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« IL SENSO IN SÈ E LA PART...UN CITTADINO DEMOCRATICO... »

DEMOCRAZIA ETICA E GIUSTIZIA SOCIALE DISTRIBUTIVA

Post n°1078 pubblicato il 11 Settembre 2023 da rteo1

DEMOCRAZIA ETICA E GIUSTIZIA SOCIALE DISTRIBUTIVA

Credo che la "democrazia" tra i tanti benefici, relativamente al ruolo politico del c.d. "Popolo", abbia prodotto anche l'effetto di riconoscere ai cittadini il diritto di "pensare" e di esprimere (più o meno) liberamente il proprio pensiero. Ovviamente questo non è tutto, perché al di là del "cogito ergo sum" di Cartesio, gli uomini hanno anche un "corpo" che reclama di "essere alimentato" per poter agire, lavorare, produrre, e non solo consentire il "cogitare". Per questi motivi, da molto tempo, ormai, tra i diversi argomenti che impegnano l'agone politico vi è sicuramente quello relativo alla distribuzione delle ricchezze nell'ambito della società. Va evidenziato che le modalità di riparto della ricchezza sono strettamente collegate alla forma di Stato e di governo. In una monarchia, ad es. di tipo assoluto, come era quella di Luigi XIV, Re di Francia, che si identificava con lo Stato (l'état se moi, come diceva), tutte le ricchezze appartenevano al Re, come anche i sudditi. Lo Stato, quindi, era "patrimonio" del Re e, pertanto, passava in successione dinastica come "bene ereditario". Ma anche le più moderne "monarchie" con i Re, dette "costituzionali" o "democratiche", come ad es. quella inglese (ma anche Spagnola, Belga, Svedese, Danese, Norvegese...) pur non essendo più "proprietarie dei regni" (Stati) tuttavia godono del privilegio di un "sostanzioso appannaggio" economico-patrimoniale a carico dei sudditi (i quali, formalmente, sono altro, rispetto ai cittadini perché hanno il "dovere" dell'inchino e della riverenza, tipici atti di sottomissione, psicofisica e morale e non di pura e libera "cortesia") e partecipano, altresì, al Governo dello Stato con funzioni più o meno intrecciate con le procedure del potere legislativo ed esecutivo. Diversamente, invece, avviene nella c.d. "democrazia" (nella forma moderna di "Repubblica democratica"), nella quale il destinatario delle ricchezze prodotte dalla Comunità è il Popolo (in realtà solo una parte, purtroppo, come si evidenzierà in seguito) che è anche definito dalla Costituzione (art.1) come "Sovrano" della Repubblica (mentre, ex art.87, co.1, della Carta, il "Capo dello Stato" è il Presidente della Repubblica). Infine, nell'oligarchia (forma di governo risultante dai modelli platonici e aristotelici) sono soprattutto gli "oligarchi", ossia l'élite dominante al potere, ad accaparrarsi la maggior parte delle risorse. Vi è, pertanto, una correlazione tra le forme di Stato e di governo innanzi menzionate e la "ripartizione delle risorse" prodotte dalla Comunità; tale correlazione perciò può ben essere presa come riferimento per dedurne quanta "democrazia" è entrata a far parte della Repubblica-democratica, nella Monarchia-democratica o nell'oligarchia. Trattasi, in altri termini, di  un metodo di analisi "sostanziale", più reale e veritiero rispetto al modello costituzionalizzato che fa uso di formule teoriche, retoriche e di simboli sacralizzati. Per fare un esempio concreto richiamiamo l'art.1 della Costituzione italiana che, come noto, sancisce: "L'Italia è una Repubblica democratica..." e che "La sovranità appartiene al Popolo....". L'Italia, quindi, non è - formalmente - una monarchia né una oligarchia, ma è una "democrazia" (innestata nella forma repubblicana che riconosce la "Sovranità" al Popolo) pertanto, in ordine alla distribuzione delle ricchezze, se fosse vero il "principio fondamentale della Costituzione", si dovrebbe riscontrare "nei fatti" che il "Popolo" (ossia, in senso lato, tutti i cittadini, nessuno escluso) sia il beneficiario (goda, fruisca) di tutte le risorse (mobili, immobili e opere intellettuali) prodotte dall'intera Comunità. E inoltre, trattandosi di democrazia, che, a differenza degli altri regimi di governo, si fonda sul principio politico-giuridico ed etico dell'eguaglianza dei cittadini (parità tra cittadini, in senso reale, concreto, orizzontale, e non soltanto in senso formale "dinanzi alla legge"), la richezza dovrebbe risultare "equamente distribuita" (secondo eguaglianza e giustizia sociale). Vediamo, allora, se è proprio così. Dai dati ufficiali (al 2019, ma tuttora validi in termini percentuali) si rileva che la "torta della ricchezza" (l'intero "patrimonio" delle famiglie italiane) è stata stimata in circa 9.297 miliardi di euro, con il 20% più ricco che possiede quasi il 70% della ricchezza nazionale; un altro 20% detiene il 17% circa della ricchezza e il restante 60% dei cittadini possiede solo il 13,3% (ai margini dei quali si trovano circa 5.000.000 di cc.dd. "poveri assoluti" nonché 5.000.000 di cc.dd. "poveri relativi"). È di tutta evidenza, dai dati che precedono, che in Italia, dal punto di vista della distribuzione delle risorse, esiste una oligarchia (da oligos, pochi) che ha un ruolo "idrovoro" ed "energivoro" "nell'accaparramento" delle ricchezze (circa il 70%) mentre la "democrazia" (ossia il 60% del "popolo") ha soltanto una parte marginale (partecipa al riparto della ricchezza solo per il residuo 13,3 %), con oltre 5.000.000 di "cittadini" privati, o limitati, delle risorse, della dignità e dei diritti umani. Eppure si continua a ripetere, senza alcuna esistazione, senza alcun disagio morale, né etico, religioso o sociale che in Italia c'è la "democrazia", così come ci sarebbe in tutti gli altri Stati europei e nell'intero occidente capeggiato dall'America. Invece, stando ai predetti dati statistici, bisognerebbe dire che c'è soltanto una "quota di democrazia". Ed è così in tutto l'occidente, sia negli Stati repubblicani che nelle monarchie con i Re (che in Europa costituiscono la maggioranza), nel quale la democrazia è soltanto una "quota", una ""frazione", che concorre con le élites oligarchiche e monocratiche nel governo degli Stati e alla distribuzione delle risorse. È questa, quindi, la realtà che emerge dall'analisi del "riparto della ricchezza" nei diversi modelli di Stato e di  governo europei e occidentali. Non basta dire, perciò, che uno Stato è democratico ma bisogna chiedersi anche "quanto" lo sia, non solo nella forma (art.3 della Cost.: Tutti i cittadini sono eguali...) ma anche e soprattutto nella "sostanza" (quanti cittadini partecipano e quanti sono esclusi dalla distribuzione delle risorse). La già citata Costituzione italiana al comma 2 dell'art.1 sancisce che "La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione". Non vi è dubbio che in virtù di tale prescrizione si abbia voluto, politicamente e istituzionalmente, limitare l'esercizio diretto della volontà popolare, sia in ordine al potere legislativo (approvare le leggi, iniziativa legislativa e referendaria vincolanti, ecc.) sia nell'attribuzione delle diverse cariche statali (il Popolo, oggi, non elegge direttamente il PDR, né il "Capo del Governo", né i Giudici della Corte costituzionale, e neanche le supreme cariche delle altre magistrature, come, invece, avveniva, ad es., nella democrazia ateniese ove l'Assemblea era costituita dal popolo, come anche  i tribunali, i cui giudici, peraltro, erano scelti tra la "classe dei più poveri", i Teti, mediante estrazione a sorte, e la funzione aveva una durata annuale). È del tutto evidente, perciò, che nell'ordinamento italiano, sul piano "sostanziale", la "democrazia" coesiste con una sorta di "oligarchia" (l'élite) e che si rinviene anche un ruolo apicale "monarchico" (mònos, uno solo), com'è quello del "Capo dello Stato" (il PdR), al quale sono riservate risorse e privilegi. Trattasi, perciò, di una "formula" politico-costituzionale riconducibile a quella definita "mista" da Aristotele, il quale la riteneva, tuttavia, come la più equilibrata possibile perché in grado di dare maggiore stabilità alla Polis. Oggi, però, agli albori del terzio millennio, sebbene vi siano tendenze geopolitiche egemoniche di alcuni Stati atte a riportare indietro "l'orologio della storia" e l'intera umanità all'età della pietra, si può anche "prendere atto" di tale forma "mista" di gestione del potere pubblico ma bisogna correggere l'iniquo riparto delle ricchezze, che si fonda sulla "forza" politico-economica e giuridica delle diverse "classi" (o categorie sociali e istituzionali), e recuperare e valorizzare il "principio etico" di fondo della democrazia, ossia il principio dell'eguaglianza reale. Nessuna forma di governo può esistere solo come pura "forma politica" (né giuridica) ma tutte hanno bisogno di un "principio etico" (ad es. le virtù, l'onore e il coraggio per l'Aristocrazia). Così anche la moderna democrazia ha bisogno del "principio etico dell'eguaglianza reale", in virtù del quale "tutto il Popolo" deve partecipare alla distribuzione delle risorse. La democrazia, perciò, dev'essere anche "etica" e non solo politico-giuridica in senso stretto. Vale la pena ricordare che le "leggi del libero mercato" sono solo il frutto della elaborazione e imposizione del capitalismo economico-finanziario dell'élite imperiale dominante (internazionale e nazionale) ma non hanno alcun valore assoluto. Bisogna, perciò, ripartire dal comune fondamento biologico che tutti gli "umani" hanno lo stesso DNA (e moltissimi vizi e difetti comuni); che "nessuno basta a sé stesso" e "tutti hanno bisogno di tutti" perciò è giusta la distribuzione delle ricchezze secondo il principio della "democrazia-etica", la quale trova un valido fondamento nella "Dichiarazione Universale dei diritti dell'uomo" che all'art.1 sancisce: «Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti». La Dichiarazione venne adottata dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite a Parigi con la Risoluzione 219077A del 10 dicembre 1948 e tra i Paesi firmatari vi erano gli Stati Uniti d'America, il Regno Unito e la Francia (l'Italia entrò a far parte dell'Assemblea nel 1955). Come si rileva dalla citata "Dichiarazione" (che non può essere sconfessata dai firmatari, se non negando di essere stati "capaci d'intendere e di volere", o in "malafede, non credendo in ciò che "dichiaravano" e firmavano) è la "nascita" il momento fondamentale: "Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti". La "nascita", pertanto, deve costituire l'evento, l'accadimento, il fatto biologico, il momento in cui "tutti gli esseri umani" sono nella condizione di "eguaglianza in dignità e diritti". Tale "nascita" non ha, per quanto si ricava dalla "Dichiarazione", alcun riferimento con i "genitori", né con la "stirpe" o la "gens" familiare, perciò al momento della nascita sono "tutti eguali", sia il figlio di un bracciante, che di un operaio, di un magistrato, di un professionista, di un parlamentare, di un "grande capitano d'industria", ecc. Non vi è dubbio, ovviamente, che nella realtà, almeno finora, chi nasce in una famiglia di ricchi non sarà mai "eguale" a chi nasce in una famiglia di poveri perché la "dinamica" è regolamentata dagli "ordinamenti giuridici"; ma questi non hanno alcun valore assoluto e universale e non sono né eterni né immutabili. Basta perciò soltanto volerlo "politicamente" e "culturalmente". In che modo ? ci si domanderà. La soluzione è quella di superare la "finzione giuridica" che, contronatura, mediante l'istituto della "successione ereditaria", fa sopravvivere alla morte biologica un essere umano. Tale "istituto giuridico" ha in sé, sullo sfondo, anche dell'inconscio, una "folle idea metafisica", ontologica, dell'uomo quale essere dotato di potere assoluto rispetto alla morte (come quello del Dio Creatore e Salvatore), che consente, mediante l'esercizio della funzione legislativa, di "continuare" ad esistere (giuridicamente) mediante successori (legittimi o testamentari), in primis i figli. Indubbiamente questi ultimi hanno in sé (in generale) una parte del patrimonio genetico dei "genitori" (uso le virgolette perchè oggi il concetto di "genitorialità" è controverso tra le diverse fazioni politiche), ma è altrettanto certo che essi siano "altro", degli individui del tutto originali, nuovi e diversi rispetto ai propri genitori (molti "geni" hanno avuto dei figli "idioti" e molti "idioti" hanno avuto figli "geniali"). Ecco, allora, perché risulta essere naturalmente ed eticamente giusto e corretto quanto solennizzato nella suddetta "Dichiarazione universale", cioè che tutti alla "nascita" sono "eguali in dignità e diritti". Occorre, perciò, trovare una qualche soluzione "giuridica" per poter trasferire tali principi e valori anche sul piano patrimoniale. La Costituzione italiana all'art.42, u.co, sancisce che "La legge stabilisce le norme ed i limiti della successione legittima e testamentaria e i diritti dello Stato sulle eredità". È questa, perciò, la via da seguire, ossia intervenire sulla legge della successione ereditaria per ridistribuire equamente le risorse che oggi sono "ingiustamente" detenute soltanto dai suddetti "ricchi" (il 20% dei cittadini, che possiede il 70% delle risorse), ma anche dai "meno ricchi" (il 20%, che detiene un altro 20%) e dalla "classe media" (il 60%, che possiede il restante 15% circa). Alexis de Tocqueville, nel suo noto saggio "La democrazia in America", registrava, con sorpresa, con la sua cultura di aristocratico e di alto magistrato, che in alcuni Stati americani le imposte di successione erano particolarmente elevate per far sì che le ricchezze accumulate ritornassero alla collettività. Come si vede, a quel tempo avevano ben chiaro quale fosse il vero problema della diseguaglianza sociale: l'accumulo illimitato delle ricchezze a causa della trasmissione dei beni per via ereditaria, perciò intervenivano mediante una elevata imposta di successione. In Italia la materia (scottante !) è stata disciplinata con il d. Lgs. del 31.10.1990, n.346, che ha approvato il T.U., contenente le "disposizioni concernenti l'imposta sulle successioni e donazioni. L'art.3, comma 4-ter, prevede che "I trasferimenti effettuati anche tramite i patti di famiglia... a favore dei discendenti e del coniuge, di aziende o rami di esse, quote sociali e di azioni non sono soggetti all'imposta". L'art.12, invece, sancisce che "1. Non concorrono a formare l'attivo ereditario: h) i titoli del debito pubblico, fra i quali si intendono compresi i buoni ordinari del tesoro e i certificati di credito del tesoro, ivi compresi i corrispondenti titoli del debito pubblico emessi dagli Stati appartenenti all'unione europea e dagli Stati aderenti all'Accordo sullo spazio economico europeo"; i) gli altri titoli di Stato, garantiti dallo Stato o equiparati, ivi compresi i titoli di Stato e gli altri titoli ad essi equiparati emessi dagli Stati appartenenti all'Unione europea e dagli Stati aderenti all'Accordo sullo Spazio economico europeo, nonché ogni altro bene o diritto, dichiarati esenti dall'imposta da norme di legge". L'art.13, inoltre, esclude " I beni culturali di cui agli articoli 1, 2 e 5  della legge 1 giugno 1939, n.1089, e all'art.36 del DPR 30.9.1963, N.1409...". In ordine alle aliquote, invece, l'art.7, commi 1 e 2 (come modificati dall'art.69, L. n.342/2000), sancisce: "1. L'imposta è determinata dall'applicazione delle seguenti aliquote al valore della quota di eredità o del legato: a) quattro per cento, nei confronti del coniuge e dei parenti in linea retta; b) sei per cento, nei confronti degli altri parenti fino al quarto grado e degli affini in linea retta, nonchè degli affini in linea collaterale fino al terzo grado; c) otto per cento, nei confronti degli altri soggetti. 2. L'imposta si applica esclusivamente sulla parte del valore della quota o del legato che supera i 350 milioni di lire (euro 180.759). 2-bis. Quando il beneficiario è un discendente in linea retta minore di età, anche chiamato per rappresentazione, o una persona con handicap riconosciuto grave ai sensi della legge 5 febbraio 1992, n. 104, come modificata dalla legge 21 maggio 1998, n. 162, l'imposta si applica esclusivamente sulla parte del valore della quota o del legato che supera l'ammontare di un miliardo di lire (euro 516.456). Da quanto precede emerge in modo del tutto evidente che in Italia la "democrazia etica" è un puro miraggio ma che, tuttavia, se quella parte politica che ama compiacersi ritenendosi  "democratica e progressista" riuscisse ad esserlo anche nei fatti allora si potrebbe sottoporre ad imposta di successione (almeno) il 70% dell'intero patrimonio (asse) ereditario, col trasferimento delle risorse al "Sovrano" cioè al "Popolo", il quale, per il tramite delle "sue istituzioni repubblicane" (in particolare i Comuni), le ridistribuisce  in modo eguale tra tutti i cittadini (nessuno escluso). In alternativa, qualora si dovesse ritenere opportuna una modifica graduale della vigente normativa si potrebbe iniziare mediante l'abrogazione del suddetto comma 4-ter dell'art.3; modificando l'art.12 con l'introduzione di una esclusione parziale dei titoli del debito pubblico (ad es. fino a €. 50.000), e introducendo, a modifica dell'art.7, un'aliquota progressiva, per scaglioni, (conformemente all'art.53 della Costituzione), fino a una aliquota massima del 70 % sull'intero patrimonio (asse) ereditario, con una soglia di esenzione della quota ereditaria o del legato (ad es. €. 155.000, pari alla quota pro capite di €.9297 mld). L'equa distribuzione delle risorse, invece, secondo un principio di "democrazia etica" e di "giustizia sociale", dovrebbe avvenire cominciando dal "basso" (per capirci, "dall'ultimo" dei cittadini) e "salire" nella c.d. "scala sociale", o della "gerarchia" delle diverse funzioni pubbliche, anziché, come tuttora avviene, partendo "dall'alto", dai vertici, perché così si arriva sempre in fine (alla "base sociale") senza avere più risorse disponibili da distribuire (oggi, come sopra detto, ci sono circa 5.000.000 di poveri assoluti). Occorrerà, quindi, "ribaltare la piramide" nella "distribuzione delle risorse" incominciando dalla base verso il vertice per realizzare una società ispirata alla "democrazia etica" e alla "giustizia sociale" in cui i cittadini,  al di là del momento in cui esercitino le diverse attività, ruoli e funzioni, si relazionino in senso "orizzontale" e non più "verticale", secondo un criterio di eguaglianza sostanziale e non più solo formale. In altri termini, al di là della necessità socio-politica di dover organizzare secondo un criterio "piramidale" le molteplici attività, la distribuzione delle risorse prodotte dall'intera comunità, invece, deve avvenire in modo egualitario. L'ineguaglianza, quindi, può riguardare il solo ambito lavorativo (anche istituzionale), come esigenza di efficienza del sistema, secondo "merito" (competenza)  ma non può giustificare una diseguale distribuzione delle risorse in ossequio del principio della "Sovranità del Popolo". E in linea con questa soluzione tutti i "pensionati" dovranno essere qualificati col solo titolo di "cittadini", senz'altra distinzione (e decretare l'esistenza di un unico "Istituto nazionale di previdenza", con un tetto massimo alle pensioni, da pagarsi con le imposte progressive e non più con i "contributi previdenziali"). E si dovrebbe riconoscere alle donne-madri uno stipendio mensile per il loro ruolo sociale e i sacrifici psicofisici della maternità che le rendono delle moderne "eroine". Non vi è dubbio che l'idea della "democrazia etica" e le soluzioni innanzi prospettate di "giustizia sociale" nella "distribuzione delle ricchezze" siano alquanto "utopiche" (anche perché gli "umani" in un mondo "duale" sono anche "dis-umani"), ma le "idee", anche se gli umani non le "realizzino", devono comunque "manifestarsi", come sosteneva Hegel, sia per il tramite degli "autori minori" - come in questo caso -, che dei Maggiori, come è avvenuto con Platone, che aveva proposto come soluzione la sua Repubblica ideale; ma anche sant'Agostino, che aveva immaginato la sua "Civitas Dei" e Tommaso Campanella la "Città del Sole" (senza dimenticare Tommaso Moro con la sua Utòpia e che persino Dante aveva elaborato la sua Monàrchia ritenendola come miglior modello di governo possibile). 

 
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