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Il razzismo, i prezzi bassi e i bassi guadagni, le aspirazioni e la rabbia di una classe sociale

Post n°5029 pubblicato il 02 Agosto 2011 da cile54

A lavoro "dai cinesi" - L'esperienza personale diventa inchiesta giornalistica'

 

Un mese come commesso in un negozio di cinesi; cosa non si fa per due euro in più in tasca. Al diavolo cinque anni di università a Pechino; al diavolo l'idea che un quarto di vita passato a studiare una cultura lontana possa valere più di un posto da manovale.

 

Quando il signor Wang mi chiese di aiutarlo nel suo negozio di casalinghi (150 metri quadri di diavolerie), non volli credere alle mie orecchie. Wang era più perspicace di quel che pensassi: il ragazzo che si ergeva incredulo davanti al quel cinese alto, dai denti così gialli da sembrare d'ambra, avrebbe senz'altro accettato la sua offerta di lavoro. Non si vive di parole in questo mondo, e il termine “giovane giornalista” è un'ignobile metafora che sta per “giovane disoccupato a vita”.

 

L'orario di lavoro di un'attività commerciale al dettaglio gestita da cinesi è il seguente: la mattina dalle otto e trenta fino alle tredici e trenta; la sera dalle sedici fino alle ventuno. Dieci ore di lavoro, dal lunedì al sabato. La domenica, invece, – si lavora anche il giorno in cui perfino il Dio degli ebrei osò riposarsi –, si prende servizio per le “sole” cinque ore mattutine.

 

All'inizio a spaventarmi non fu tanto l'idea che avrei lavorato tutti i giorni e per così tante ore, come non avevo mai fatto in tutta la mia vita; ero preoccupato del fatto che non sarei stato accettato così facilmente dagli altri due commessi, Lin e Man, rispettivamente marito e moglie. Lei, Man, una ragazza di ventitré anni un po' scorbutica, era la nipote di Wang. Man, in mancanza della signora Wang, tornata in Cina per un periodo di vacanza, si sentiva la nuova “padrona” e faceva il bello e il cattivo tempo in quel piccolo tempio del consumismo. « Cosa c'è, fratello, non sai come si adopera una scopa? – mi aveva rimproverato, il mio primo giorno di lavoro, strappandomi l'arnese dalle mani – Non si pulisce mica così il pavimento! ». Agli occhi di Man io ero, in senso dispregiativo, un “du shu ren”: un buono a nulla capace solo di leggere libri. In seguito ho fatto molte volte da interprete a Man, accompagnandola nelle visite mediche a cui si sottoponeva essendo in dolce attesa; nonostante mi abbia più volte dimostrato la sua gratitudine, aprendosi in sorrisi e battute ironiche, credo che il suo giudizio su di me non sia cambiato molto in tutto questo tempo.

 

Suo marito, Lin, invece sembrava apprezzare la mia compagnia. Nella sua ingenuità di “min gong”, strappato ai cantieri e alle industrie cinesi per essere catapultato nell'alienante ruolo dell'immigrato, mi dimostrava la sua amicizia intrattenendosi con me in bevi ma intense conversazioni. Mentre eravamo attenti a che i clienti non rubassero la merce (capitava ogni giorno), Lin mi raccontava della sua vita da operaio, delle aspirazioni che nutriva per il figlio che stava per venire.

 

Quei due, seppur in modo del tutto differente, hanno scavato nella mia mente e nel mio cuore impressioni difficili da descrivere. Ho visto in loro una generazione di cinesi, i rappresentanti di un proletariato che aspira, come le loro controparti italiane negli anni '50 e '60, ad elevarsi al ruolo di piccolo borghese; in cerca di quella ricchezza, ma soprattutto di quello status sociale a cui pensano di arrivare solamente svendendo (ma questo loro non possono saperlo) la loro capacità lavorativa.

 

Nel signor Wang ho trovato, contrariamente a quanto avrei potuto immaginare, un “padrone” rispettoso e attento ai bisogni dei suoi dipendenti; il prototipo pirandelliano del commerciante buono. Sarebbe stato lo stesso anche se non si fosse trattato dei suoi parenti; Wang è proprio così: una persona perbene.

 

Di diverso giudizio sono le mie considerazioni sui clienti. Siamo, ormai da decenni, un popolo di consumatori, è ora che ne si prenda piena coscienza; non c'è nient'altro a parte questo; questo è, sopra ogni cosa, in maniera che trascende le classi sociali, la caratteristica più evidente del nostro popolo, come di quello degli altri paesi occidentali. Abbiamo scambiato le particolarità distintive della nostra cultura per degli orpelli fastidiosi di cui bisognava sbarazzarsi. Li abbiamo barattati con l'omologazione del consumismo.

 

I clienti del negozio di casalinghi (la quasi totalità) si muove come acari nel labirinto degli scaffali ricolmi di prodotti di ogni genere. La gente non si sfiora con lo sguardo, ma si urta frenetica col corpo, senza farci caso: avanza diritta verso l'obiettivo, in cerca del prodotto giusto da acquistare. Il negozio di Wang, in effetti, è una specie di miniera d'oro: oltre ai prodotti per la casa, vi sono disposti in bella vista apparecchi elettronici di ultima generazione; capi d'abbigliamento; materiale per l'edilizia. Il tutto a prezzi stracciati!

 

I Wang, come la quasi totalità dei commercianti cinesi, applicano una percentuale di guadagno molto bassa ai prodotti che acquistano dai fornitori: « Se facessimo gli stessi guadagni dei commercianti italiani perderemmo i clienti », confida il signor Wang. Per aiutarsi, non si battono tutti gli scontrini, risparmiando sulle tasse. Ma questo lo fanno anche i commercianti italiani.

 

Oltre ai guadagni, ciò che distingue un negozio di cinesi da uno di italiani è il rispetto che si riceve dalla gente. I cinesi sono vittime di un vero e proprio razzismo da parte della maggior parte dei clienti. In maniera diversa, a seconda del grado d'istruzione, della posizione sociale e della sensibilità personale, i cinesi vengono trattati come persone “inferiori” da noi italiani.

 

Nell'intonazione della voce, dal fatto che spesso si usa il “tu” anziché il “lei”, nei gesti ed in tutti i nostri comportamenti quando si “ha a che fare” con un commerciante cinese, si evince una mancanza dello stesso rispetto e della stessa riverenza con cui ci rivolgeremmo ad un commerciante italiano. Sono quasi giunto a pensare, un po' incredibilmente, che a noi italiani vadano bene i cinesi, che li sopportiamo con non poca fatica, fintanto che producano e vendano a prezzi ridicoli i prodotti per cui sembriamo letteralmente impazziti. I cinesi – mi scuso con i lettori per la banale generalizzazione – ne sono consapevoli e, naturalmente, ne soffrono; facendo di questa sofferenza una ragione di rabbia. « Per quanto ci sforziamo non saremo mai trattati da pari... ma sai cosa ti dico? Ora siamo noi a soffrire, domani potrà capitare lo stesso a loro!», il tono del signor Wang cambia di colpo, la rassegnazione lascia posto all'ira. E se fosse una previsione? La ruota del capitalismo gira per tutti...

 

Mirko Misceo

Glokers

01/08/2011

 
 
 
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Giorgiana Masi

Roma, 12 maggio 1977

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