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« Francesco Mastrogiovanni...Lavorare per la cacciata... »

Lo scorso luglio l’audizione del direttore dell’Aisi. Poche le risposte convincenti. Ma dalle carte emergono nuove verità

Post n°5070 pubblicato il 13 Agosto 2011 da cile54

Navi dei veleni, i Servizi ancora senza memoria

Torna, prepotente, la pista del coinvolgimento dei servizi segreti nella vicenda delle navi dei veleni. È bastata un’audizione in commissione ecomafie per far riemergere vecchi sospetti e consolidate omissioni. Il 12 luglio scorso, infatti, è stata la volta del prefetto Giorgio Piccirillo, direttore dell’Aisi (l’Agenzia d’informazioni e sicurezza interna, ex Sisde) , chiamato a riferire alla Commissione parlamentare d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti sul ruolo giocato dalle barbe finte in una vicenda che vede tra gli attori non protagonisti la criminalità organizzata. «Noi eravamo solo manovalanza», ha ribadito ancora ieri Francesco Fonti. Se il contenuto delle dichiarazioni del prefetto hanno lasciato deluso chi pensava di trovare una conferma diretta alle tante ipotesi formulate nel corso degli anni, al contrario la documentazione presentata risulta, usando le parole di Pecorella «molto significativa».

 In particolare, nei documenti archiviati con i numeri 488/1 e 488/3 si legge come sin dal 1992 il servizio avrebbe acquisito notizie fiduciarie relative all’interesse del clan Mammoliti, in particolare i fratelli Cordì, per lo smaltimento illegale di rifiuti radioattivi, che sarebbero pervenuti sia dal centro sia dal nord Italia, ma anche da fonti straniere. In particolare, la nota del 3 agosto 1994 recita testualmente: «Informatori del settore non in contatto tra loro - la precisazione è rilevante per la cosiddetta convergenza delle fonti - hanno riferito che Morabito Giuseppe, detto Tiradiritto, previo accordo raggiunto nel corso di una riunione tenutasi recentemente con altri boss mafiosi, avrebbe concesso in cambio di una partita di armi l’autorizzazione a far scaricare nella provincia di Africo un quantitativo di scorie tossiche presumibilmente radioattive». Ci sono anche altre fonti confidenziali che riguardano le cosche Piromalli, De Stefano e Tegano e, infine, vi è una notizia relativa all’affondamento in mare di rifiuti, documento del 2003.

 Di fronte alle imbarazzate risposte del numero uno dei servizi d’intelligence interni, capace di confondere Fonti con l’agente Pino e di risultare vago sul ruolo di Guido Giannettini, definite tutte «persone che, per quanto riguarda Sisde e Aisi, non hanno nessun riscontro», la commissione ecomafie tira fuori un altro documento. E’ una relazione preparata nel 2003 in vista dell’audizione dell’allora direttore del Sisde Mario Mori. Tra le altre cose i servizi d’informazione e sicurezza interna avevano scritto: «Società riconducibili a cittadini italiani acquistano proprio in quelle zone discariche o siti per effettuare traffici illeciti di rifiuti di vario genere impiegando capitali e istituti bancari con sede alle Bahamas, in Svizzera e nelle Isole Cayman. Tali traffici sono gestiti al pari di un attività import-export. Per ciò che riguarda i tossico-nocivi, bisogna distinguere quelli destinato allo smaltimento da quelli recuperati. Entrambi costituiscono una fonte di guadagno illecito per la criminalità organizzata». Documenti importanti, che avrebbero meritato un approfondimento. Invece, nulla. Piccirillo ha preferito far parlare le carte.

 Non Pecorella che ribadisce quanto la nota del 1994 «Per noi è molto significativa perché costituisce una conferma delle dichiarazioni di Fonti, che peraltro richiama più volte il ruolo dei servizi. In questa nota - ribadisce - si dice che le fonti confidenziali, che coincidono peraltro con Fonti, sono attendibili». Una sorta di riabilitazione per il pentito di ‘ndrangheta che, ripetutamente ascoltato nel corso degli anni, aveva raccontato delle sue frequentazioni con i servizi. Guido Giannettini, giornalista esperto di strategie militari e assiduo frequentatore del Movimento sociale italiano, entra nei servizi segreti nel 1966. Di sé diceva: «Io sono contro la democrazia. Sono fascista, da sempre. Meglio, sono nazifascista. Uomini come me lavorano perché in Italia si arrivi a un colpo di Stato militare. O alla guerra civile. Io non credo al doppiopetto, io sono per la tuta mimetica». Subito, Giannettini venne affidato all’ufficio R, quello dello spionaggio all’estero. Passa solo un anno e la spia nazifascista cambia ufficio e diventa una contro spia: viene infatti assegnato all’ufficio D, quello appunto del controspionaggio.

 Più tardi, verrà scoperta la sua appartenenza a «varie organizzazioni spionistiche internazionali, una delle quali camuffata da agenzia giornalistica». Tre anni dopo, nel 1969, le strade di Giannettini e di Fonti si incontrano. A Roma, nella hall di un albergo, l’allora criminale calabrese viene avvicinato dall’uomo dei servizi, che usava come nome di copertura Mario Francovich (altre volte preferirà quello di Adriano Corso). Nome in codice Z, Giannettini «sapeva tutto di me e delle mie conoscenze con il mondo della ‘ndrangheta – ricorda Fonti – mi disse che era un agente dei servizi segreti e che voleva informazioni che avrebbero portato dei benefici alla ‘ndrangheta». Tra i vari titoli che Giannettini presenta a Fonti c’è anche quello di collaboratore della Cia e esperto di guerriglia umana. Fonti viene arruolato nei servizi segreti. E regolarmente retribuito. Il primo incarico che gli viene chiesto è fare da tramite tra lo stesso Giannettini e i boss della ‘ndrangheta. È in preparazione il golpe Borghese e i servizi chiedono l’aiuto della criminalità organizzata calabrese. Giannettini incontra Giuseppe Nirta e Giorgio Di Stefano.

 I due boss, che già prima della mediazione di Fonti, avevano delle entrature nei servizi segreti, accettano la proposta di un uomo che si è presentato per conto dello Stato. E mettono a disposizione non meno di 1500 uomini. Non è dato di sapere in cosa consistesse la contropartita. Quello che è certo è che da Roma partirono diversi camion carichi di armi verso la Calabria. Armi che non vennero mai utilizzate per lo scopo concordato, ma che rimarranno nella disponibilità della crimininalità organizzata. Fonti è ormai organico dei servizi. Qualche anno e la ‘ndrangheta lo manderà al nord. Prima, per farsi le ossa, a Torino. Poi, per monopolizzare l’Emilia Romagna per quanto riguarda il traffico di droga. Poiché Giannettini non sempre è in Italia, indica al calabrese un suo uomo di fiducia, che all’occorrenza lo aiuterà e dal quale dovrà pure prendere ordini: si tratta dell’agente Pino, una figura che seguirà Fonti fino ai giorni nostri, nonostante le smentite del diretto interessato.

Vincenzo Mulè

12 agosto 2011

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