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I negrieri preferiscono il "commercio" delle giovani straniere: non conoscono la lingua, sole e isolate

Post n°4645 pubblicato il 29 Aprile 2011 da cile54

La lotta di una donna di Ancona: "Le ragazze subsahariane arrivano in Marocco dopo tre anni di cammino e poi le zattere le sbarcano in Andalusia dove comincia un 'mercato' con migliaia di clienti perbene"

 

Noi donne contro la schiavitù delle adolescenti straniere: un mercato da 12 miliardi di dollari e l’Europa guarda 

 

Siviglia – Ricordo di una sera a Vicenza: ho incrociato sul marciapiede una Michelle Pfeiffer quindicenne. Dritta sui tacchi imperiali, fasciata di carta stagnola, esotica colomba di Pasqua. Gli occhi argentei e insonni, il sorriso estinto. Il giorno dopo, io sarei andata all’università. Il giorno dopo, lei avrebbe consegnato i soldi guadagnati alienandosi dal proprio corpo, a chi la teneva sequestrata. Ho guardato per terra, vergognandomi che, per lei, l’Italia fosse questa schiavitù. Il fenomeno è mondiale. Secondo l’ONU, “il traffico di esseri umani è l’attività criminale transnazionale che cresce più velocemente ed è anche la maggiore violazione di diritti umani nel mondo”.

 

Quattro milioni di donne e bambine nel pianeta sono schiavizzate sessualmente. Un commercio umano che frutta alle mafie 12 miliardi di dollari, alimentando anche il traffico di armi e di droghe. Attualmente, il principale paese di transito e destino nei confronti delle donne costrette a prostituirsi a livello continentale, è la Spagna. Secondo la Secreterìa General Iberoamericana (SEGIB) di Madrid, 250’000 donne fra i 14 e i 30 anni vi giungono ogni anno, ingannate dalle criminalità organizzate. La maggioranza dall’America Latina (Brasile, Colombia, Repubblica Dominicana), un terzo dall’Africa (Nigeria, Marocco), e il resto dai paesi dell’Est Europa (Russia, Ucraina, Polonia, Repubblica Ceca).

 

A Sevilla incontro C.C., una giovane italiana di Ancona che lavora su questo tema presso una Ong spagnola. Più che una questione di delitto o di migrazione, è un problema di diritti umani, e una manifestazione di persistente disuguaglianza fra i sessi. In tutto il mondo, la maggioranza delle persone sottomesse alla tratta sessuale (85 per cento) sono donne e bambine di precarie condizioni economiche. Di questa maggioranza di donne, il 90 per cento sono migranti, oggetto di un commercio che fluisce dai paesi impoveriti verso quelli più prosperi. Vogliamo immigrate. I clienti sono soddisfatti nel consumare fantasie (spesso misogine e razziste) con donne straniere senza dover fare la coda per il check-in in aeroporto.

 

I trafficanti puntano sulle straniere perché il fatto che non conoscano la lingua locale impedisce loro di cercare alternative alla clandestinità, o a integrarsi a livello sociolavorativo. La tratta soddisfa la domanda di corpi di donne e minorenni da parte dell’industria sessuale bianca e sviluppata. Il cerchio è chiuso dall’offerta di donne alle quali si negano diritti e pari opportunità di educazione e lavoro. “Qui in Andalucìa c’è molta tratta perché abbiamo la costa sud della Spagna. Le donne dell’Africa Subsahariana giungono in Marocco dopo 3 anni di cammino, e poi vengono sulle zattere nella costa andaluza, a Càdiz, Huelva, Màlaga. Una collega ha intervistato decine di donne nigeriane in partenza dal Marocco: il 100 per cento erano vittime di tratta, dirette ad Almerìa.

 

Ma anche a Barcellona e ad Alicante c’è molta domanda, di sicuro connessa al turismo sessuale. Vedi – spiega C.C., in Spagna, la tratta beneficia del vuoto legislativo circa la prostituzione. Le schiave vengono nascoste nei night-club, centri di massaggi, motel, sempre più numerosi. Col cinismo di “in tempo di crisi, questo è business”. Sembra tutto legale. Come fare a riconoscerle? La polizia cerca solo le indocumentate, magari per espellerle. Ci siamo noi, per riconoscerle. La nostra Ong e tante altre, in una grande rete nazionale contro la tratta, connessa a istituzioni affini europee”.

 

C.C. sorride in modo travolgente quando commenta “Si è abolita la schiavitù degli afroamericani, perché non riuscire ad abolire la schiavitù sessuale?!”. Il segreto per dimostrare 15 anni in meno, è svolgere lavori dove occorre lottare controcorrente. Mi propone di allontanarci dalle orde di turisti dell’Arkansas che starnazzano come papere alla vista delle meraviglie del centro storico. Camminiamo sotto gli alberelli di arance amare che profumano la città di azàhar, candido fiore che sa di ragazza. Attraversiamo viuzze dedicate al Cristo e alla Vergine, monarchi barocchi che trasudano un ininiterrotto dolore della Passione. Le loro icone, sanguinanti e afflitte, sono presenti ovunque.

 

Nel bar che omaggia i grandi toreri andaluces con quadri e calendari: sotto il profilo del Calvario, annuncio di tapas di “coda di toro”. Sulle vetrine delle gelaterie, Madonna della Macarena sotto abnorme corona di stelle, singhiozzante. Dal pescivendolo, nel negozio di patatas fritas-porzioni minime da mezzo kilo, Gesù moribondi e nobili. Un contrasto eccentrico (per gli outsiders come me), rispetto alla vitalità dei giovani che affollano la Plaza Encarnación. Fra gli incensi del Cristo de Burgos, e di quelli al limone, rosmarino e vaniglia, amoreggiano oltre l’alba con fanciulle buenas come birre fresche. Per evitare di sentirmi in colpa sotto la severità degli sguardi della Virgen de la Angustia e del Cristo de la Sed, chiedo a C.C. se conosce un locale “iconoclasta”.

 

Il triangolo della tratta

 

Arriviamo al locale “Tigris”, nella Calle San Esteban. Il gestore è Nawras, di Baghdad. Cammina soavemente verso di noi, canticchiando le ballate della Mina del Libano, la bionda regina Feiruz. Sul vassoio porta in trionfo dolci ripieni di datteri e tè al cardamomo. “Il mio nome significa “gabbiano”. Sono andato via negli anni ’90, al secondo decennio di guerra in Iraq, non ce la facevo più. E´un privilegio potere cambiare vita”, commenta, lieto. Noto, in C.C., che si identifica nel “noi” di un lavoro di gruppo. Parla piano, e ha il sorriso facile di chi ha assunto profondamente che non si puó smettere di lottare.

 

Il suo lavoro è di incidenza politica. “Analizziamo il triangolo della tratta: la connessione fra l’impunità nei confronti dei trafficanti, la domanda di donne, e l’offerta. A livello dell’impunità, dobbiamo contrastare le leggi insufficienti o inadeguate, le sanzioni inefficaci, la corruzione, e soprattutto l’invisibilizzazione del problema. Riguardo la domanda, il problema è il modello di mascolinità egemone, l’idea che una prostituta non possa negarsi a nulla, l’oggettificazione del suo corpo. E l’offerta di donne ha a che vedere con la povertà, la disoccupazione femminile, la violenza di genere e le politiche restrittive di immigrazione”.

 

Tessere un dialogo: indicatori da notare

 

Altre colleghe si occupano dell’attenzione diretta, cercando di individuare casi di sfruttamento sessuale per strada o nei club o negli appartamenti. Escono sempre in gruppi di due nelle unità mobili, e avvertono, secondo il protocollo di sicurezza, “oggi vado in questa strada, o in questo appartamento. Entro a quest’ora, e l’intervento dovrebbe durare un’ora”. Inizialmente, si cerca un primo contatto con le donne consegnando loro materiale preventivo come profilattici e lubricanti. Colleghe brasiliane, romene, anglofone, che parlano in modo diretto, istrionico, sperando di guadagnare, poco a poco, la fiducia.

 

In alcune città, vi sono team composti da mediatrici culturali, assistenti sociali e psicologhe. In alcuni casi, le prime sono state loro stesse vittime di tratta. Sopravvissute e capaci di fare arrestare i loro torturatori. I team cercano di procurare a tutte la tessera sanitaria, perché in Spagna l’accesso alla salute pubblica è garantita a donne nate qui o in altri paesi, con o senza documenti. Se hanno bisogno di essere accompagnate a centri di salute, lo fanno. Così, si creano dei piccoli spazi, in cui forse, sarà possibile parlare.

 

L’idea non è accudire le donne che esercitano la prostituzione, bensì cercare di individuare donne che stanno essendo sfruttate sessualmente. Fra gli indicatori, il fatto che lei non conti con un documento di identità. Chiediamo come mai non ce l’abbiano, o perché un’altra persona lo tenga con sé. Poi, il notare una donna non esce mai da sola. Ovviamente, la provenienza della donna. Se è migrante, le chance di essere schiava sono alte. Le chiediamo come è stato il viaggio, chi l’ha portata qui. Ma questo dialogo non è un processo di una settimana, o di tre mesi. Implica molteplici incontri con ciascuna. Se è vittima di tratta, non sarà facile avere un momento da sole con lei. Ma bisogna cercare di inventarlo.

 

Protezione imperfetta

 

Se la donna dice di essere vittima di tratta, si attiva il protocollo di sicurezza. Sempre che lo autorizzi, l’accompagnamo in una casa di accoglienza, sicura, lontano da dove veniva controllata dalla rete mafiosa. Se individuiamo il caso a Córdoba, cerchiamo una casa in un’altra città, perfino in un’altra regione. Chiamiamo la casa, chiediamo se hanno posti liberi. Vi sono oltre 10 case in Andalucìa: da quelle di emergenza a quelle di mantenimento, da quelle per donne incinta, a quelle che accolgono anche i bambini delle vittime. Sono gestite da Ong e altre associazioni.

 

Lo Stato non si occupa di questo. Un primo problema è che queste case sono state ideate, nell’ambito della legge del 2004, per vittime di violenza di genere intrafamiliare. Nonostante la tratta sia riconosciuta dal diritto internazione come una violazione di diritti umani e una delle forme peggiori di violenza di genere, queste case-accoglienza non vengono destinate immediatamente alle vittime di tratta. Il fatto che una donna schiavizzata abbia accesso ad una casa sicura, richiede la nostra mediazione. Non è ancora un diritto garantito. L’altro giorno ero in una riunione con una delegazione governativa multidisciplinare danese: non solo rappresentanti politici, ma anche infermiere, assistenti sociali, esperte in lobby politica.

 

Raccontavano che, nel loro paese, invece, il governo gestisce le case-accoglienza. E ci chiedevano spiegazioni sulle incongruenze delle leggi spagnole. Certo, la Spagna ha ratificato il Convegno del Consiglio d’Europa, ha firmato il Piano contro la Tratta del 2008, ma occorrono modifiche, ampliamenti e adattamenti alla Legge contro la Violenza di Genere.

 

Lacune legislative: l’invisibilizzazione delle europee vittime di tratta e l’approccio burocratico ad un dramma umano

 

Riguardo i clienti? La legge ci va piano: multa se il cliente sapeva che la donna era vittima di tratta. E chi vorrebbe ammettere di saperlo? Occorrono indagini serie. D’altra parte, secondo una nuova direttiva europea del 2010, il trafficante, che sfrutta le disgrazie umane, affronta pene di carcere dai 5 ai 10 anni. Gli stati europei hanno due anni per plasmare questa legge nei propri ordinamenti. Abbiamo messo il nostro granello di sabbia nella “ley de extranjerìa” (legge sugli stranieri). Dopo estenuanti riunioni con parlamentari e partiti, siamo riusciti a fare includere il tema della tratta sessuale. Purtroppo, non siamo ancora riuscite a fare rientrare anche le cittadine europee nell’ambito della protezione della legge. Le disposizioni normative relative agli stranieri si riferiscono ai migranti: e le romene, per esempio, schiavizzate a migliaia in Spagna, non vengono considerate migranti. Quindi non possono beneficiare della protezione legale dell’art. 59 bis. Non possiamo smettere di lottare per ampliare questa legge.

 

Un altro aspetto riguarda l’identificazione dei casi da parte della polizia. Immaginiamo che in una retata, arrestano per 24 ore una donna senza documenti. Come prassi informale, il poliziotto chiama noi e ci chiede di identificare se si tratta o no di una vittima. In caso negativo, la donna viene espulsa dal paese. Se invece c’è un minimo indizio che sia un caso di schiavitù sessuale, la legge prevede che lei abbia almeno 30 giorni di riflessione per decidere cosa fare: se denunciare, per esempio. E per quel mese, viene protetta in una casa sicura. Ma i tempi legali non corrispondono alla complessità di queste esperienze: occorrono almeno 3 mesi, per la donna. Se consideri il processo che hanno vissuto, un mese non è niente.

 

La psicologa che l’ascolta ci testimonia lo strazio di anni di stupri e violenze di ogni tipo: in un mese, non si puó avere la lucidità di scegliere cosa fare. Per non parlare del fatto che, in caso la vittima diventi denunciante, la mafia puó vendicarsi sulla sua famiglia. Noi redigiamo una relazione sul caso (eppure siamo noi a contatto diretto con la donna!), ma legalmente è valida solo la relazione del poliziotto. Ecco perché il nostro lavoro consiste nello stimolare governi e polizia ad incorporare un approccio di diritti umani nel processo di identificazione della vittima di tratta sessuale. Andando quindi ben oltre l’obiettivo di “identificare clandestini”, nell’ambito di un controllo migratorio puro e duro.

 

La persona all’interno delle istituzioni

 

Notiamo che nessun partito in particolare è più sensibile di altri a questo tema: dipende tutto dalla persona, all’interno di una organizzazione. La stessa cosa si può concludere riguardo la polizia. Il che rattrista, perché c’è bisogno di farsi forza fra varie istituzioni. Ci sono poliziotti attenti, e altri ai quali la cosa non importa minimamente. Minimizzano addirittura, “se la sono cercata”. Il ministro dell’Interno, Alfredo Pèrez Rubalcaba, commenta che le donne sfruttate devono avvicinarsi alla polizia, perché verranno protette. Sorvola sul fatto che loro vengono da paesi in cui la polizia tende ad essere famosa per comportamenti criminosi, e non sono socializzate a fidarsi del distintivo. Constatiamo quanto lavoro c’è ancora da fare per sensibilizzare tanti attori-chiave: dai governi locali, alle forze di sicurezza, ai giornalisti, ai politici. Ma questo è il lavoro. Pericoloso, delicato. Solo per chi non molla. Una mia collega sostiene che le reti mafiose internazionali sono partnerariati fra – per esempio- la mafia russa e quella spagnola che gestisce gli appartamenti e i bordelli: lavorano in modo così veloce, flessibile e adattabile ai vari contesti…che noi dobbiamo fare lo stesso, per ridurre il danno, come soliamo dire. Per allungare un salvagente, in questo mare di violenza sulla donna.

 

Una sfida europea

 

A livello europeo, le lobby politiche e della società civile lottano contro la tendenza a considerare il traffico di donne come un tema “nazionale”, gestito con strategie “nazionali”. Questo è il primo passo per minimizzare il fenomeno e insabbiare cifre per un falso pudore. La sfida consiste nell’integrare la prospettiva di genere ad un approccio integrale al problema, rafforzare la prevenzione (anziché concentrarsi unicamente nell’assistenza), affinare la cooperazione: dagli strumenti legislativi per contrastare le criminalità organizzate che gestiscono il traffico, a quelli per migliorare l’assistenza alle vittime, assicurando standard comuni negli ordinamenti nazionali, dibattendo il diritto delle vittime a ricevere compensazioni.

 

Nonostante le indagini congiunte siano ancora rare, molti paesi hanno stipulato accordi bilaterali per lo scambio di informazione e forme di cooperazione fra polizie nazionali, includendo l’Europol e l’Interpol. Si insiste sulla necessità di rafforzare la cooperazione giuridica in questioni criminali con i vicini dell’Est Europa e del Nord Africa, includendo la lotta alla tratta nelle strategie di lotta alla povertà e cooperazione politica.

 

La domanda al centro della tratta

Ma le leggi da sole non possono frenare la domanda. Una cittadinanza maggioritaria chiude ancora gli occhi, dai clienti a uomini e donne che provano imbarazzo moralista anziché indignazione. Secondo il Piano Integrale di Lotta alla Tratta con fini di sfruttamento sessuale del governo spagnolo, occorre questionare la tendenza sociale nei paesi riceventi a considerare le donne prostituite come “responsabili della loro situazione”. Il distacco di chi se ne lava le mani, perché “Tesoro, quello che ti fanno, è culturalmente accettato”.

 

Una doppia violenza nei confronti delle donne sfruttate: la loro stessa situazione, e il rifiuto sociale. Il mondo che sanziona chi non raccoglie con busta e paletta i regalini del cane per strada, è lo stesso che garantisce discrezione a chi usa schiave possedute da reti di tagliagola. La responsabilità di costruire società democratiche dove i diritti umani di tutti vengano tutelati, contrasta con il conformismo conservatore di chi non riconosce, nella donna straniera, il riflesso della propria dignità.

 

Azzurra Carpo

Specialista in cooperazione internazionale. Autrice di "Romanzo di frontiera" (Albatros, Roma 2011), magia e realtá delle donne latinoamericane alla frontiera Messico-USA; "In Amazzonia" (Milano, Feltrinelli, 2006); "La Ternura y el Poder" (Quito, Abya Yala, 2006); "Una canoa sul rio delle Amazzoni: conflitti, etnosviluppo e globalizzazione nell'Amazzonia peruviana" (Gabrielli Editore, Verona, 2002); co-autrice di "Prove di futuro" (Migrantes, Vicenza, 2010).

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