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Referendum: era una missione disperata, solo qualche mese fa, ancora uno sforzo per convincere gli indecisi

Post n°4812 pubblicato il 12 Giugno 2011 da cile54

In bilico

 

Ci siamo. Eccoci al momento del voto. Si mette la croce sul sì per esprimersi su quattro quesiti referendari – sulla privatizzazione di un bene comune, sulla sua trasformazione in profitto per qualcuno, sul ritorno alla tecnologia obsoleta del nucleare e sull’impunità dei governanti – e per abrogare quattro leggi ingiuste e fortemente simboliche dei tempi che stiamo attraversando.

 

Tutti gli indicatori dicono che il quorum è in bilico. Serve ancora uno sforzo ulteriore. Eppure, era una missione disperata, solo qualche mese fa. Poi il miracolo è avvenuto. Senza il becco di un quattrino, con pochi appoggi istituzionali e una capacità di mettere assieme diversi pezzi di società, i comitati promotori dei referendum hanno messo in piedi una mobilitazione molecolare e diffusa su tutto il territorio. Siamo andati oltre noi stessi, abbiamo fatto viaggiare i temi che solo dieci anni fa a Genova parevano interessare solo minoranze illuminate. Comunque vada, dunque, questo patrimonio di energia e competenza andrà conservato e fatto camminare ancora.

 

La posta in palio va ben oltre quei, pure importantissimi, temi oggetto di consultazione referendaria. Ci giochiamo la fine di trent’anni di egemonia dell’azienda privata e dei profitti sulla società. Ciò non riguarda solo l’emblematica questione della privatizzazione dell’acqua e il rifiuto del nucleare, interessa anche le questioni del legittimo impedimento. La guerra dei trent’anni scatenata dal privato contro il comune è stata micidiale. Si è servita di apparati trasversali agli schieramenti politici tradizionali. È stata una guerra civile culturale, una vera e propria operazione di egemonia portata avanti dal capitale per convincere i poveri a dare il potere politico, in aggiunta a quello economico, ai ricchi. Questa guerra ha stravolto l’ordine dei valori, inducendo milioni di persone ad anteporre alcuni temi come la «sicurezza», la «meritocrazia» e la difesa della proprietà privata [quella dei potenti] ai loro stessi interessi. La politica si è subordinata all’economia, come ha argomentato l’economista ed ex ministro del lavoro di Bill Clinton Robert Reich, un riformista. Ecco perché il premier pretende impunità. E i diritti del lavoro sono stati inglobati dentro la logica della produzione, circostanza che ha spinto Marco Revelli ha parlare di «democrazia totalitaria».

 

L’uomo di Arcore ha agito in questo scenario con una coerenza micidiale, affondando i suoi colpi allo stato di diritto e al welfare. Berlusconi ha portato ai massimi livelli l’assunto base dell’ideologia neo-liberale cui all’indomani della Prima Repubblica quasi tutti i partiti dicevano di ispirarsi: perseguendo i miei interessi sto anche favorendo il progresso sociale. Il conflitto tra responsabilità sociale e vantaggio individuale è stato annullato nella sua figura. Parlare di «conflitto di interessi» è stato purtroppo inutile, perché i conflitti di interessi veri, quelli che sono da sempre il motore di ogni processo realmente democratico e redistributivo, in questi anni sono stati considerati una patologia dalla gran parte delle forze politiche.

 

I commentatori politici, raccontano oggi che il premier si morde la lingua per aver detto che non andrà a votare. I collaboratori di Silvio temono l’effetto Craxi, quello che alla fine della Prima Repubblica colpì il leader socialista quando invitò gli italiani ad «andare al mare» astenendosi dal referendum sulla legge elettorale del 1991. Le metafore di morte sono ormai all’ordine del giorno nell’entourage del presidente del consiglio. Oggi si dice che gli elettori sentono «l’odore del sangue» quando ascoltano le sue parole. Lo abbiamo scritto molte volte: il crinale tra rivoluzione e restaurazione è sempre stretto, soprattutto nell’Italia del «cambiare tutto affinché non cambi nulla». La violenza e la rabbia diffuse che Berlusconi e Bossi fino ad oggi addomesticavano aizzando la gente contro i più deboli con le loro storielle seriali [l'audience lo votava per vedere fino a che punto si sarebbe spinto in avanti] adesso si stanno rivoltando contro la destra. La fine spettacolare e tragica del Capo [che non a caso qualche giorno fa ha parlato, seppure per smentire, del suo «funerale»] viene percepita inconsciamente dall’elettorato, anche da quello che fino ad oggi votava a destra. Ci sono segnali squallidi: sono molti di quelli sottoscrivono su internet truculenti appelli per invitare Clemente Mastella «a suicidarsi». Così, siccome in ogni show che si rispetti il finale grandguignolesco fa sempre gola, molti votano contro per godersi i fuochi d’artificio esiziali. È una tentazione irresistibile.

 

Portare a casa questi referendum, invece, serve anche a continuare ad incanalare la frustrazione per questi anni di crisi e berlusconismo dentro la critica all’egemonia liberista. Serve a costruire davvero un’altra strada, senza covare rancori da popolino indignato, cioè quello stesso sentimento plebeo che ha prodotto l’orrore di questo ventennio e che poi ci ha condotti direttamente dai processi in piazza ai politici messi in scena dalle reti Mediaset all’instupidimento collettivo di Berlusconi. Serve a trasformare la rabbia sacrosanta in conflitto di interessi, quello vero.

 

Giuliano Santoro

11/06/2011

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