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IL SENSO IN SÈ E LA PARTECIPAZIONE

Post n°1077 pubblicato il 03 Giugno 2023 da rteo1

IL SENSO IN SÈ E LA PARTECIPAZIONE

L'uomo ha bisogno di dare un "senso" al suo essere nel mondo. Qualunque senso sia, materiale o spirituale, reale o ideale, non fa alcuna differenza. Ciò che conta è "crederci", almeno finchè non si scopra l'inganno fatto a sé stessi. D'altronde va anche "umanamente" compreso perché non è facile accettare di essere un "animale", per quanto ritenuto (dallo stesso uomo) più evoluto, tanto da autodefinirsi "homo sapiens". E la sua esigenza di "dare un senso" è soprattutto in funzione del "dopo". Anzi, è proprio quest'ultimo, "il dopo", che lo tormenta di più, tanto che i più fragili psicologicamente - ossia la stragrande maggioranza degli umani - preferiscono non pensarci e fare ricorso ad inutili e superstiziosi "scongiuri" e a bizzarri e folcloristici rituali per cancellare, almeno dalla mente, l'evento finale, cioè il "passaggio di stato", che tuttavia è necessario alla vita e per la vita. Il pensiero di dare un senso alle cose, alle azioni, agli accadimenti, che si manifestano nella realtà fenomenica strugge l'intera esistenza. È infatti il pensiero che tormenta l'intero corso della vita "terrena". Non di tutti, ovviamente, ma di certo di tutti coloro che sono convinti che il pensiero(libero) sia il mezzo di interlocuzione con l'universale, col Tutto, l'infinito, l'indeterminato, l'Essere. La Costituzione italiana lo "celebra" all'art.21, comma 1, ove è sancito che "Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione", salvo, poi, limitarlo, al comma 6 : "Sono vietate le pubblicazioni a mezzo stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume. La legge stabilisce provvedimenti adeguati a prevenire e a reprimere le violazioni", oltre a sanzionarlo penalmente con i "reati di opinione" (vilipendio) e di "satira" (ingiuria e diffamazione).  Ma questo "dualismo" costituzionale e giuridico non è altro che la prova indiretta che ad essere duale è proprio "il pensiero" allorquando si concretizza nello spazio-tempo. Anche se si ha "paura" di ammetterlo, perché crollerebbe una certezza fondamentale su cui è stato strutturato l'intero "castello di sabbia" degli esseri umani. Hegel nel suo saggio "La fenomenologia dello spirito", sosteneva che "la realtà è autocontraddittoria, tende a superare sé stessa e a diventare altro da quello che è"; diceva anche che l'idea deve manifestarsi e che lo fa diventando realtà naturale la quale ha in sé la "razionalità". In altri termini, trattasi di una concezione dell'idea simile a quella platonica che prevedeva l'intervento del "Demiurgo artefice" nella mediazione tra il mondo delle idee e le relative forme (copie) imperfette realizzate nella natura e, altresì, della visione "conflittuale" eraclitea di tutte le cose durante il divenire. Il dilemma, comunque, per i limiti e le imperfezioni che caratterizzano gli umani, è comprendere se l'idea sia già in sé "autocontraddittoria" oppure se lo diventi dopo, nel momento in cui l'idea (mediata e a causa di questa "mediazione") diventa "realtà" (l'energia-materia che acquista forma, con origine dal "mondo quantico"). Ovviamente la risposta può essere soltanto relativa, soggettiva, a seconda dell'esperienza, della conoscenza, della visione che ciascuno ha della vita, dell'universo e delle sue leggi. Postulare, perciò, che il pensiero collegato al mondo delle idee universali sia contraddittorio in sé perché già le idee sono autocontraddittorie vuol dire che lo è tutto l'universo e che, di conseguenza, lo sono anche, inevitabilmente, tutte le decisioni umane (individuali o collettive, sociali, politiche, istituzionali, economiche, ecc.). In questo caso, perciò, non sarebbe giustificabile nessuna "condanna" degli umani, che devono essere tutti "assolti" da ogni colpa, perché essi sono "prigionieri" del "dualismo cosmico". Certamente i cultori del mito del "libero arbitrio" non accetteranno mai l'esistenza del principio del determinismo, del meccanicismo, cui credeva Einstein, e del Destino, inteso come "la necessità dell'esser sé" di ogni cosa (uomini inclusi) che "non può non essere ciò che è", anche durante il "divenire", cioè quando si trasforma per diventare (apparentemente) "altro da sé" (il neonato, il bambino, l'adolescente, l'adulto, il vecchio). Pertanto ci sarà sempre un "dualismo" tra coloro che credono nell'Indeterminismo, il caos, e quindi la casualità, posta a base dell'universo (in particolare nel mondo subatomico, secondo il principio di indeterminazione di Heisemberg), e i sostenitori del principio del determinismo, il cosmos, la regolarità e immutabilità delle leggi della fisica generale. Anche se, a dire il vero, e in linea con quanto già sopra accennato, non si possa escludere che sia il "determinismo" che "l'indeterminismo" siano coesistenti, coessenziali, come l'energia e la materia, perchè come sosteneva Hegel "la verità è nel tutto" ed Eraclito affermava che "la saggezza consiste nel comprendere il governo del tutto mediante il tutto". Un "Tutto", quindi, che si manifesta in forma "duale" nel divenire, nel quale appare, e perciò anche il dualismo "senso-non senso" dell'esistenza umana. Anche se risulta arduo comprenderne la "ragione" mediante la "ragione" perché questa non è un assoluto ma soltanto un "mito" umano. La c.d. "ragione", infatti, se vi è dualismo, come appare nelle cose, non può non essere commista con l'anti-ragione, o con l'irrazionalità, la quale coabita nel subconscio unitamente all'Io e al superIo. La "commistione", quindi, la "simbiosi", come tra l'energia e la materia, dev'essere, perciò, il paradigma mentale che deve guidare ogni ricerca del pensiero umano. Anche  in ordine alla ricerca del  "senso", mettendo in conto che esso possa essere un tutt'uno col "non senso", anche quando le convenzioni umane impongano separazioni e differenze, premi e punizioni, elogi e sanzioni, a seconda del "senso e del non senso". E ciò è inevitabile perché purtroppo il "pensiero umano" non è libero ma è socialmente condizionato, segregato e plasmato dalle "regole" politiche generali, morali e religiose che governano gli aggregati civili, la mente e la psiche umana. E così anche la "ragione", il "logos" mitizzato dalla civiltà occidentale, diventa in assoluto inaffidabile, e di ciò se ne ha prova quando i governi decidono di mandare al "massacro" i popoli e di annientare i sogni dei giovani per degli illusori segni, simboli e ideologie, come narra Ignazio Silone ne "La scuola dei dittatori", anziché sedersi a un tavolo della diplomazia per trovare almeno una soluzione possibile tra le infinite soluzioni. E allora, stando così le cose (senza prova contraria, peraltro difficile a darsi), occorre ora affrontare la seguente domanda: esiste un senso in sé, in generale, e della stessa vita ? Una canzone dal titolo "Un senso" di un noto artista italiano contiene il seguente brano: «Voglio trovare un senso a questa vita / Anche se questa vita un senso non ce l'ha ». Gli artisti, si sa, hanno una sensibilità particolare che consente loro di travalicare i limiti della "ragione" e di avvicinarsi al "senso ontologico" delle cose e del Tutto. Bisogna, perciò, tenerne sempre conto, ma non si può, ovviamente, abdicare mai la verifica, la ricerca del fondamento mediante il proprio pensiero. Ed è proprio questo che fa subito emergere l'aporia, la contraddizione in sé, del predetto brano musicale: se si ritenga, infatti, che la vita non abbia senso, allora non ha senso cercare (trovare) un senso. Invece è evidente l'errore di escludere, a priori, che "la vita abbia un senso in sé stessa" (così come la sua antagonista: la morte). Certamente questa soluzione ridimensiona l'uomo e il suo egocentrismo ma consente di comprendere che non è vero che non esista alcun senso, in assoluto, ma che invece il senso esista, come "senso in sé", sia della vita che di tutte le cose, e inoltre che questa "conclusione" non impedisce agli uomini di darsi e dare un senso, ma con la consapevolezza di essere delle "maschere" (non a caso detti "persone", ossia "maschere") ma anche delle "macchine biologiche programmate" (come, ad es., l'apoptosi). Un modo, seppur indiretto, per "dimostrarlo", tra i tanti possibili, risulta essere quello relativo ad alcuni rituali fondamentali esistenti in natura. Il primo è certamente quello del "corteggiamento", finalizzato alla riproduzione. Tutte le specie viventi sono "schiave" di tale rituale, che prelude la selezione del partner. Solitamente è il "maschio" che si esibisce, come in teatro, assumendo le "pose" più ardimentose, ma anche "ridicole", al tempo stesso. Si ostentano piumaggi, suoni, canti, stridii, muscoli, e si fa ricorso alla "competizione", alla "lotta", tra gli aspiranti per il primato dell'accoppiamento. La "femmina" solitamente attende che la "contesa" abbia termine, e a volte sceglie anche il partner che ritenga più idoneo allo scopo (questa libertà di scelta e anche d'iniziativa sono diventate, ormai, "patrimonio culturale" di buona parte del "mondo occidentale"). In natura, quindi, tutto avviene secondo la "competizione" in vista dell'accoppiamento per la "riproduzione". È questo, quindi, il "trofeo", il "premio" in palio, che consente la trasmissione del "patrimonio genetico" e la prosecuzione della specie. Anche gli esseri umani soggiacciono alle stesse leggi della natura. Ma essi, che hanno anche il "dono" della fantasia, frutto della follia che abita l'inconscio, ci aggiungono anche altro, che è il prodotto della società e della cosiddetta "civiltà": i riti. Sono questi, infatti, che più di tutto marcano la differenza tra gli umani e le altre specie viventi, e non perché queste ultime non abbiano i propri "riti", giacché anch'esse ne hanno (secondo natura), ma perché gli umani hanno anche l'esigenza di "dare senso" alle proprie azioni, per cui "inventano" rituali, spesso bizzarri ed estrosi, che a volte travalicano ogni (buon) senso, fino al punto che "il senso non ha più alcun senso". Per comprendere queste "pazzie" tipiche del mondo umano è sufficiente riflettere sulla complessità e varietà dei "corteggiamenti", ma anche sull'accoppiamento, che precede, prescinde, o segue il rituale del "matrimonio", che spesso si conclude con i "festeggiamenti" a cui prendono parte "processioni" di invitati. Lo stesso dicasi per i "rituali" politici, istituzionali, sociali prescritti dalle "regole" giuridiche, etiche, morali, religiose, che a volte non hanno alcun collegamento col reale, col naturale, "costringendo" gli individui e le masse a credere o accettare per fede (o per appartenenza) che simboli e segni abbiano in sé ed esprimano principi e valori "assoluti", trascendenti, metafisici, senza rendersi conto che durante lo spazio-tempo del divenire, senza il libero pensiero, "un essere relativo e finito non può capire e scoprire l'assoluto né l'infinito". E ciò nonostante, gli umani  continuano a voler imporre in generale le loro produzioni, sacralizzandole con i riti, come se fossero l'espressione della "verità". Alla base, comunque, dell'esistenza, sia umana che non, vi è, come detto, la "competizione" che, in generale, secondo natura, è finalizzata alla "riproduzione". La competizione, perciò, e la riproduzione costituiscono, in generale, i veri fondamentali della natura di tutti gli esseri viventi e delle organizzazioni umane. Anche le "leggi", quindi, così come la competizione per l'assunzione di funzioni e ruoli pubblici, hanno come substrato, più o meno inconscio, dominato dall'economia della specie, il fine della "riproduzione". In ordine a quest'ultima giova sottolineare che essa nell'élite intellettuale e creativa tende spesso a "sublimarsi" e, così, l'élite trae "piacere"  dalla creazione di prodotti artistici, culturali, politici, economici, ovvero, nel campo istituzionale, mediante la identificazione col potere costituito, e, nel mondo religioso, con la missione verso il trascendente. La riproduzione, perciò, quale esigenza primaria ed essenziale per la natura, interconnessa con la competizione, nel consorzio umano impone il suo "senso in sé", non curandosi  del "senso-nonsenso umano" che mediante la divaricazione dell'intelletto, per esigenze socio-politiche, oltre che psicologiche dell'individuo, spinge a "dissociare" "l'essere" dal "dover essere", mediante l'apparire (che tuttavia è anch'essa una forma della "competizione"). E cosi può accadere di assistere a "rituali" pubblici, privati e sociali del tutto analoghi a quelli tipici dell'infanzia o dell'epoca dei miti, seppur celebrati con "solennità". Esigenze tutte umane di "dare senso" e credere di essere la "specie prescelta" e di avere il primato assoluto sia in natura che su tutte le altre specie viventi. Ma soprattutto di voler credere di "essere altro" rispetto a ciò che realmente si è e che si manifesta nel "circolo dell'apparire", come sosteneva E. Severino. Tutto comunque, e si ribadisce, si muove sempre in base alla competizione (negli umani solo un gamete, tra diversi milioni, feconda l'ovocita). Nulla e nessuno la può impedire perché essa è alla base della natura (anche la pandemia virale costituisce un esempio di "competizione" tra specie diverse) ed ha senso "in sé stessa". Tale "competizione" in ambito sociale viene disciplinata mediante le "regole" e le istituzioni. Lo sport, come ad es. il calcio, ne costituisce l'esempio per eccellenza, dove il "trofeo" (la coppa) costituisce l'equivalente simbolico del risultato dell'accoppiamento e "riproduzione sessuale o intellettuale". Il "frutto" è il trofeo in palio, la coppa, come l'elezione alla carica pubblica è il premio della competizione elettorale (e il "posto fisso", il premio del concorso pubblico). Certamente senza né regole socio-politiche né istituzioni tutti gli umani sarebbero preda delle basilari "pulsioni naturali" (alimentari, per la sopravvivenza, e sessuali, per la prosecuzione della specie), che pur tuttavia, seppur in modo più o meno inconscio, continuano ad orientare i comportamenti degli umani, singoli e associati. E tanto è vero che analizzando i criteri di distribuzione delle risorse economiche prodotte dalle società "civili" ben si coglie come tali risorse siano distribuite sulla base (iniqua ma resa legale dai legislatori) della "competizione" tra le diverse funzioni e ruoli pubblici e privati, secondo gerarchie più o meno rigide tra classi e caste. Relativamente a queste va detto che la "democratizzazione della Repubblica", come è accaduto nel dopoguerra in Italia (ma anche in molti altri Stati europei), ha consentito di superare le dure ed estreme contrapposizioni sociali di stampo ottocentesco, ben analizzate e sviluppate nel Manifesto del 1848 e nel Capitale di K. Marx, che, secondo la logica dialettica dell'ineludibile conflitto tra le classi, avrebbero dovuto portare la "classe proletaria" (operai e contadini) alla conquista del potere politico diventato prerogativa della "borghesia", che lo aveva sottratto alla "classe feudataria". Per effetto della "democratizzazione", che ha "imborghesito" i proletari, come argutamente osservato dal filosofo Aldo Masullo nella relazione "crisi della fenomenologia e fenomenologia della crisi", la contrapposizione tra le classi si è diluita e affievolita, soprattutto dopo i "moti del 1968". La "contrapposizione democratica", così, nell'attuale Repubblica, ha ridimensionato il potenziale "rivoluzionario" della "classe proletaria" e ha assunto la forma e la natura della "competizione" tra molteplici "gruppi di interessi" (partiti, in primis, sindacati, corporazioni professionali, burocratiche, istituzionali, associazioni, ecc.). La "competizione" è ora la "regola" delle diverse dinamiche sociali per l'accaparramento delle risorse economiche (il "premio") direttamente e indirettamente finalizzate alla "riproduzione" (scegliere o essere scelti dal partner), o alla sublimazione (assunzione ed esercizio del potere o realizzare opere d'arte). L'esperienza, però, soprattutto di questi ultimi tempi, ha reso evidente che la "competizione", quando concerne gli Stati, può spingersi finanche nel campo bellico nel quale, a causa dell'esistenza delle pulsioni distruttive nell'inconscio umano, è la soppressione della vita del "nemico" che diventa il "trofeo" da conquistare. E così gli "Stati", strumenti idonei ad esaltare le virtù dei cittadini, quando mal governati, diventano  amplificatori delle "pulsioni distruttive"  e strumenti di morte anziché di vita. Perciò non bisogna mai sopprimere gli "anticorpi politici" per impedire che qualunque umano, a qualsiasi vertice si collochi nella gerarchia politica, possa avere il potere assoluto di "mandare al macello" il "Popolo" di cui è parte. Già troppe inutili e futili tragedie hanno funestato la "storia". Basta, perciò, col "rito della potenza" fine a sé, per alimentare la "potenza" perché alla fine sarà la stessa potenza a distruggere sé stessa. La conoscenza finora acquisita, anche grazie all'eredità ricevuta  dalle generazioni passate, dalla cultura, dalla scienza e dalla tecnologia, fa tuttavia ben sperare e ritenere che il (buon) senso umano, per evitare l'estinzione della specie, trasferisca, prima o poi, tutte le divergenze nel solo campo della "competizione", economica, politica e "intellettuale". La competizione, pertanto, per il bene comune e collettivo, incluso quello degli Stati, dovrà essere "democraticamente" estesa in tutti gli ambiti, sia locali che "nazionali" e internazionali. Non vi è dubbio che la "competizione" metterà da parte le odierne civiltà più "evolute" (e anche l'attuale democrazia, come già si coglie dai segnali che si registrano sia all'interno che all'esterno dell'Italia). Ma questa sarà solo la prova dell'esistenza del ciclo vitale di tutto ciò che esiste in natura, la quale, come tale, e come detto, ha "senso in sé", così come la "competizione", che potrà salvare la specie umana se ben intesa e praticata in linea col motto: L'importante non è vincere, ma partecipare. 

 
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