di vista strategico militare. Il conflitto si è giocato dovendosi tenere a mente quattro punti: Donetsk, Lugansk, la Crimea e il territorio ucraino che dalla Crimea si spinge al confine russo verso est, con in mezzo Azov. In questo quadrilatero, ovverosia tra i due fianchi del combattimento in cui le truppe ucraine erano impegnate si è aperto, con ogni evidenza, un buco enorme (per loro) in cui le truppe filorusse si sono buttate per arrivare fino al Mare di Azov, creando così una sorta di “testa di ponte” tra la Crimea e il resto del territorio russo e chiudendo definitivamente agli ucraini ogni possibilità di vittoria, tanto da finire, a propria volta, accerchiati. Non a caso, infatti, subito dopo Poroshenko ha chiuso un accordo per la tregua militare e la cessazione delle ostilità, ben cosciente della propria disfatta militare (e di riflesso politica).
I prossimi scenari Dietro la sconfitta di Poroshenko si staglia la figura di Vladimir Putin, assieme al suo staff e al suo Stato Maggiore militare. Del resto, non v’erano dubbi attorno al fatto che Putin e i suoi fossero persone dal sangue freddo, preparate, pazienti e tenaci e soprattutto dotate di orgoglio nazionale e di desiderio di rivincita dopo la disfatta russa degli anni ’90 del secolo scorso. Ciò avevano già dimostrato in occasione della crisi siriana del 2013, a seguito della quale gli occidentali avevano voluto prendersi la loro rivincita facendo esplodere, in nome dell’europeismo, la crisi ucraina. Quest’ultima crisi ha rivelato, da una parte, lo stato di prostrazione delle “potenze occidentali” e, dall’altro, la capacità della Russia di giocare un ruolo sullo scenario internazionale anche in termini di “confrontation”. Certo, la Russia e Putin hanno sfruttato tutti i margini concessi dalla situazione politica internazionale: 1) lo stato di acuta difficoltà economica in occidente; 2) il continuo delle tensioni in Medio Oriente che obbliga la marina degli USA a tenere una parte delle proprie forze bloccate nel Golfo Persico; 3) il progressivo aumentare delle tensioni in Asia che ha costretto buona parte della flotta USA a concentrarsi nelle acque tra le Filippine e il Giappone in virtù degli obblighi militari che gli USA hanno con i paesi della zona in caso di minaccia cinese o nordcoreana; 4) il tutto mentre sempre gli USA sono costretti a parcheggiare una propria parte della flotta a presidio della costa occidentale e della costa orientale del paese onde prevenire nuovi attacchi in stile 11 settembre. Di qui, con ogni evidenza, l’impossibilità principalmente per gli USA di muoversi a sostegno di Poroshenko, per via del fatto di essere ormai allo stremo delle forze militari e nell’impossibilità in questa fase di puntare a una guerra con un sistema economico in pessime condizioni. Questo è il contesto mondiale in cui si è inserita la crisi ucraina. È interessante ora vedere quali riflessi avrà l’esito del conflitto. La situazione immaginata da Putin, a quanto sembra, pare assimilabile, a prima vista, a quella del Kosovo. Un conflitto non troppo prolungato, seguito da una fase di stabilizzazione sul terreno che, col tempo, porti poi al distacco formale delle regioni russofone in vista della loro definitiva adesione alla Federazione Russa (in fondo, neanche per il Kosovo è tuttora preclusa questa strada, ovvero della “riunificazione” con la madre terra albanese, il che rischierebbe di portare a un nuovo conflitto balcanico, ma questa volta provocato dal nazionalismo albanese). Il calcolo di Putin è evidente: a) appropriarsi delle terre nazionali russe localizzate nei confini ucraini; b) impossessarsi delle risorse carbonifere del Donbass; c) spingere ciò che resterebbe dell’Ucraina occidentale verso le fauci dell’occidente. Quest’ultimo aspetto può sembrare paradossale. Eppure, è lecito sospettare che proprio questo fosse e sia tuttora il calcolo politico di Putin. Si potrebbe obiettare che, così facendo, l’Ucraina occidentale entrerebbe nella NATO e i russi si ritroverebbero col nemico alle porte. Questa posizione è apparentemente logica ma non tiene conto di alcuni fattori, segnatamente del fatto che, una volta amputata di un pezzo (peraltro economicamente rilevante), l’Ucraina occidentale si ritroverebbe non a chiedere l’ingresso nella NATO e nella UE, bensì si ritroverebbe alla loro mercé. Per di più, l’amputazione dell’Ucraina ben potrebbe risvegliare, se non ha già risvegliato, gli appetiti nazionalistici di Polonia, Ungheria e Romania. Con l’esplodere della crisi ucraina, difatti, sono tornati fuori nomi che sembravano scomparsi dai radar internazionali, vale a dire Galizia, Bucovina, Bessarabia, Rutenia subcarpatica. Si tratta di regioni, tutte queste, che hanno formato oggetto di un lungo contenzioso sulla sistemazione dei confini nell’Europa centrale e orientale almeno fino alla seconda guerra mondiale. Già il partito di estrema destra ungherese, Jobbik, che alle elezioni nazionali è riuscito ad arrivare al 20% dei voti è tornato a sollevare la questione della minoranza ungherese nella Rutenia subcarpatica. Più sopite sono state, invece, le reazioni polacche e rumene e ciò per comprensibili ragioni. Perché la Polonia, tuttora, confina direttamente con la Russia (nell’exclave di Kaliningrad) e, perciò, tra la minaccia dell’orso russo e la volontà di espansione territoriale verso la Galizia deve necessariamente avere come priorità il contenimento dei russi. Perché nella stessa situazione si trova, in pratica, la Romania che confina con la Moldova, mentre le truppe russe si trovano nella provincia separatista della Transnistria (appunto in Bessarabia). In questo quadro, traspira dalle mosse di Putin un’idea di fondo, vale a dire quella di puntare a risvegliare i nazionalismi ormai sempre meno latenti e sempre più evidenti in quelle regioni per provocare, di conseguenza, una dissoluzione del quadro europeo. Dissoluzione che, d’altro canto, potrebbe essere favorita dalla rottura della zona euro, elemento, questo, che Putin avrà, con ogni probabilità, considerato all’interno della sua cornice strategica di azione. Anche questo elemento, aldilà delle apparenze, può contribuire a spiegare la reticenza con cui l’Unione Europea ha accolto l’idea di un’integrazione rapida dell’Ucraina al suo interno, essendo del tutto palese che un simile processo potrebbe segnare l’inizio della fine dell’Unione specialmente nell’Europa orientale attraverso la riapertura di discussioni che soltanto all’apparenza sono chiuse, ossia le discussioni sui confini in Europa che, come dimostra la guerra in Ucraina, non sono intangibili. Ciò posto, appare più che mai complicato rimettere assieme i cocci delle relazioni con la Russia. Non vi sono dubbi in ordine al fatto che, giocoforza, una parte di questi cocci vada ricomposta, tenuto conto dell’ampiezza delle relazioni commerciali con la Russia e dell’importanza strategica delle sue forniture energetiche all’Europa. Ciò non toglie, però, che le relazioni UE-Russia siano andate peggiorando in maniera duratura a causa del carattere fortemente antirusso delle attuali elite europee, che vedono in Putin, e nel suo governo, una sorta di mostro bifronte zarista-stalinista a carattere tipicamente autocratico e illiberale. In conclusione, è appena il caso di rilevare che da questa crisi potrebbe scaturire una stasi nei rapporti tra Russia e UE molto duratura nel tempo, parallelamente a quella che sarà la fase di congelamento della crisi ucraina e fintantoché essa non avrà termine con la definitiva separazione delle province “ribelli” e la loro adesione alla Russia. Frattanto, però, la Russia non starà affatto ferma, rivolgendo lo sguardo verso oriente e cercando di diventare sempre più protagonista sullo scacchiere asiatico, venendosi così ad aggiungere un ulteriore elemento di tensione in una polveriera. Il tutto mentre l’Europa, crisi dell’euro o meno, diventerà ancor meno rilevante di prima. p.s. l'analisi è puntuale.... ma aggiungo solo che è molto probabile che ci sia stato uno scambio, non dichiarato, fra putin e obama: il primo si prende la parte est dell'ucraina il secondo fa quello che vuole in iraq e siria anche perchè gli estremisti li ha finanziati lui o chi per esso quando si doveva combattere Assad |
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