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Messaggi di Novembre 2017

Sondaggi, centrodestra prima coalizione e senza maggioranza.

Post n°4124 pubblicato il 30 Novembre 2017 da ninograg1
 

di | 29 novembre 2017 Il Fatto Quotidiano

Il centrodestra avrebbe di gran lunga la maggioranza relativa del Parlamento, ma per quella assoluta – per il momento – servirebbe un miracolo. Alla Camera infatti Forza Italia, Lega Nord e Fratelli d’Italia raccoglierebbero 270 seggi e così ne mancherebbero 46 per poter dare la fiducia a un governo. Al Senato i tre partiti potrebbero contare su 135 parlamentari, 23 in meno di quanti ne servono per dare il via a un esecutivo. A dirlo è un sondaggio Ixè per Radio1 Rai illustrato dal presidente dell’istituto al Gr1 e a Radio Anch’io. “Abbiamo elaborato i dati sulle intenzioni di voto disaggregate sui nuovi collegi e il risultato è che, con le coalizioni bloccate in questo modo, manca una maggioranza stabile” certifica Weber.

Resta da capire se possa essere possibile una coalizione di larghe intese, alla quale però ad oggi parteciperebbero Pd, Forza Italia, Ap e pochi altri. “Finora – aggiunge Weber al fattoquotidiano.it – ci siamo limitati a lavorare solo sulle coalizioni a partire dal proporzionale. Si può procedere solo per inferenze: considerando il valore percentuale odierno sia di Forza Italia che del Pd e proiettandolo sui seggi complessivi (immagino che nelle contrattazioni fra i partiti maggiori, più o meno varrà una dimensione proporzionale) non c’è comunque maggioranza”. Secondo Weber ad oggi le forze moderate unite in una “Grosse Koalition” sarebbe al massimo intorno a quota 275 alla Camera, quindi una quarantina di seggi in meno. “Personalmente la ritengo una prospettiva poco credibile – dice ancora il presidente di Ixè – Gli elettori di Fi naturalmente la reggerebbero, quelli del Pd no. Ma non ci sarà bisogno di arrivare a tanto, la campagna è lunga…”.

Secondo i dati di Ixè il centrodestra raccoglie oggi il 35,5 per cento dei voti, con 270 seggi alla Camera e 135 al Senato. Subito dietro c’è il Movimento Cinque Stelle, che una coalizione non ce l’ha e si prende i seggi tutti da solo, confermandosi così il partito più votato: il M5s per Ixè ha il 29,4 per cento e si prenderebbe 165 deputati alla Camera e 85 al Senato. Il centrosinistra arriva al massimo al 28,6 per cento con la conquista di 162 seggi a Montecitorio e 81 a Palazzo Madama. Nota a margine: per centrosinistra si intende l’unione di Pd, Ap e Campo Progressista. C’è infine la Sinistra che si unirà in una lista unica domenica prossima: Ixè la valuta al 6,5 per cento dei consensi che darebbe diritto a 25 deputati e 8 senatori. In questo caso – a differenza delle due coalizioni e del M5s – tutti i parlamentari sarebbero eletti dai listini proporzionali e nessuno dai collegi del Rosatellum.

La ripartizione territoriale dei collegi uninominali elaborata da Ixè conferma le tendenze degli ultimi mesi e – si potrebbe dire – delle ultime tornate elettorali amministrative. Al Nord non c’è gara: il centrodestra trionfa conquistando 30 seggi su 40 al Senato e 66 su 84 alla Camera. Al Sud non è proprio un trionfo ma comunque una vittoria larga perché la coalizione delle destre vincerebbe in 130 collegi su 225 per la Camera e in 64  su 109 per il Senato. Il centrosinistra reggerebbe solo nelle cosiddette Regioni rosse, cioè Emilia Romagna, Toscana, Umbria e Marche dove prenderebbe 13 seggi su 20 a Montecitorio e 28 su 40 a Palazzo Madama. Quanto ai Cinquestelle, si conferma la forza al Sud: di 27 collegi conquistati dai grillini al Senato, 13 sarebbero al Meridione (dove in questo quadro è inserito il Lazio); di 51 parlamentari che siederanno alla Camera, 28 arriverebbero dal Lazio in giù.

di | 29 novembre 2017

 
 
 

Lavoro: nonostante la ripresa, italiani continuano la fuga all’estero

Post n°4123 pubblicato il 29 Novembre 2017 da ninograg1
 

WSI  29 novembre 2017, di Mariangela Tessa

 

I segnali di ripresa economica non bastano. I giovani continuano a lasciare l’Italia per trasferirsi all’estero in cerca di lavoro. È la fotografia scattata da Federico Fubini, in un articolo del Corriere.it da cui emerge, numeri alla mano, che nel 2017 “il numero di italiani che se ne vanno per cercare di farsi una vita all’estero continua a crescere verso livelli mai raggiunti prima”.

Un trend che non sembra risentire dunque delle schiarite del mercato del lavoro, e che va in controtendenza rispetto a quanto sta succedendo in Spagna, Portogallo e altri Paesi europei colpiti dalla Grande recessione i cui deflussi stanno scemando:

Tra le mete più ambite dagli italiani in pole position resta Londra, nonostante la Brexit. I numeri sono confermati dal dipartimento del Lavoro di Londra che ha pubblicato le cifre sugli stranieri che nell’anno chiuso a giugno 2017 avevano attivato un “National Insurance Number” per vivere e lavorare nel Regno Unito. Si legge nell’articolo:

Fra i principali Paesi europei, solo Italia, Grecia e Bulgaria registrano flussi in aumento rispetto all’anno prima e solo l’Italia (con 60mila iscrizioni) lo fa fra i grandi Paesi di origine delle migrazioni verso la Gran Bretagna (vedi grafico). Spaventati dalla Brexit o incoraggiati dalla ripresa nei loro Paesi, spagnoli, portoghesi, irlandesi, polacchi, ungheresi o slovacchi fanno tutti segnare crolli a doppia cifra degli afflussi verso il Regno Unito. Ma né l’uscita di Londra dall’Unione europea, né il rallentamento dell’economia britannica, né l’accelerazione di quella italiana intaccano gli arrivi di italiani.

Rallentano invece i flussi verso la Germania, mentre restano stabili quelli in Svizzera:

L’emigrazione italiana – si legge ancora – verso la Germania nel 2016 segna un rallentamento, ma molto lieve: l’ufficio statistico tedesco registra 50 mila arrivi; sono meno dei 74 mila del 2014, eppure più degli arrivi di italiani del 2012 quando in Italia c’era stata una distruzione netta di oltre 200 mila posti di lavoro. Anche la Svizzera, terza grande destinazione degli emigranti di casa nostra, non riporta continui aumenti: 19 mila nel 2016, che pure è stato l’anno di maggiore creazione di lavoro in Italia da decenni.

 
 
 

Modalità elezioni: Renzi 2, la vendetta

Post n°4122 pubblicato il 27 Novembre 2017 da ninograg1
 

di | 27 novembre 2017  Il Fatto Quotidiano

Chiudendo la Leopolda, Matteo Renzi ha detto che il Pd deve mettersi «in modalità elezioni». Insomma, basta con la discussione interna («il congresso permanente»). Basta, in particolare, con la discussione sulle alleanze dopo il voto: sennò gli elettori capiscono quel che non devono capire. Ossia che nel Parlamento eletto con il Rosatellum l’unica maggioranza possibile è quella con Forza Italia: e ancora potrebbe non bastare. Del resto, dopo l’intervista in ginocchio di Fabio Fazio a Berlusconi, tutti hanno capito che ormai restano solo da limare i dettagli. Ad esempio: Gentiloni o un generale dei carabinieri presidente del Consiglio? A occhio, direi piuttosto un tecnico, tipo Draghi: e ci andrebbe già bene.

Poi Renzi ha mandato altri segnali, nel segno di quel grilloberlusconismo mediatico – populismo? – che da sempre è il suo marchio di fabbrica. Il M5S promette il reddito di cittadinanza? E lui rilancia con gli ottanta euro alle famiglie con figli: complimentoni, detto così sembra la solita mancia, invece dovrebbe essere un diritto. Ma sarà difficile anche per lui raggiungere i vertici di Berlusconi: il quale, sempre da Fazio, ha promesso pensioni minime a mille euro, abolizione del bollo auto e – uno di questi giorni capiterà – cene eleganti per tutti. Così uno si chiede: ma siamo sicuri che le elezioni siano il modo migliore per indicare i governanti? Non saranno meglio il casting, il sorteggio, il giudizio di Dio?

il resto dell'articolo qui


 
 
 

Manovra: scongiurata crisi politica, ma la legislatura è finita

Post n°4121 pubblicato il 26 Novembre 2017 da ninograg1
 

WSI 24 novembre 2017, di Alessandra Caparello

ROMA (WSI) – Allarme rosso ieri al Senato quando il premier Paolo Gentiloni è stato ad un passo dalle dimissioni e dall’aprire una crisi di governo. Motivo del contendere la legge di bilancio e la miriade di emendamenti presentati che tuonano più come un vero e proprio assalto alla diligenza.

La manovra finanziaria diventa il terreno ideale per muovere i fili delle alleanze all’interno del centrosinistra mai così spaccato come ora.

Matteo Renzi vuole stringere la mano a Pisapia e al suo Campo Progressista ma gli alfaniani sono agguerriti, entrambi i partiti chiedono al governo l’uno l’abolizione dei superticket sanitari e l’altro il rinnovo del bonus bebè, altrimenti minacciano crisi di governo.

Gli uomini del Tesoro, con il viceministro dell’economia Morando in testa si rendono conto che i numeri non tornano, visto che le richieste costano un miliardo e mezzo, cinque volte di più lo stanziamento previsto fermo a 250-300 milioni. “Se ci dite no viene meno il progetto politico della nostra alleanza“, dice il rappresentante di Campo Progressista, il senatore Uras. “Possiamo rinunciare a tutto il resto, ma se salta il bonus bebè noi non votiamo la legge di Bilancio. Nemmeno con la fiducia”, così il coordinatore degli alfaniani, Maurizio Lupi.

Così non ce la facciamo. Così salta tutto“, dice Padoan ma la crisi poi è rientrata e il  bonus bebè tanto caro ad Ap rientra nella legge di Bilancio e verrà rifinanziato integralmente per il prossimo triennio, mentre il Governo e la maggioranza sarebbero al lavoro per provare ad ampliare la platea del superticket, un chiodo fisso di Campo Progressista. Sarebbe dovuto finire tutto lunedì prossimo ma gli emendamenti del governo saranno pronti per mercoledì  e il premier Paolo Gentiloni tira un sospiro di sollievo ma ammette laconico ai capigruppo che la legislatura è finita.

Scampata la crisi, si pensa alle elezioni che si terranno a marzo e la data più probabile è il 18. Intanto Renzi continua a perdere punti nella classifica della fiducia ai leader italiani. Come indica un sondaggio Ixé diffuso oggi e pubblicato da Reteurs, il premier Paolo Gentiloni raccoglie il 39% dei consensi e Luigi Di Maio il 29%. Il segretario del Pd è superato dal candidato premier grillino Di Maio a inizio novembre, raccoglie il 25%, ed è stato raggiunto da Meloni.

Il Movimento Cinque Stelle si conferma primo partito, con il 28% delle dichiarazioni di voti, contro il 23,4% del Pd. Un sondaggio che arriva all’indomani della partecipazione di Renzi al programma Ottoemezzo della Gruber in cui sostiene  che la coalizione che il Pd metterà in campo sarà quella che avrà un risultato superiore al 30%, “spero vicino al 40″, dice l’ex sindaco di Firenze.

“Con Campo progressista l’accordo ancora non è chiuso. Speriamo in un accordo con Campo progressista, Radicali e forze di centro per una coalizione di centrosinistra”.

Un altro papabile alleato che però si sfila dal gioco delle coalizioni è Massimo D’Alema che in un’intervista al Corriere della Sera, alla domanda se è impossibile l’alleanza con il Pd, ha risposto:

“Sarebbe stata necessaria una svolta radicale di grande impatto sull’opinione pubblica. Non modeste misure di aggiustamento, che ci hanno proposto a parole mentre ce le negavano nei fatti in Parlamento. Un negoziato surreale“.

Come risponde Renzi? “Mi chiedete di parlare di contenuti e poi parliamo di D’Alema?...”

 

 
 
 

Pensioni, sette riforme in 25 anni. Più che leggi sono toppe

Post n°4120 pubblicato il 23 Novembre 2017 da ninograg1
 

Fonte: Il Fatto Quotidiano

di | 21 novembre 2017

La trattativa tra governo e sindacati sull’aumento dell’età pensionabile e altre particolarità del sistema pensionistico non è la prima né sarà l’ultima di una interminabile serie di diatribe su interventi grandi e piccoli sulla previdenza/assistenza che si susseguono ormai da anni a distanza letteralmente di mesi, senza che si venga mai a capo di una eventuale riforma che non richieda almeno ulteriori ritocchi nel medio termine.

Solo per ricapitolare, abbiamo avuto:

1992 Riforma Amato
1995 Riforma Dini
1997 Riforma Prodi
2001 Riforma Berlusconi
2004 Riforma Maroni
2007 Riforma Damiano
2011 Riforma Fornero

Sette riforme in 25 anni, più vari ritocchi minori qua e là, una ogni poco più di tre anni in media e non è ancora finita.

Ci sarebbe da pensare che siamo governati da incapaci che si succedono al potere da diverse parti politiche e che, tra altro, adottano talvolta una sorta di spoiling system legislativo in base al quale quello che ha fatto la parte avversa deve essere per definizione cancellato. Scaloni, poi scalini, divieto di cumulo, poi cumulo lecito, pilastri integrativi puramente previdenziali, contributi di solidarietà, invece, completamente assistenziali, finestre fisse, poi mobili, poi interventi con preavviso di meno di trenta giorni, per cui a un nato il 1° gennaio 2012 fu detto nel dicembre 2011 che la sua data di pensione slittava di quattro anni, in disprezzo a qualsiasi forma di programmazione della propria anzianità e della propria vita.

Escludendo che tutti i riformatori del sistema pensionistico abbiano agito per incapacità, malafede, per interessi di parte, per motivi elettorali o presi dal panico per motivi finanziari non sempre sostanziati – anche se, a mio avviso, alcuni siano arruolabili in una o più di queste compagini -, deve esserci un motivo di base nel sistema che impedisce la riforma una volta per tutte e con criteri se non condivisibili da tutti – se mi tocchi personalmente, per definizione, squalifico l’intervento come sbagliato – almeno logicamente ispirati a un unico fondamento che, possibilmente, dovrebbe trovare riscontro nelle regole nelle quali la società si riconosce e nella Costituzione che dovrebbe esserne la rappresentazione giuridica.

E infatti: “c’è del marcio in Danimarca”.

Ci sono due tare fondamentali che impediscono di mettere mano al sistema pensionistico in modo definitivo, anche sopportando un po’ di ricorso alla piazza e la perdita di consenso elettorale.

La prima è il mantenimento – non colposo, ma intenzionale – della commistione tra previdenza e assistenza. Ancorché per l’Inps le due cose siano contabilmente ben separate, la vera commistione è ideologica: nel sentire comune – e niente viene fatto per cambiarlo – i comparti previdenza e assistenza sono permeabili e risorse possono essere spostate dall’uno all’altro quando invece la previdenza dovrebbe essere vista come la restituzione di un accantonamento (diritto individuale) e l’assistenza come la risposta a un bisogno sociale (diritto collettivo). Questa commistione impedisce sia gli interventi – facili – sulla previdenza allo scopo di commisurare in modo effettivo la prestazione con i contributi versati, sia quelli – più difficili perché costosi – sull’assistenza, allo scopo di garantire la sussistenza di tutti gli anziani.

La seconda tara è l’applicare ai cittadini pensionati, in materia di socialità, regole diverse dal quelle che si applicano agli altri cittadini. La nostra Costituzione prevede che “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”. Come si vede, non v’è traccia di contributi diversificati se non in base al reddito percepito; diversamente è ormai prassi consolidata applicare alle (sole) pensioni meccanismi addizionali di re-distribuzione del reddito che si sommano alla progressività fiscale esercitata su tutti i cittadini e che si articolano in modi diretti – contributi di solidarietà – o più subdoli e a effetto permanente – blocchi della perequazione.

Queste due gravi distorsioni di pensiero prevengono la possibilità di riformare l’assistenza identificando in modo certo la dimensione dei diritti costituzionali per i cittadini sprovvisti dei mezzi necessari “al mantenimento e all’assistenza sociale” – Art. 38 -, coniugandola con il “ dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società” – Art. 4 – e quella di riformare la previdenza riconoscendone una buona volta le caratteristiche assicurative – tanto versi, tanto avrai; tanto più avrai mensilmente per quanto meno tempo lo riceverai – di un accantonamento da ritenersi sacro e inviolabile e non soggetto ad altre fiscalità che non quelle universalmente riconosciute valide per tutti i cittadini.

Il tutto è complicato dall’inevitabile sistema a ripartizione che fa sì che i contributi dei lavoratori scompaiano in tempo reale nella voragine dei conti dello Stato e che gli attivi siano convinti a pensare di stare pagando le pensioni degli anziani, tra l’altro ritenendo che questo sia iniziato solo in tempi recenti quando, viceversa, lo schema si replica generazione dopo generazione da sempre.

Pertanto, ciclicamente, ci troviamo a discutere di riforme e riformine, di piccoli e grandi interventi che non sono di per sé né giusti né sbagliati, ma semplicemente fuori luogo perché toppe applicate a un pasticcio di base, in un panorama complessivo di totale assenza di chiarezza sui criteri fondanti; le toppe raramente creano un patchwork artistico, quasi sempre tamponano un problema e, se sovrapposte, aggiungono bruttura a bruttura.

di | 21 novembre 2017
 
 
 

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