GABER 2; COMPLEANNO
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Messaggi di Giugno 2020
Post n°4585 pubblicato il 10 Giugno 2020 da ninograg1
Tag: Australia, blog, coronavirus, covid, esteri, nuova zelanda, pandemia, politica, sanità, storytelling Fonte: Il Fatto Quotidiano Mondo - 10 Giugno 2020 Federico Marcon A Jacinda Ardern, la meravigliosa Primo Ministro neozelandese che sta riscrivendo il manuale di come si possa essere un fantastico politico e un’amorevolissima madre allo stesso tempo, è scappato persino un balletto in casa quando ha potuto annunciare alla popolazione che la Nuova Zelanda era Covid-free, non avendo registrato nuovi casi per oltre due settimane e non avendo un solo caso attivo in tutto il paese. In questo lato del mondo la Nuova Zelanda non è l’unico paese ad aver raggiunto tale invidiabile status: altre nazioni come la Papua Nuova Guinea, East Timor, Fiji, Samoa e Tonga sono nella medesima situazione. L’obiezione è facilmente prevedibile: la Nuova Zelanda è un paese poco popolato – circa 5 milioni di persone contro i quasi 27 milioni di pecore -, distante da tutto e tutti, con confini alquanto impermeabili essendo un’isola remota e con un distanziamento sociale naturale, visti gli immensi spazi a fronte di un numero esiguo di abitanti. Tutto vero e sacrosanto. Ma sarebbe semplicistico e sbagliato non cercare di capirne di più e magari assorbire qualche lezione e buona pratica da utilizzare in altri contesti. Quali sono stati dunque i segreti di questa piccola nazione nel Pacifico? 1. Una catena di comando cortissima. A differenza dell’Italia, dove abbiamo avuto frotte di virologi, pseudo-esperti, politici e compagnia bella pronti a fornire commenti, notizie e raccomandazioni ogni giorno, in Nuova Zelanda le persone deputate a parlare sono state due: la stessa Ardern e il Direttore Generale della sanità Ashley Bloomfield. Nessun altro si è impossessato della scena per confondere le acque. 2. Una pianificazione pazzesca, che ha portato il Governo a prendere misure drastiche in largo anticipo, quando il numero dei casi era ancora basso. Come un giorno rispose la Ardern, quando la rimproverarono di aver avviato il lockdown con soli 102 casi nel Paese: “Anche l’Italia ad un certo momento aveva solo 102 casi… e vedete poi cosa è successo”. 3. Il concetto, molto anglosassone, di “walk the talk”, che potremmo tradurre in “predica bene e razzola meglio”. Riprova di ciò, il fatto che il ministero della Salute David Clark è stato declassato dopo aver ignorato il lockdown e aver portato la propria famillia a fare una scampagnata in una spiaggia a 20 km da casa sua, nel primo weekend di applicazione delle nuove misure restrittive. Clark, invece di gridare al complotto, si è semplicemente definito un idiota. Suona poco familiare, vero? 4. L’aver creato – con una sapiente comunicazione – l’idea che tutto il Paese è nella medesima condizione e situazione, compresi i politici di alto rango ed altre personalità di spicco. Questa è stata sempre la grande forza della Ardern, che in altre dolorose circostanze – come l’attentato terroristico alle moschee di Christchurch che 15 mesi fa costò la vita a 51 persone – è sempre riuscita a creare un senso di comunità, dove lo Stato non è considerato altro rispetto alla gente. Questo mi pare alquanto differente dalla situazione italiana, dove cresce il malcontento e si amplificano le proteste di varie categorie che accusano il Governo di ogni nefandezza, con la solita narrativa della classe politica che se ne frega della popolazione e pensa solo agli affari propri. In Nuova Zelanda tale recriminazione non si verifica, in quanto non esiste tale dicotomia tra la Stato e popolazione, considerati un unicum e non antagonisti 5. Da ultimo, ed è una logica conseguenza di quanto esposto in precedenza, colpisce l’attenzione della persone e della stampa per le storie individuali, piuttosto che per i numeri. Certo, è più facile concentrarsi sulle storie individuali quando il numero dei morti è ridotto – solo 22 fino ad oggi. Ma il focus sullo storytelling fa parte di un approccio al Covid che nazioni come la Nuova Zelanda e in parte l’Australia hanno promosso durante la crisi: poca ricerca dello scandalo e del terrore, uno sforzo congiunto di tranquillizzare la popolazione e proteggerle con misure forti e minuziosamente pianificate. Tenendo sempre in primo piano le persone, le loro esigenze, le loro storie e i loro legami familiari. E ricordandoci che non siamo numeri, ma essere umani. Il miracolo neozelandese nasce da un mix di tutti questi ingredienti. L’Italia è troppo grande, avanzata, eurocentrica e supponente per poter imparare da esperienze virtuose di altri Paesi, seppur piccoli? Lascio a voi la risposta… nella speranza di essere smentito.
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Post n°4584 pubblicato il 08 Giugno 2020 da ninograg1
Tag: blog, coronavirus, economia, finanza, globalizzazione, kennedy, Nixon, pandemia, politica, sovranismo, Trump Fonte: Il Fatto Quotidiano Economia Occulta - 7 Giugno 2020 Loretta Napoleoni Gli appartenenti alla generazione dei baby boomer americani si ricordano bene il 1968. Quello fu un anno traumatico per tutti. I giovani sedevano davanti alla Tv insieme ai genitori mentre il governo gestiva una lotteria dove i numeri corrispondevano alle date di nascita e la posta era la loro vita. I più anziani si domandavano a che serviva la guerra nel Vietnam, specialmente nell’ottica della vittoria della seconda guerra mondiale. Nel paese la tensione era altissima e scontri e manifestazioni erano all’ordine del giorno. Poi iniziarono gli assassinii politici, Martin Luther King e Bobby Kennedy, vennero falciati da forze endemiche, le stesse che avevano messo fine secoli prima all’operato di altri grandi leader americani, forze resuscitate dalle tensioni sociali della fine degli anni Sessanta. Gli afro-americani erano in fermento, volevano porre fine alle diseguaglianze, al razzismo e i bianchi erano in fermento perché non volevano quella guerra lontana. La polizia era brutale, specialmente nei confronti dei primi. Come il 2020, annus horribilis americano, il 1968 era un anno elettorale che avrebbe portato alla Casa Bianca Richard Nixon, un repubblicano che adesso sappiamo era senza scrupoli, ma che allora sembrava ben incarnare i valori conservatori di quell’America agiata che grazie al Piano Marshall stava diventando ancora più ricca. Un’America bianca, naturalmente. La campagna elettorale si svolse sullo sfondo della contestazione contro la guerra nel Vietnam, degli assassinii politici e degli scontri nelle strade. Esattamente come oggi, mentre l’America scivolava nel caos gli indici di borsa salivano. I mercati e le élite che nel 1968 li gestivano avevano fiducia nella vittoria di Nixon, erano certi che il futuro presidente ed il suo partito avrebbero mantenuto l’ordine ed i privilegi di cui l’alta finanza aveva sempre goduto. Nixon intuì l’importanza di presentarsi come il difensore dello status quo, il garante dell’ordine e sfruttò al massimo le tensioni del 1968. Oggi Donald Trump sta facendo la stessa cosa. Da febbraio ha trasformato la pandemia in una piattaforma elettorale giornaliera e da due settimane le manifestazioni e gli scontri di piazza nell’antitesi della ‘sua America’. Trump è il nuovo Nixon, un abile imbroglione. Gli americani ricordano bene che fine ha fatto Richard Nixon come non hanno dimenticato il danno economico inflitto dalla sua presidenza. Per finanziare la guerra in Vietnam Nixon usò le riserve auree del paese, lo fece nascostamente ma alla fine fu costretto ad ammetterlo. E così nel 1971 si pose fine alla convertibilità del dollaro. Un’umiliazione per la grande America ma anche un bel problema economico. Ondate deflazioniste ed inflazioniste si abbatterono sull’economia americana che rimase depressa fino all’inizio degli anni Novanta- Donald Trump è altrettanto irresponsabile. Sta combattendo il Covid-19 stampando carta monete e distribuendola a pioggia, senza una logica sociale. In questo modo sostiene Wall Street, suo cavallo di battaglia da sempre. Ma come quello di Nixon, l’escamotage monetario è un boomerang, funziona nel breve periodo e poi torna indietro con nuovi problemi. L’altra mortalità tra gli afro-americani, appena il 13 per cento della popolazione, ma di gran lunga la maggioranza dei deceduti, poteva essere evitata con i test, i tamponi, agli aiuti finanziari per migliorare le condizioni di vita e di lavoro di questo segmento della popolazione. Le tensioni sociali potevano essere evitate se si fosse agito per tempo. Da sempre gli afro-americani muoiono per mano dei poliziotti, nel 1992 Rodney King venne ucciso a Los Angeles in un modo simile all’esecuzione di George Floyd. La scena venne ripresa da un passante che aveva una video camera ed i network la mostrarono. Quasi trent’anni dopo ce la ritroviamo davanti. Non va bene, non va affatto bene. La speranza è che il 2020 non finisca a novembre come il 1968, la speranza è che Trump non riesca a spuntarla questa volta e che il vento della riforma sia talmente forte da scuotere anche il moderatissimo candidato democratico, Joe Biden. La speranza è che questa volta qualcosa davvero cambi.
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Post n°4583 pubblicato il 02 Giugno 2020 da ninograg1
Fonte: Il Fatto Quotidiano Diego Fusaro Mondo - 30 Maggio 2020
Fin dal cominciamento della pandemia, sostenni – si ricorderà – che quanto stava accadendo, al di là della narrazione del pipistrello, chiedeva di essere letto e interpretato nel quadro della nuova Guerra Fredda tra Cina e Usa: guerra che domenica 24 maggio è stata apertamente ammessa, infine, dalla stessa Cina in via ufficiale. Insomma, su un piano stricto sensu geopolitico, possiamo dire che il Covid-19 – quale che sia la sua reale origine – giunge nel bel mezzo di una nuova Guerra Fredda, che solo ora è riconosciuta apertamente, ma che, invero, era in atto già da tempo. A suffragare questa lettura sono, come sappiamo, i rapporti niente affatto distesi che si erano venuti a creare tra i due Paesi ben prima dell’emergenza Covid-19: la quale sempre più appare essere essa stessa un momento di quella “Guerra Fredda” più che una sua temporanea battuta d’arresto. Si pensi anche solo alla guerra per il “5G” e l’affaire Huawei. Non si trascuri, poi, che il 28 novembre 2019 Trump firma e promulga l’“Hong Kong Human Rights and Democracy Act”, per sostenere le protese anticinesi divampate a Hong Kong. La Cina reagisce senza esitazioni: lo fa convocando l’ambasciatore Usa ed esortandolo a non applicare la legge, dacché la questione Hong Kong è interna alla Cina e, dunque, di sua esclusiva competenza. Ancora, gli Usa accusano la Cina: il 17 febbraio un cacciatorpediniere cinese avrebbe puntato un laser su un aereo da ricognizione Poseidon P-8A americano nel Pacifico al fine di disturbarne le operazioni. L’episodio sarebbe avvenuto a 600 chilometri dall’isola di Guam, non distante dalle Filippine. La Guerra Fredda si è manifestata senza posa nel corso dell’emergenza Covid-19, dichiarata “pandemia” dall’Oms l’11 marzo scorso. Lijian Zhao, portavoce del ministero degli Esteri cinese, ha apertamente, senza troppe perifrasi, attaccato gli Usa: “It might be US army who brought the epidemic to Wuhan”. Così scrisse testualmente sul suo profilo Twitter il 12 marzo. La Cina, per il tramite di un esponente di spicco del suo governo, stava chiaramente indicando quelli che, dal suo punto di vista, erano i reali responsabili. Le accuse di Lijian Zhao meritano di essere analizzate più estesamente. Fanno leva sulla scarsa chiarezza della civiltà del dollaro sui propri casi di Covid-19: “A quando risale – chiedeva Lijian Zhao – il paziente zero negli Stati Uniti? Quante persone sono state infettate negli States? Come si chiamano gli ospedali dove sono ricoverate? Potrebbe essere stato l’esercito americano ad aver portato l’epidemia a Wuhan. Vogliamo trasparenza! Che siano resi pubblici i vostri dati! Gli Stati Uniti ci devono una spiegazione”. È interessante, di questa accusa, il fatto che essa rovesci la narrazione, ponendo gli Usa nella posizione in cui essi avevano fino a quel momento cercato di porre la Cina: ossia nella posizione di chi deve dare conto al mondo intero delle proprie responsabilità. In un secondo messaggio su Twitter, Lijian Zhao ha ricordato che Robert Redfield, portavoce e rappresentante del Parlamento Usa, ha ammesso apertamente l’esistenza di decessi per Covid-19 negli Usa. Ne dà notizia anche The Guardian, il 12 marzo. Il video a cui allude Lijian Zhao era stato pubblicato da “People’s Daily”: in esso Robert Redfield affermava che alcuni morti di influenza, negli Usa, era in realtà contagiati da Covid-19… Con le parole di Robert Redfield: “Some cases have actually diagnosed that way in the United States today”. Queste affermazioni, in effetti, aprono alla possibilità che il virus non sia “cinese” (come continua a ripetere Trump), ma atlantista. Alla sbarra dell’imputato è ora, improvvisamente, la civiltà del dollaro. Quanti dei morti di influenza negli Usa – incalza Lijian Zhao – sono connessi al Covid-19? Perché gli Usa, così solerti nell’attaccare la Cina, hanno nascosto al mondo intero le proprie responsabilità? Le catilinarie politiche di Lijian Zhao sono supportate dalle affermazioni dell’epidemiologo e pneumologo Zhong Nanshan, che nel 2003 scoprì il Coronavirus Sars, e che fu anche presidente della Chinese Medical Association (2005-2009). Pur senza puntare il dito contro gli Usa, Zhong Nanshan ha affermato, il 27 febbraio 2020, che il virus, rilevato la prima volta in Cina, “potrebbe non essere nato in Cina”. Queste, in estrema sintesi, alcune delle accuse mosse dalla Cina agli Usa. E gli Usa? Il Consigliere per la Sicurezza nazionale statunitense, Robert O’Brien, ha quasi da subito accusato la Cina di non aver gestito nel modo giusto l’epidemia “mettendo a tacere i medici coinvolti o mettendoli in isolamento”. E, in effetti, Li Wenliang, il dottore che per primo aveva invano denunciato il Covid-19, è – come sappiamo – morto isolato e dimenticato. E vi sono stati, in Cina, altri episodi di repressione di dissidenti. il resto al link suindicato
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