GENOVA, LUGLIO 2001
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Dovevo parlare con un tizio che si occupa di atletica. Sono andato a trovarlo nel palazzetto dello sport dove incontrava i suoi istruttori. Mentre aspettavo guardavo cosa succedeva nel bel mezzo del palazzetto. C’era quella che, con molta fantasia e buona approssimazione, si sarebbe potuta definire una partita di calcio. Disputata tra bimbi di sei, sette anni, non di più. Quando i bimbi giocano a calcio si vede l’anarchia più profonda. Il passaggio è un vocabolo sconosciuto, il darla (la palla, lo dico a scanso di equivoci) una pratica non praticata, difesa – centrocampo – attacco luoghi immaginari né più né meno che La terra di mezzo o L’isola che non c’è. Le due squadre si muovono in massa, come sciami di cavallette, dietro la palla. In massa vanno avanti, in massa tornano indietro. Chi arriva vicino alla boccia, a prescindere da chi ce l’abbia in quel momento, tira il suo calcio, nove volte su dieci prendendo stinchi o caviglie o parti molli, e solo raramente la boccia stessa. Che viene spedita dove capita, senza pensare a dove stia non dico un compagno di squadra, ma neppure la porta avversaria. Anche i due che al termine della conta sono deputati a fare i portieri corrono dietro agli altri. Qualche metro più indietro, quello l’hanno capito, ma comunque vanno avanti e indrè pure loro.
Una delle due squadre teneva un giocatore davanti alla sua porta. Non per varare il modulo difensivo con il libero, ma per evitare che quel loro compagno potesse essere d’impiccio agli altri in attacco. Se si azzardava a fare qualche passo in più qualcuno lo cazziava: «Vai là, stai là, non ti muovere». Questo ragazzetto era particolarmente interessante: aveva due gambetto secche secche. Quando la palla arrivava verso di lui gli correva incontro, zigzagando, cambiando direzione perché il concetto di linea retta evidentemente non gli era proprio. Poi tirava fuori la lingua, piegava il culo all’infuori, si piegava in avanti fin quasi a sbattere il mento sui ginocchi e poi al momento che riteneva buono, ma che in realtà raramente lo era, alzava la gamba. Non ho detto che tirava il calcio: ho detto apposta che alzava la gamba. Rigida come fosse di gesso: praticamente la usava come leva per scardinare la boccia dal pavimento. La boccia così colpita finiva nei posti più impensati: spesso in mezzo agli occhi agli altri giocatori, qualche volta sugli spalti, una volta anche nei pressi della sua porta (cosa che gli ha fruttato un cazziatone supplementare). Ovunque meno che davanti, dove a rigor di logica avrebbe dovuto mandarla. Verso la fine dell’incontro (due tempi da sette minuti, credo) capita questo. La boccia va verso di lui. Lui parte alla carica: zigzaga, cambia direzione, tira fuori la lingua, piega il culo, si abbassa in avanti, prende le boccata contro le ginocchia, mulina la gambetta, la alza e tira una botta al pallone. Che, incredibilmente, descrive una parabola quasi perfetta, attraversa la palestra e finisce nella porta giusta, praticamente nel sette (laddove per sette intendesi l’incrocio dei pali). Il portiere avversario era, ovviamente, dietro al gruppo, e di parare non se ne parlava neppure. Un tiro strepitoso. Al punto che anche uno dei suoi compagni, il più velenoso nel cazziarlo, lo guarda e commenta con un «Minchia!!!!». Lui, il gambesecche, il suo gol non l’ha neppure visto. Perché nella foga di alzare la gambetta e colpire la boccia si è capottato all’indietro, e mentre la palla entrava cercava di rimettersi in piedi con la stessa grazia di una tartaruga rovesciata. Però ha fatto gol, e questo è quanto.
Sono uscito dal quel palazzotto con una precisa convinzione: anche se nella vita hai i piedi a banana, anche se stai al calcio come bossi sta alla lingua italiana, anche tutti non ti vogliono far uscire dal tuo buco, anche se ti trovi davanti un’orda urlante e corrente, anche se si fidano di te come ci si potrebbe fidare di giuda iscariota con il mutuo da pagare (o di mastella senza mutuo, che tanto è la stessa cosa), se la boccia passa dalle tue parti, catafottitene del resto e tira il calcio (o alza la gamba, è lo stesso). Magari fai un gol da favola. E quel gol non te lo leva nessuno. Anche se non lo vedrai mai, perché sei cappottato al suolo.
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UNA QUESTIONE DI MANI
nelle condizioni di avere
bisogno di una mano.
In genere qualcuno c'è.
Io ne ho avuto bisogno.
Le mani ci sono state.
Adesso le mie,
assieme a quelle
di tanti altri,
sono nel
"Blog for Africa".
Lo trovate qui accanto,
a sinistra.
In attesa di altre mani....
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