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La vittoria di Barack Obama mi ha emozionato e impressionato. Al di là del suo valore simbolico -immenso e valutabile compiutamente solo nel corso degli anni-, c’è qualcosa di grande in una battaglia condotta in nome del cambiamento, della speranza, dei valori che tengono unita una nazione.
La storia del nuovo Presidente degli Stati Uniti è nota. Figlio di un Keniano e di un’Americana, vissuto nella sua infanzia in Indonesia, cresciuto nelle Hawaii, ha fatto gli studi superiori presso la Columbia University, dove si è laureato in Scienze Politiche, con una specializzazione in relazioni internazionali, in seguito si è laureato ad Harvard in giurisprudenza. Senatore dell’ Illinois nel 1996, senatore degli Stati Uniti nel 2004, è diventato Presidente a 47 anni dopo una travolgente campagna in cui ha sconfitto prima i Clinton e poi il suo avversario repubblicano Mac Cain.
Ma ciò che mi ha più colpito è stato vedere la macchina organizzativa fatta di milioni di volontari, milioni di piccole sottoscrizioni e i volti dei sostenitori durante i discorsi di Obama. Quando lui parla di speranza, di libertà, di cambiamento, di nuove opportunità, di valori fondanti, di unità del paese, di possibilità di riscatto, le parole arrivano, entrano nell’immaginario delle persone, vengono riflesse dalle espressioni dei supporters, diventano impegno comune, si trasformano in azione e progetto politico. Un progetto politico che mira a unire le etnie, a superare gli steccati, a favorire il riscatto personale, a ripartire dall’ entusiasmo, consapevole che il cemento di ogni cambiamento è la condivisione dello stesso orizzonte ideale da parte del popolo, la sua mobilitazione per raggiungere nuovi obiettivi e per vincere nuove sfide.
Ho dato un’ occhiata alla bacheca di Obama su Facebook. Sono centinaia di migliaia di messaggi che provengono da ogni parte del mondo e tutti ripetono le medesime parole: hope, change, happyness, future, dream, history, proud. Oggi “Repubblica” titola: “Il mondo è cambiato”. Non è un’orgia di luoghi comuni: è davvero cambiato qualcosa.
Noi spesso ci vergogniamo a usare le parole “speranza”, “fede”, “entusiasmo”, “cambiamento”, “valori”. Siamo immobilizzati nel nostro cinismo da quattro soldi e in un’indifferenza che congela le emozioni, riduce le aspettative e alimenta la paura delle differenze. Ci sentiamo fighi e paraculi se troviamo scorciatoie, se riusciamo a evadere le tasse senza farci beccare, se veniamo raccomandati. Abbiamo un Presidente del Consiglio che è un pluriinquisito, che ha fatto approvare leggi su misura per non andare in galera, che controlla i mezzi di comunicazione e concepisce la magistratura come un nemico da combattere e il parlamento come una noiosa perdita di tempo. Si respira nel paese un clima depressivo diffuso, il terrore di perdere il posto di lavoro o i propri risparmi, un senso di intolleranza crescente verso chi viene da altri paesi e contribuisce ormai a produrre il 10% della ricchezza nazionale.
Proprio per questo la vittoria di Obama apre prospettive nuove anche a noi e di questo lo dobbiamo ringraziare: se il figlio di un cittadino Keniano e’ riuscito a diventare il presidente della nazione più potente del mondo, anche noi possiamo, se lo vogliamo veramente e consapevoli delle difficoltà che abbiamo davanti, progettare e costruire un futuro migliore per noi e per i nostri figli.
Yes we can.
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LA RECENSIONE
DIECIMILA E CENTO GIORNI
Storie di uomini tra Italia e America Latina
di MARIA PIA ROMANO
Un tuffo che ha il colore del giallo ocra e del verde intenso, di mandorle amare, schizzi di sudore e deliri di lacrime. Di Italia ed America Latina, di viaggi e di fughe, di ritorni e di allontanamenti. Di esaltazione di popoli, di passioni e grida senza voce nella notte. Del blu e dell'azzurro di cielo e mare. Gli stessi che guardano fluire i giorni, i diecimila e cento giorni, mentre la brezza marina scuote il pino le cui radici restano annodate alla terra. All'amore, alla ricerca costante che dà un senso alle cose, alla vita che è fatta di scenari che cambiano, di sogni di libertà da
condividere con i compagni, di ansie e sconforti segreti, che si affondano nel dolore della bulimia, ingurgitando per rabbia e insoddisfazione cibi di cui non si riesce a percepire il sapore. Emersione, immersione, navigazione, approdo: in quattro sezioni si snoda avvincente la narrazione, che racchiude un arco di trentaquattro anni, dal 1970 al 2004.
E' uno di quei libri che si vorrebbe non finissero mai i "Diecimila e cento giorni" di Claudio Martini, edito da Besa. Ti capita tra le mani e lo leggi d'un fiato, perdendoti in quei nomi che diventano subito uomini e tu li ascolti e li vedi soffrire, gioire, respirare, far l'amore. Destini che s'incrociano e si salvano a vicenda, in un costrutto narrativo di suprema bellezza.
Ci sono immagini che s'imprimono nitide e vere nella mente, mentre insegui il tuo cuore rapito dalle storie. Storie di uomini. Storie che vengono fuori in una sorta di "stream of consciousness", in cui più che la cronologia conta il tempo interiore, che ti porta direttamente dentro le porte delle loro case e ti dischiude l'universo dell'anima. Fotogrammi sospesi tra un'Italia che si chiude dietro un perbenismo di facciata e cela solo irriguardose marginalità ed un'America Latina che grida la sua libertà con fierezza sconcertante, mentre è ancora oppressa da un macigno sul cuore che non la fa respirare.
Lo psicologo di origini tarantine, che ha una lunga esperienza di lavoro all'estero, proprio in America Latina, scrive di Perù, Nicaragua, Messico, Kosovo, Italia con la penna guizzante di una grande intelligenza che, come lama, squarcia la cortina dell'indifferenza dei tanti.
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