LA CASSAZIONE DICE NO AI TELEFONINI IN CABINA ELETTORALE

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LA CASSAZIONE DICE NO AI TELEFONINI IN CABINA ELETTORALE

NESSUN SMARTPHONE IN CABINA 

Con la Sentenza n. 9400/2018 la Corte di Cassazione ha chiarito la fattispecie punitiva prevista dall’art.1 del D.L. n. 96/2008, il quale stabilisce che durante le consultazioni elettorali o referendarie è vietato introdurre all’interno delle cabine elettorali telefoni cellulari o altre apparecchiature in grado di fotografare o registrare immagini; punendo con l’arresto da tre a sei mesi e con l’ammenda da 300 a 1.000 chi contravviene a tale disposizione.

Nel caso affrontato dalla Corte Suprema, il ricorrente aveva impugnato la sentenza della Corte d’Appello di Firenze, la quale, pur confermando il giudizio di colpevolezza in relazione alla fattispecie imputata, in parziale riforma della sentenza di primo grado, condannava l’imputato alla pena pecuniaria di euro 15.000 in luogo della pena detentiva.

A sostegno del ricorso, la difesa del ricorrente obiettava che per la concreta applicazione della fattispecie incriminatrice, difettava nel caso de quo, la ritenuta condizione di procedibilità di cui al secondo comma della norma citata.

In particolare, il ricorrente assumeva vizio di violazione di legge laddove non era stato valutato che nel caso de quo difettava l’invito del presidente di seggio a non introdurre nella cabina il mezzo di riproduzione visiva.

L’interpretazione offerta non ha tuttavia persuaso i Giudici di Legittimità che, al contrario, hanno confermato, richiamando il dato letterale della norma, che la condotta costituente reato è esclusivamente quella descritta nel comma primo (Nelle consultazioni elettorali o referendarie è vietato introdurre all’interno delle cabine elettorali telefoni cellulari o altre apparecchiature in grado di fotografare o registrare immagini. 2. Il presidente dell’ufficio elettorale di sezione, all’atto della presentazione del documento di identificazione e della tessera elettorale da parte dell’elettore, invita l’elettore stessa depositare le apparecchiature indicate al  comma 1) e che il secondo e terzo comma, lungi da poter essere considerati condizione di procedibilità o punibilità del reato dettano solo oneri per il presidente di seggio, la cui inosservanza è priva  di conseguenze penali.

Tanto è vero che il quarto comma della citata norma, nel dettare la sanzione penale in caso di inosservanza, fa esclusivo riferimento alla condotta descritta al primo comma, e non già agli adempimenti posti a carico del presidente, dacchè è stata confermata la correttezza della decisione impugnata.

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Nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge

L’aumento in bolletta voluto dall’Autorità per l’Energia  è illegittimo

Nessun potere impositivo dunque in capo all’Autorità la cui Deliberazione N°50 del 1 febbraio 2018 deve considerarsi contraria alle norme di rango costituzionale, quali il principio di legalità di cui all’art. 23 Costituzione

Con le Sentenze n. 5619 e 5620 pubblicate entrambe il 30.11.2017, il Consiglio di Stato interviene sulla questione – già lungamente dibattuta presso il TAR Lombardia che aveva affrontato la questione con diverse pronunce emesse tra il 2015 e il 2016 – relativa alla legittimità di diverse deliberazioni dell’Autorità per l’Energia Elettrica il Gas ed il Sistema Idrico (d’ora in poi A.E.E.G.S.I.), con particolare riferimento al “codice di rete tipo per il servizio di trasporto dell’energia elettrica”, nella parte in cui “introduce una nuova disciplina in materia di garanzie per l’accesso al servizio di trasporto, di fatturazione del servizio e dei relativi pagamenti” e “dispone che gli utenti del servizio di trasporto e vendita dell’energia (c.d. “traders”) debbono prestare garanzie alle imprese distributrici di energia elettrica.
La questione concerneva i corrispettivi degli oneri generali del sistema elettrico e alla possibilità che A.E.E.G.S.I. possa imporre ai traders obblighi di garanzia a favore dei soggetti distributori in caso di inadempimento delle obbligazioni gravanti ex lege sui clienti, utenti finali del servizio.
Per una migliore comprensione del thema decidendum, va premesso che “oneri generali di sistema” sono i costi relativi agli incentivi per le fonti rinnovabili e i costi da destinare a finalità sociali, di tutela ambientale e di uso efficiente delle risorse. Sono fissati per legge e, ai sensi dell’art. 39, co. 3, del D.L. 83/2012 vengono fatturati dal Distributore verso il venditore che dovrà riversarli alla Cassa per i Servizi Energetici e Ambientali (CSEA), oltre che alla società Gestore dei servizi Energetici.
Conseguentemente tali oneri generali di sistema si ritrovano inclusi nella bolletta elettrica e vengono parametrati al costo effettivo dell’energia e del servizio reso in favore del consumatore finale: gli interventi di A.E.E.G.S.I. sono stati nel senso di prevedere, a carico dei traders (il soggetto che porta l’energia nelle singole case) e laddove il cliente finale fosse rimasto inadempiente, di fornire garanzie idonee in favore del distributore affinchè quest’ultimo non avesse a risentire della morosità accumulata dai clienti finali.
Calcolando che il debito attuale in circa 1 miliardo di euro (ma la cifra è solo approssimativa),
l’ A.E.E.G.S.I. dopo essersi vista annullare in sede giurisdizionale, le precedenti deliberazioni che volevano tale debito a carico dei Traders, ha adottato una Deliberazione a dir poco sconcertante e certo tale da pesare sulle tasche dei cittadini, per cui tutta la morosità accumulata dal 1° gennaio 2016 sarà posta a carico dei cittadini in regola con i pagamenti!
A fondamento della Delibera (la n. 50 del 1° Febbraio 2018) l’Autorità ha posto l’esigenza di far fronte all’inadempimento dei venditori verso i distributori che tuttavia, hanno provveduto al pagamento verso la Cassa dei Servizi energetici Ambientali di quegli oneri di gestione che, tuttavia, stando alle pronunce della giustizia amministrativa, devono restare a carico degli Utenti Finali.

“Un gioco di parole per salvaguardare i Potenti a spese dei cittadini onesti e rispettosi degli impegni assunti”

Cerchiamo di fare ordine:
il risultato finale di oltre dieci procedimenti aperti presso il TAR Lombardia e culminati presso il Consiglio di Stato, è stato nel senso di precisare che i poteri attribuiti all’Autorità, sono quelli previsti dall’art. 2, co. 12, lett. e) della Legge n. 481/1995stabilisce e aggiorna… le tariffe di base, i parametri e gli altri elementi di riferimento per determinare le tariffe, di cui ai commi 17, 18 e 19, nonché le modalità per il recupero dei costi eventualmente sostenuti nell’interesse generale in modo da assicurare…la realizzazione degli obiettivi generali di carattere sociale, di tutela ambientale e di uso efficiente delle risorse di cui al comma 1 dell’articolo 1″e, soprattutto, ha escluso che l’Autorità, in forza della disposizione richiamata, possa ritenersi autorizzata ad intervenire a gamba tesa sui rapporti contrattuali tra distributore e venditore o tra questi e il cliente finale.
La sentenza del Consiglio di Stato – che pure, nella deliberazione n. 50/18, è stata assurta dall’Autorità, come presupposto fattuale da cui far discendere la “nuova” imposizione a carico dei cittadini – richiamando l’art. 3, comma 10 e 11 del Decreto Legislativo n. 79/99, ha piuttosto ribadito che l’Autorità ha SOLO il potere di individuare gli oneri generali di sistema, con “conseguente adeguamento del corrispettivo” relativo all’accesso e all’uso della rete di trasmissione.
Nessun potere impositivo dunque in capo all’Autorità la cui Deliberazione deve considerarsi contraria alle norme di rango costituzionale, quali il principio di legalità di cui all’art. 23 Costituzione (“Nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge.”) e norme di estrazione comunitaria che impongono il rispetto dei principi di economicità e ragionevolezza, da considerarsi come principi immanenti alla materia della produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia.
In definitiva, la conclusione cui è pervenuto il Consiglio di Stato, si ribadisce, di segno contrario alle affermazioni contenute nell’ultima Deliberazione di A.E.E.G.S.I., è nel senso di escludere alcun potere impositivo a carico dell’Autorità o di un terzo che non sia espressamente prevista dalla legge (e che si possa essere obbligati a pagare debiti altrui non è previsto da alcuna legge né nazionale né sovranazionale!); e soprattutto, nel dare atto che l’attuale compendio normativo evidenzia il “difetto di una previsione legislativa circa il soggetto che subisce le conseguenze dell’inadempimento dei clienti finali”.
Un vuoto normativo dunque, che impone un intervento del legislatore e non certo un colpo di coda ad opera di un’Autorità Amministrativa Indipendente a tutela dei poteri forti e – come sempre – a discapito dell’anello più debole della filiera.
Procedendo di questo passo, dopo il canone RAI, dopo gli oneri dell’energia, ci si dovrà forse aspettare che il cittadino onesto debba sostenere anche tutti i debiti per tasse non pagate da altri; per canoni di locazione delle case popolari; per sanzioni amministrative e chissà che altro ancora!?
È evidente che ammettere, legittimandolo, un sistema impositivo siffatto, significherebbe stravolgere, anzi, abbattere il sistema di garanzie sotteso alla Carta Costituzionale e alle norme di rango sovranazionale che vogliono il Cittadino al centro del sistema di tutele e guarentigie a difesa della personalità umana.

“Il buon cittadino è quello che non può tollerare nella sua patria un potere che pretende d’essere superiore alle leggi”

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legge 104/92: Legittimo il rifiuto del dipendente al trasferimento se gode delle tutele previste dalla legge

Legge 104/92

Legittimo il rifiuto del dipendente al trasferimento se gode delle tutele previste dalla legge 

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La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 24015 del 12 ottobre 2017, si è espressa sulla questione della possibilità o meno di trasferire il lavoratore dipendente che usufruisca dei permessi ex legge 104/1992 per assistere un familiare disabile.
Il caso, nella specie, ha riguardato il ricorso di un lavoratore (dipendente presso un carcere, addetto alla mensa) il quale si era visto licenziare a seguito di un suo rifiuto ad essere trasferito in altra sede aziendale, seppur questa nuova unità era distante pochi chilometri dalla precedente e, comunque, entro lo stesso Comune.
Sia il Tribunale che la Corte d’Appello avevano rigettato il ricorso del lavoratore contro il licenziamento. Per entrambi i giudici del merito, infatti, sebbene il lavoratore fosse in possesso dei requisiti di cui alla Legge n. 104/1992, il trasferimento doveva ritenersi legittimo.
La pronuncia della Cassazione che accoglie il ricorso del lavoratore, assume rilievo in quanto afferma un importante principio di diritto: il lavoratore che fruisce dei permessi ex legge 104 non può essere trasferito, perché verrebbe violato il più rigoroso regime di protezione di cui egli gode per il fatto che assiste un familiare in situazione di handicap.
Viene chiarito, pertanto, che, nel valutare il trasferimento del dipendente che fruisce dei permessi mensili per l’assistenza di familiari disabili, non può operare il riferimento posto dall’articolo 2103 del codice civile al concetto di unità produttiva (“Il lavoratore non può essere trasferito da un’unità produttiva ad un’altra se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive”.).
Il riconoscimento al lavoratore dello speciale regime di protezione ha come obiettivo la tutela del diritto del congiunto a mantenere invariate condizioni di assistenza nel rispetto di quanto previsto dalla Costituzione oltre che dalla Carta di Nizza (che salvaguarda il diritto dei disabili di beneficiare di misure rivolte al loro inserimento sociale) e dalla Convenzione delle Nazioni Unite del 13 dicembre 2006 in materia di protezione dei disabili.
Ed infatti, alla luce delle richiamate fonti, sostengono gli Ermellini: “L’efficacia della tutela della persona con disabilità si realizza, per quanto rileva nella fattispecie in esame, anche mediante la regolamentazione del contratto di lavoro in cui è parte il familiare della persona tutelata, in quanto il riconoscimento di diritti in capo al lavoratore è in funzione del diritto del congiunto con disabilità alle immutate condizioni di assistenza.”.
In buona sostanza, per la Cassazione il lavoratore che usufruisce dei permessi della richiamata legge, ha il diritto di scegliere la propria sede di lavoro, che solitamente sarà la più vicina al domicilio del disabile da lui assistito. Inoltre, egli non potrà essere trasferito in un’altra sede dell’azienda senza che abbia dato il proprio consenso.
E lo stesso principio – in deroga al citato art. 2103 c.c. – vale anche se il trasferimento non comporta lo spostamento ad una nuova unità produttiva o si realizza nell’ambito dello stesso Comune.
Orbene, in questo contesto, volto a chiarire i vincoli legati al trasferimento del lavoratore che usufruisce dei permessi previsti dalla Legge 104/92, l’unico limite che la Suprema Corte individua è quello che si verifica quando il datore di lavoro dimostri l’esistenza di specifiche esigenze tecnico-produttive od organizzative, le quali impediscono una soluzione diversa dal mutamento geografico del posto di lavoro. Per cui il datore di lavoro dovrà dimostrare che tali ragioni possono essere soddisfatte solo con il trasferimento del lavoratore in questione. Il trasferimento infine potrà avvenire in caso comprovato di incompatibilità ambientale del dipendente o per la definitiva soppressione del posto di lavoro.
Per la Cassazione, diviene fondamentale valorizzare al massimo le esigenze di assistenza e di cura del familiare disabile del lavoratore nel momento in cui si effettua il necessario bilanciamento di interessi e di diritti del lavoratore e del datore di lavoro “occorrendo salvaguardare condizioni di vita accettabili per il contesto familiare in cui la persona con disabilità si trova inserita ed evitando riflessi pregiudizievoli dal trasferimento del congiunto ogni volta che le esigenze tecniche, organizzative e produttive non risultino effettive e comunque insuscettibili di essere diversamente soddisfatte”.
La Corte d’appello dovrà quindi tornare a pronunciarsi sulla vicenda, tenendo conto dei principi di diritto enunciati dalla Cassazione con la sentenza in commento, che possono così sintetizzarsi: “Il trasferimento del lavoratore legittima il rifiuto del dipendente che ha diritto alla tutela di cui all’art. 33 c. 5 della L. n. 104 del 1992 di assumere servizio nella sede diversa cui sia stato destinato ove il trasferimento sia idoneo a pregiudicare gli interessi di assistenza familiare del dipendente e ove il datore di lavoro non provi che il trasferimento è stato disposto per effettive ragioni tecniche, organizzative e produttive insuscettibili di essere diversamente soddisfatte” .
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INCIDENTE AUTO MOTO

INCIDENTE AUTO MOTO

MOTOCICLISTA CORRESPONSABILE SE SORPASSA LE AUTO INCOLONNATE

 

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La pronuncia in commento – emessa dalla Terza Sezione Civile della Corte di Cassazione con ordinanza n. 26805 del 14/11/2017 – chiarisce una questione da sempre dibattuta nel settore del contenzioso dell’infortunistica stradale, oltre a rappresentare, nel non certo secondario ambito relativo alla figura del danno non patrimoniale, un’ulteriore e significativa tappa volta a riaffermarne l’unitarietà.

Il caso concreto portato all’attenzione della Suprema Corte è incentrato sulla richiesta di accertamento della responsabilità nella causazione dei danni subiti da parte di un motociclista coinvolto in un sinistro stradale, il quale, sebbene non avesse oltrepassato la linea divisoria di mezzeria, aveva superato a sinistra le auto incolonnate nel traffico e veniva travolto da un’autovettura che nel medesimo senso di marcia azzardava un’improvvisa, quanto mai repentina, manovra di inversione.

La Cassazione, dunque, con l’intento di porre un freno alla malsana e più che frequente abitudine posta in essere dai motociclisti di superare le auto incolonnate nel traffico dei centri urbani, è giunta a stabilire il concorso di colpa tra i due utenti della strada.

Infatti, anche se si tratta di una norma desueta nelle nostre città, il codice della strada (artt. 143 e 148, comma 11) vieta il sorpasso di veicoli fermi o in lento movimento ai passaggi a livello, ai semafori o per altre cause di congestione della circolazione, quando a tal fine sia necessario spostarsi nella parte della carreggiata destinata al senso opposto di marcia.

Per gli Ermellini, dunque, se da una parte è stata ritenuta indubbia e non contestata la violazione di regole della circolazione stradale da parte dell’automobilista che ha fatto un’inversione di marcia senza porre la dovuta attenzione; dall’altra, tuttavia, è stato riconosciuta altrettanto incontestabile la violazione del codice della strada da parte dello scooterista che transitava sul lato sinistro della corsia di pertinenza nel tentativo di superare le auto incolonnate.

In buona sostanza, i conducenti, siano essi automobilisti o motociclisti, sono tenuti a procedere sul margine destro della strada anche quando la carreggiata è libera e nel caso di incidente stradale potrà essere applicato un concorso di colpa.

Il senso della prima parte della pronuncia in esame è chiaro: poiché è proprio la velocità con cui sfrecciano i motorini che rende spesso difficile accorgersi della loro presenza e, quindi, evitarli, il conducente che non si sia accorto per tempo dello scooter, anche nell’ipotesi come quella del caso di specie di violazione delle norme del codice della strada, ha una responsabilità ridotta.

La Suprema Corte, inoltre, è stata chiamata a pronunciarsi sulla censura mossa dal ricorrente che si doleva del fatto che, nell’operazione di liquidazione, il Giudice del gravame non aveva considerato il danno esistenziale patito dal motociclista.

Nell’accogliere parzialmente la censura, la Suprema Corte ha avuto modo di riconfermare l’unitarietà del danno non patrimoniale, inteso come categoria onnicomprensiva e composta dalle sottocategorie del danno biologico, morale ed esistenziale e, con particolare riguardo a quest’ultima sottocategoria, ha stigmatizzato il tentativo di attribuirle un’autonomia propria.

Ebbene, ripercorrendo il granitico orientamento formatosi sul punto nella giurisprudenza di legittimità, la Corte ha individuato nelle indicazioni dettate dalle note sentenze di S. Martino (SSUU 26972/2008) il perno su cui fondare la propria decisione – la natura unitaria del danno non patrimoniale – che deve essere intesa come unitarietà rispetto alla lesione di qualsiasi interesse costituzionalmente rilevante non suscettibile di valutazione economica. Laddove per natura unitaria deve intendersi che non v’è alcuna diversità nell’accertamento e nella liquidazione del danno causato dal vulnus di un diritto costituzionalmente protetto diverso da quello alla salute, sia esso rappresentato dalla lesione della reputazione, della libertà religiosa o sessuale, della riservatezza, piuttosto che di quella al rapporto parentale.

Ciò detto si specifica ulteriormente che l’unitarietà della figura importa la sua onnicomprensività; il che significa che, nella liquidazione di qualsiasi pregiudizio non patrimoniale, il giudice di merito deve tener conto di tutte le conseguenze che sono derivate dall’evento danno, nessuna esclusa, con il concorrente limite di evitare duplicazioni risarcitorie, attribuendo nomi diversi a pregiudizi identici, e di non oltrepassare una soglia minima di apprezzabilità, onde evitare risarcimenti c.d. bagattellari (e così anche: Cass. n. 4379/2016).

Quello che qui emerge chiaramente – e che la Suprema Corte ancora una volta si affretta a precisare – è che non va attribuita alcun tipo di autonomia alle singole voci del danno non patrimoniale (esistenziale, morale o biologica), dovendo queste essere considerate come componenti meramente descrittive di un’unica categoria, quella del danno non patrimoniale, appunto. Sarà poi il giudice, all’atto della liquidazione, a considerare ogni tipo di pregiudizio subito dalla vittima, c.d. personalizzazione del danno, andando a considerare anche gli aspetti dinamico-relazionali che si sono modificati in conseguenza del fatto illecito.

La Corte affronta, quindi, la questione relativa alle lesioni micro-permanenti, in presenza delle quali non deve escludersi che possano esserci conseguenze rilevanti sulla vita relazionale della vittima, poiché “resta ferma la distinzione concettuale tra sofferenza interiore e incidenza sugli aspetti relazionali della vita del soggetto”.

Ogni vulnus arrecato ad un interesse tutelato dalla carta costituzionale – precisa la Corte – si caratterizza per la sua doppia dimensione del danno relazionale/proiezione esterna dell’essere e del danno morale/interiorizzazione intimistica della sofferenza.

Il riferimento è all’art. 138 Cod. ass. (D.lgs. 206/2005), modificato dall’art. 1, co. 17, L. 04.08.2017, n. 124, dedicato al danno non patrimoniale per lesioni di non lieve entità. Per queste ultime è ammessa una personalizzazione del danno che sfugge da liquidazioni standard, cioè fissate dal legislatore, al fine evidente di contenere i costi sociali derivanti anche dai premi assicurativi, dato che la materia della circolazione stradale (il caso di specie della sentenza in commento) vede la copertura assicurativa non già facoltativa ma obbligatoria.

Tuttavia, si deve tenere fermo il principio secondo il quale, sia per le lesioni di lieve entità che per quelle gravi, il danno non patrimoniale deve comprendere anche gli aspetti esistenziali della vittima.

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BOCCIATURA DA ANNULLARE SE LA SCUOLA NON INFORMA IL GENITORE SEPARATO

BOCCIATURA DA ANNULLARE SE LA SCUOLA NON INFORMA IL GENITORE SEPARATO

 

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Il TAR Friuli Venezia Giulia con la sentenza n. 312/17 ha dato attuazione al principio della bigenitorialita’ così come inteso nel nostro Ordinamento, con la legge 54/2006 che ha sancito il diritto del bambino, anche in caso di separazione dei genitori, a mantenere un rapporto equilibrato e continuativo, indicando a tal fine l’istituto dell’affidamento condiviso.

A ricorrere al Giudice Amministrativo e’ stato un padre che, nonostante avesse avvisato la scuola media frequentata dal figlio, dell’intervenuta separazione dal coniuge, era stata estromesso dalle comunicazioni infra annuali circa il rendimento scolastico del ragazzo, con la conseguenza che l’Istituto ne aveva disposto la mancata ammissione alla classe successiva.

Il TAR muovendo dunque dal principio per cui, per quanto concerne la responsabilità genitoriale e le questioni afferenti all’ambito educativo del minore, di regola, in base all’attuale assetto normativo, entrambi i genitori hanno pari responsabilità e che essa deve essere esercitata di comune accordo, tenendo conto delle capacità, delle inclinazioni e delle aspirazioni del figlio, ha accolto il ricorso proposto dal papà e annullato il provvedimento di non ammissione, in base al presupposto per cui, con un giudizio prognostico, ben si può sostenere che laddove la scuola avesse tempestivamente comunicato anche al padre, delle difficoltà di apprendimento riscontrate nel ragazzo, questi avrebbe, come era già successo in passato, potuto approntare i correttivi necessari atti ad impedire la bocciatura.

Già il Ministero dell’Istruzione infatti, con la circolare n. 5336/2015 aveva sollecitato gli Istituti Scolastici, in conformità alla normativa vigente, a dare piena attuazione al principio della bigenitorialita’ a cui, ogni minore, figlio di genitori separati, ha diritto e, in particolare, il MIUR segnalava, fra le azioni amministrative da intraprendere, l’inoltro , da parte degli uffici di segreteria delle istituzioni scolastiche di ogni ordine e grado, di tutte le comunicazioni – didattiche, disciplinari e di qualunque altra natura – anche al genitore separato/divorziato/non convivente, sebbene non collocatario dello studente interessato; l’individuazione di modalità alternative al colloquio faccia a faccia, quando il genitore non collocatario risieda in altra città o sia impossibilitato a presenziare personalmente; richiesta della firma di ambedue i genitori in calce ai principali documenti (in particolare la pagella), qualora non siano in uso tecnologie elettroniche ma ancora moduli cartacei.

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L’ISCRIZIONE NELLA CENTRALE RISCHI DELLA BANCA D’ITALIA COMPORTA, SE ILLEGITTIMA, IL RISARCIMENTO DEI DANNI

 

L’ISCRIZIONE NELLA CENTRALE RISCHI DELLA BANCA D’ITALIA COMPORTA, SE ILLEGITTIMA, IL RISARCIMENTO DEI DANNI

La segnalazione di una sofferenza da parte dell’intermediario finanziario alla centrale rischi della Banca d’Italia implica una valutazione finanziaria negativa circa la posizione complessiva del cliente e, pertanto, non può seguire ad un semplice ritardo.

Con la sentenza n. 2748  la Corte d’Appello di Milano è intervenuta a statuire circa la richiesta di risarcimento danni (rigettata in primo grado) avanzata da una società a responsabilità limitata per essere stata illegittimamente segnalata alla Centrale dei Rischi della Banca di Italia da parte di una società finanziaria, la quale aveva ritenuto erroneamente non pagate alcune rate di un leasing.

L’appellante lamentava, per quel che è qui di interesse, l’omessa applicazione, da parte del giudice di prime cure, delle norme di cui alla circolare n. 139/1991 della Banca d’Italia relativamente alla segnalazione pregiudizievole alla Centrale dei Rischi, nonché la violazione, ovvero l’omessa applicazione dell’art. 4 c. 7, del codice di Deontologia e di buona condotta per i sistemi informatici gestiti dai privati. Secondo l’appellante, infatti la sentenza impugnata avrebbe erroneamente riconosciuto la legittimità delle segnalazioni fatte in assenza dei presupposti di legge.

Con specifico riferimento alla Segnalazione alla Centrale dei Rischi la Corte osserva che, ai sensi della circolare 139/1991 della Banca d’Italia, essa implica una «valutazione da parte dell’intermediario della complessiva situazione finanziaria del cliente e non può scaturire automaticamente da un mero ritardo di quest’ultimo nel pagamento del debito», presupponendo «una situazione del debitore non già di mero temporaneo e occasionale inadempimento, ma di vero e proprio stato di grave e non transitoria difficoltà economica del debitore, incapace di adempiere alle proprie obbligazioni».

Dunque, continua la sentenza, citando il costante orientamento della Corte di legittimità (cfr. Cass. n.26361/2014, Cass. n. 7958/2009, «ai fini di una corretta segnalazione a sofferenza non è sufficiente un mero ritardo nei pagamenti per giungere alla conclusione di sussistenza nel debitore di una situazione quale quella sopradescritta, bensì si richiede da parte dell’intermediario finanziario una valutazione “riferibile alla complessiva situazione finanziaria del cliente”, che quindi “deve essere determinata dal riscontro di una situazione patrimoniale deficitaria, caratterizzata da una grave e non transitoria difficoltà economica equiparabile, anche se non coincidente, con la condizione di insolvenza”».

Ed invero, ritiene la Corte, nel caso di specie «è pacifico che l’azienda non versasse in uno stato di decozione, e che la finanziaria ne fosse pienamente a conoscenza».

Dalle argomentazioni qui richiamate la Corte ha desunto l’accoglimento della richiesta di risarcimento di danno non patrimoniale, ritenendo invece non provato il danno patrimoniale.

La Corte, richiamandosi a dei precedenti giurisprudenziali di legittimità, ha infatti precisato: «è pacifica la configurabilità del risarcimento del danno non patrimoniale, che deve essere identificato come qualsiasi conseguenza pregiudizievole della lesione di diritti immateriali della personalità costituzionalmente protetti, ivi compreso quello all’immagine».

Nel caso di specie, continua la Corte, l’appellante ha dimostrato «l’illecita condotta dell’appellato, nonché la lesione all’immagine derivatale dalla perdita di credibilità finanziaria causata dal veder assimilata la propria posizione a quella di persone giuridiche in stato di insolvenza o quantomeno in difficoltà finanziaria tale da renderle inaffidabili debitrici».

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#GARANZIE DEL #CONSUMATORE

“Garanzie del Consumatore” solo per prestazioni connesse alla #vendita

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Con la Sentenza C-247/16 resa lo scorso 07.09.2017 la Corte di Giustizia Europea si è pronunciata sulla domanda pregiudiziale sollevata dal Tribunale del Land di Hannover nell’ambito di una controversia tra privati vertente su spese asseritamente sostenute dalla ricorrente per porre rimedio a vizi di un’opera.

In particolare, il Tribunale tedesco si è rivolto alla Corte Europea affinchè venisse chiarito se “l’articolo 3, paragrafo 5, secondo trattino della direttiva 1999/44 (in materia di vendita e garanzie concernenti i beni di consumo, cui si è data attuazione in Italia mediante il D. Lgs n. 24/2002) debba essere interpretato nel senso che, in base a un principio di diritto dell’Unione, in materia di tutela dei consumatori, affinchè un consumatore che ha stipulato con un venditore un contratto relativo a un bene di consumo, possa far valere i suoi diritti di garanzia secondari, sia sufficiente che tale venditore non abbia posto rimedio entro u termine ragionevole, senza che sia necessaria la fissazione, da parte del consumatore, di un termine per l’eliminazione del vizio della cosa

L’ambito di indagine sottoposto all’attenzione della Corte investe dunque la definizione di “contratto di vendita” così come riportato nella citata direttiva e in quella n. 85/374 CEE capisaldo del Codice del Consumo adottato in Italia con D. Lgs n. 206/2005.

La Corte precisa dunque che la nozione “contratto di vendita” contenuta nella direttiva 1999/44 è riferita alle vendite concluse tra venditore professionista e acquirente consumatore e che essa, in considerazione del fatto che la direttiva non contiene alcun rinvio al diritto nazionale, deve intendersi come “limitata” all’ambito di applicazione della direttiva medesima, si da costituire una nozione valevole su tutto il territorio dell’Unione a prescindere dal significato che può assumere nei singoli paesi in base al diritto interno: Ne risulta pertanto che essa deve essere considerata, ai fini dell’applicazione della direttiva, come volta a designare una nozione autonoma del diritto dell’Unione, che deve essere interpretata in modo uniforme sul territorio di quest’ultima

Fatta questa premessa, la Corte si sofferma sui contratti cui, in base al diritto nazionale, deve estendersi la nozione di “vendita”, come i contratti di fornitura di servizi o i contratti d’opera.

Sono così da considerare contratti di vendita anche i contratti di fornitura di beni di consumo da fabbricare o produrre: dacchè, ai sensi dell’art. 1, par. 4 della direttiva, il contratto avente ad oggetto la vendita di un bene che deve essere dapprima fabbricato o prodotto dal venditore, rientra nel campo di applicazione della direttiva in parola.

Esempio tipico è l’installazione: se questa presenta dei difetti, potrà essere invocata la speciale tutela consumeristica, solo laddove l’installazione costituisca un servizio connesso alla vendita del medesimo bene.

Cosicchè, in generale si può affermare che la prestazione di servizi rientra nell’ambito di applicazione della speciale tutela prevista dalla direttiva, solo laddove, la prestazione di servizi si pone come accessoria alla vendita.

Chi scrive, si è già trovato ad affrontare in sede giurisdizionale e segnatamente dinnanzi al Consiglio di Stato la delicata questione qui affrontata.

Il caso traeva origine dall’applicazione, ad opera dell’Antitrust di una sanzione a carico di una società per una pratica commerciale scorretta, dovendo trovare applicazione, in questo caso, la normativa dettata in materia di vendita e prestazione di servizi nei confronti dei consumatori.

La difesa apprestata dallo Studio poggiava sulla considerazione per cui al caso di specie non poteva applicarsi la speciale tutela invocata, in considerazione del fatto che la nozione di “vendita” così come recepita dal nostro Ordinamento e risultante dalle direttive comunitarie attuate, non fosse calzante con il particolare servizio reso dalla società sanzionata.

Il Consiglio di Stato con Ordinanza consultabile dal nostro sito (http://studiolegalecimino.eu/wp-content/downloads/sentenza_1_diritto_amministrativo.pdf) ha infatti ritenuto che la speciale normativa dettata per i consumatori, non poteva essere invocata nel caso di specie.

In conclusione, sulla base della decisione della Corte di Giustizia qui commentata, il consumatore può invocare la tutela prevista dalla speciale disciplina introdotta dalla legislazione comunitaria, solo laddove alla base della prestazione (di servizi o attività) ritenuta produttiva di effetti negativi (causa), vi sia un contratto di vendita concluso con il medesimo “professionista” che ha eseguito la prestazione “dannosa”.

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