GABER 2; COMPLEANNO
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Post n°3349 pubblicato il 01 Dicembre 2014 da ninograg1
Fonte: Il Fatto Quotidiano di Alberto Bagnai | 30 novembre 2014 L’Italia può farcela, e può farcela da sola. Ma intendiamoci bene: “da sola” significa sciolta da un vincolo monetario che, per i suoi errori di progetto (ammessi dallo stesso vicepresidente della Bce, come abbiamo visto), che si traducono nell’atteggiamento schizoide rispetto al ruolo di Stato e mercato su cui ci siamo lungamente soffermati, sta portando un intero continente al suicidio. Sarebbe “retorica europeista di maniera”, come diceva il presidente Napolitano nel 1978, assimilare la scelta strategica di recuperare sovranità e flessibilità a un’opposizione al progetto europeo. Non si tratta di opporsi all’“Europa”. Non si tratta di mollare gli ormeggi e vagare per il Mediterraneo (dove, fra l’altro, tutto saremmo tranne che soli, anche per effetto delle lungimiranti politiche di questa Europa che porta la pace, e che ha contribuito a trasformare la fascia costiera meridionale del Mare nostrum in un focolaio di disperazione e morte, lasciando a noi, e solo a noi, l’incombenza di gestirne le inevitabili conseguenze umanitarie: basti pensare alla vicenda libica, nella quale gli interessi del nostro paese e, visti i risultati, delle stesse popolazioni coinvolte, sono stati fortemente compromessi da iniziative di altri paesi, non particolarmente coordinate a livello europeo). Si tratta di riconoscere che l’“Europa” non funziona perché non può funzionare, perché le élite che l’hanno costruita hanno dichiarato guerra non solo alle classi subalterne, ma anche e soprattutto alla logica (economica e politica). Si tratta di prendere atto di questo errore e di trarne le conclusioni, che poi sono quelle a cui il Nobel James Meade era già arrivato nel 1957: finché persisteranno disparità strutturali rilevanti fra i Paesi europei, di tale entità per cui sia utopistico ovviare con dei trasferimenti, un percorso ordinato di integrazione economica e politica richiede che si mantenga la flessibilità dei cambi nazionali. I trasferimenti necessari per riportare un minimo di equilibrio strutturale in Europa sarebbero di un ordine di grandezza politicamente insostenibile per la Germania. Nessuno, fra l’altro, constata mai il rovescio della medaglia: se da un lato una politica di trasferimenti è improponibile per il Nord, che non vuole pagare, c’è da chiedersi quanto sia politicamente proponibile chiedere al Sud di vivere perennemente con il cappello in mano, mendicando sua vita frusto a frusto, e questo quando esiste da sempre la certezza tecnica, e ormai da un po’ anche la consapevolezza diffusa, che italiani, spagnoli, greci, portoghesi, potrebbero vivere benissimo a modo loro a casa loro, come hanno fatto per millenni, con risultati spesso superiori a quelli raggiunti dai cugini del Nord. Siamo proprio sicuri che gli italiani, nonostante gli sforzi titanici della propaganda autorazzista condotta dagli Scalfari, dai de Bortoli, dai Napoletano, accetterebbero questa vita da pezzenti? E siamo sicuri che chiedere l’altrui misericordia sia l’atteggiamento politico corretto per farsi rispettare in Europa? Notate anche l’amaro dettaglio che, come sempre, fa la delizia, o in questo caso il disgusto, dell’intenditore. Meade parlava di maggior ricorso alla flessibilità del cambio come strumento difensivo nei riguardi di comportamenti ostruzionistici da parte della Germania (ecce hoc novum est!), e ne parlava nel 1957, quando il regime di cambi fissi (ma aggiustabili) di Bretton Woods era in pieno vigore e Triffin non ne aveva ancora evidenziato le incoerenze, le aporie logiche. In una temperie culturale in cui era egemone l’idea della rigidità, Meade indicava chiaramente, senza troppe formule, ma con il giusto quantitativo di logica, il da farsi: ricorrere alla flessibilità. Oggi, nel momento in cui l’egemonia culturale della rigidità si sgretola a livello mondiale, nel momento in cui perfino il Fondo monetario internazionale interviene a chiarire che il progetto di cambio fisso europeo è in controtendenza e creerà problemi, nel momento in cui ciò che Meade vedeva si sta realizzando, noi, qui, continuiamo a considerare tabù quello che da sempre (anche sotto il gold standard) è stato un normale strumento di regolazione degli squilibri: lasciare che un Paese abbia, nel bene e nel male, una valuta che rifletta i risultati economici della sua comunità nazionale. A questo scopo è essenziale che si capisca che il ripristino di un minimo di razionalità economica, il ripristino della flessibilità buona, il seguire (anziché l’opporsi) alle grandi correnti della storia, che quella direzione indicano, è l’unica possibilità che abbiamo per tentare un percorso di mediazione degli interessi in gioco, sia a livello nazionale che a livello internazionale, ed evitare un conflitto catastrofico. Questo perché una razionale gestione dei rapporti internazionali richiede, come abbiamo osservato parlando del tracollo di Bretton Woods, che gli scambi siano gestiti in modo da garantire un sostanziale equilibrio nel lungo periodo, evitando l’accumulazione di sbilanci persistenti. Allo stato attuale l’istituzione più semplice da implementare per contribuire a questo processo in seno all’Unione europea è il ripristino di una naturale flessibilità del cambio fra Paesi membri, almeno finché questi avranno diversi mercati del lavoro (mentre, di converso ogni tentativo di introdurre il cambio fisso in Europa è sfociato in una crisi, prima nel 1992, e poi nel 2008). Se si ritiene, come chi scrive, che l’integrazione economica europea sia un valore da perseguire, il percorso giusto è ancora oggi quello che ci additavano gli economisti degli anni Cinquanta e Sessanta: abolita l’aberrante integrazione monetaria, ricominciare dall’integrazione delle economie reali, cioè dei mercati del lavoro, dei sistemi previdenziali, dei sistemi educativi, mantenendo fra le economie nazionali quei normali presidi dati dall’autonomia delle politiche fiscali, monetarie e valutarie. Cooperazione e coordinamento possono realizzarsi anche senza integrazione, ma non senza volontà politica. Un eventuale successo di simili meccanismi di coordinamento, fra i quali quelli che abbiamo elencato, consolidato in un periodo di tempo sufficientemente lungo, garantirebbe di poter procedere verso forme di integrazione economica più penetrante, fra le quali forse anche quella monetaria, che però, fra economie allineate nei fondamentali (e quindi non sottoposte a reciproche oscillazioni dei cambio di ampiezza preoccupante), diventerebbe, come ci siamo già detti, sostanzialmente inutile. Un eventuale insuccesso di questa sperimentazione, viceversa, segnalerebbe che la volontà politica che anima l’Europa dopo l’euro sarebbe la stessa che ha operato finora nell’Eurozona: quella della sopraffazione, della guerra di tutti contro tutti, dichiarata dal più forte e gestita secondo le sue regole. E allora, posti di fronte a questo dato di fatto, bisognerebbe riconoscere, molto a malincuore, l’opportunità di andarsene ognuno per la propria strada. Un percorso forse non ottimale, ma comunque possibile per un paese come il nostro, che ha più risorse ed energie per affermarsi sul panorama dell’economia globale di quanto un’informazione distorta a beneficio di interessi esterni voglia farci credere. (Da Il Fatto Quotidiano del 26 novembre 2014) p.s. come dargli torto? Come sempre il problema è alla radice.. marcia come marce erano le radici del nascente Stato italiano nel lontano 1860 |
Post n°3348 pubblicato il 01 Dicembre 2014 da ninograg1
Fonte: Loretta Napoleoni sul Fatto Quotidiano del 30/11/2014 Nel caos geopolitico in cui ci troviamo, nel labirinto della vita virtuale in cui diventa sempre più difficile distinguere la realtà dalla finzione e di fronte a fenomeni inquietanti come gli scontri di piazza razziali negli Stati Uniti e l’ascesa in Medio Oriente dello Stato islamico, meglio noto come Isis, si alza la voce di Papa Francesco, che come un faro che cerca di squarciare le tenebre esistenziali in cui siamo piombati. C’è ben poco da stare allegri: sullo sfondo della deflazione e di fronte all’ascesa della disoccupazione, non solo in Italia, ma a giudicare dai fatti di Ferguson, anche oltreoceano, si profila lo spettro del razzismo. L’Isis lo pratica quale strategia primaria per rendere la società il più omogenea possibile, una tattica che facilita la raccolta del consenso all’interno del territorio da questo controllato, il Califfato. La pulizia etnica e religiosa viene amministrata con atti barbari e disumani che a noi europei fanno tornare in mente le atrocità commesse dai Nazisti e dai Fascisti appena un secolo fa. L’accanimento contro il diverso, chi non è come noi, è naturalmente un segno di debolezza, tutte le gradi civiltà al loro apice erano multietniche e lo scambio di idee tra popoli diversi, tra culture diverse, tra religioni, usi e costumi diversi, arricchiva la popolazione. Da Babilonia a Roma fino al Califfato del Nono e Decimo secolo questo è il modello. La debolezza dello Stato islamico è nota, un’organizzazione armata che vuole strutturarsi come Stato attraverso una guerra di conquista classica, condotta quasi porta a porta, in trincea. Un processo che dal 2011 viene attuato usando tecniche terroristiche, barbare per terrorizzare i nemici, tra cui anche noi occidentali, ed ingigantire l’immagine di potere dell’Isis. Una strategia che allo stesso tempo presenta agli abitanti abilitati a far parte del nuovo Stato – sunniti salafisti radicali – vantaggi mai avuti in passato sotto la gestione statale di regimi sciiti ostili, quello di Damasco e di Baghdad. La debolezza di questa costruzione sta nell’assenza di un processo di costruzione dello Stato basato sulla volontà ed il consenso della popolazione di unirsi, farsi Stato e condividere la cosa pubblica. Al suo posto, infatti, troviamo una guerra di conquista, da qui l’assenza del riconoscimento da parte della comunità internazionale che invece ha deciso di combattere con una nuova guerra per procura il nuovo nemico che pratica pulizia etnica e giustizia barbaramente gli ostaggi occidentali. La debolezza dell’Occidente è un’altra ed è tutta economica. La lunga onda recessiva si è trasformata in una marea deflazionista che minaccia il cardine primario della società occidentale: la crescita. Sullo sfondo dell’impoverimento della classe media e dell’assenza di mobilità sociale, quel 99 per cento di poveri e potenziali poveri hanno iniziato a lottare tra di loro. In questa guerra tra mendicanti c’è anche lo Stato, anch’esso affetto dal morbo della povertà, uno Stato che non riesce a sedare la rivolta dei poveri e che invece finisce per farne parte. La decisione delle istituzioni americane di non punire il poliziotto bianco che a Ferguson la scorsa estate ha ucciso l’adolescente nero che armeggiava una pistola giocattolo e di non concedere l’appello a questa sentenza ne è la riprova. Si vuole evitare il dibattito sui perché di questa azione, la paura del poliziotto in pattuglia in una zona principalmente popolata da neri; le tensioni razziali ancora fortissime nel sud degli Stati Uniti; l’aumento della criminalità spicciola quale reazione alle difficoltà economiche e così via. In Europa Cameron chiede di trattare gli immigrati come cittadini di secondo grado, di ‘istituzionalizzare’ lo sfruttamento di costoro, e molti in Europa gli daranno ragione. A 25 anni dal crollo del muro di Berlino viene spontaneo chiedersi perché è stato abbattuto se il trattamento dell’europeo doc sarà diverso da quello di tutti gli altri, forse i motivi sono legati alla necessità del capitalismo occidentale di trovare nuovi mercati da colonizzare, ragioni che non hanno nulla a che vedere con la diffusione della libertà politica e l’uguaglianza tra i popoli. Le parole del Papa sono preziose perché ci ricordano che gli uomini sono tutti uguali, questo è il primo sacrosanto diritto umano. Sono parole coraggiosissime, pronunciate in Turchia, un Paese a stragrande maggioranza musulmano, e che incitano all’apertura non alla chiusura attuale nei confronti dell’Islam, che suggeriscono la necessità di fare uno sforzo per intavolare un dialogo informale, rozzo, con chi è vicino allo Stato islamico, per capire e trovare una soluzione non bellica, ma pacifica a quanto sta accedendo in questa parte del mondo. Discorso analogo vale per la guerra tra i poveri, lo Stato deve avere il coraggio di Francesco per fermarla redistribuendo la ricchezza a favore di quel 99 per cento. La parola ‘nazionalizzazione’ dovrebbe essere rispolverata dal vocabolario della politica e pronunciata pubblicamente. |
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