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Ottengono concessioni pubbliche da pochi euro e guadagnano milioni. Mentre i cittadini “pagano” la crisi.

Post n°5097 pubblicato il 21 Agosto 2011 da cile54

La casta dell’acqua minerale

 

Il risultato del referendum di giugno ha sancito uno stop importante al processo di privatizzazione della gestione del servizio idrico. Un verdetto che ha dimostrato, in modo inequivocabile la contrarietà di buona parte della popolazione italiana alla privatizzazione di un bene comune, indispensabile e prezioso, come l’acqua. Eppure, da anni, esiste un’altra forma di privatizzazione delle risorse idriche. Si tratta della concessione delle sorgenti alle società che imbottigliano acqua minerale a scopo di lucro, che fanno affari d’oro. Una situazione ben riassunta dal Rapporto di Legambiente e Altreconomia Acque minerali: la privatizzazione delle sorgenti in Italia. Un affare da circa 2,3 miliardi di euro, che dà buoni profitti sopratutto nel nostro Paese, poiché vanta il primato europeo di consumo di acqua in bottiglia con 192 litri per abitante. Più del doppio rispetto alla media europea (dati Rapporto Beverfood 2010-11). Le circa 170 società che operano in questo settore, sul mercato con oltre 300 marche, hanno imbottigliato nel 2009 12,4 miliardi di litri.

 

 Un business che negli ultimi venti anni è letteralmente raddoppiato. Fino a pochi anni fa il sistema delle concessioni per prelevare acqua dalle fonti pubbliche a fini commerciali, era regolato solamente dal Regio Decreto del 29 luglio 1927, n. 1443, recante il titolo “Norme di carattere legislativo per disciplinare la ricerca e la coltivazione delle miniere nel Regno”. Le aziende per anni, in pratica, hanno pagato (e in alcuni casi ancora continuano a farlo!) esclusivamente in base all’estensione del territorio occupato dagli stabilimenti. Non un centesimo sulla quantità di acqua prelevata e messa in commercio. è accaduto così che società, spesso facenti capo a giganti del settore, come San Pellegrino, Nestlè, Italacque, abbiano versato nelle casse delle amministrazioni locali cifre irrisorie. Pochi spiccioli, in media circa 2.500 euro all’anno. Per ogni metro cubo di acqua (cioè per ogni mille litri) le società del settore hanno corrisposto mediamente alle regioni 0,05 euro.

 

 Un cittadino invece paga un euro per la stessa quantità d’acqua, se la preleva dal rubinetto di casa. Venti volte di più. Il prezzo medio di una bottiglia di minerale al supermarket si aggira sui 40 centesimi, e facendo due conti si ottiene che per quel metro cubo che alle imprese costa cinque centesimi il cittadino paga circa 300 euro. Il guadagno su ogni 5 centesimi investiti, insomma, è più o meno del seimila per cento. Niente male. Cosa paghiamo, allora, quando compriamo la minerale in bottiglia? Soprattutto la pubblicità. Le aziende spendono circa 400 milioni per propagandare il “prodotto” con spot tv, annunci su radio e carta stampata. Negli ultimi anni molte Regioni sono corse ai ripari. Sopratutto a seguito della decisione della Conferenza delle Regioni, del 2006, di rivedere i canoni di concessione per le aziende, introducendo nuovi e più giusti criteri, come il pagamento della quantità di acqua imbottigliata o utilizzata. Negli ultimi cinque anni sono state 13 le Regioni che hanno introdotto nuovi provvedimenti o adeguato le normative esistenti.

 

 Tra queste solo 9 hanno rispettato, seppur in alcuni casi parzialmente, i criteri del documento della Conferenza delle Regioni: Abruzzo, Friuli Venezia Giulia, Lazio, Lombardia, Toscana, Provincia autonoma di Trento, Umbria, Valle d’Aosta, Veneto. Il Lazio, secondo il rapporto di Legambiente-Altraeconomia, occupa il primo posto nella classifica delle Regioni virtuose. La decisione, assunta nel 2007 da Luigi Nieri, Assessore al Bilancio della precedente Giunta regionale, sancì il raddoppio delle tariffe per l’utilizzo a fini commerciali dell’acqua delle fonti pubbliche (120 euro a ettaro anziché 61,97 euro, come fissato nel 2002 da Storace, per un importo complessivo che non può essere inferiore ai 5000 euro, invece di 2500) e l’introduzione di un balzello di 2 euro per ogni metro cubo di acqua minerale, 1 euro per ogni metro di acqua di sorgente utilizzata ma non imbottigliata.

 

 Altre 4 regioni, Campania, Piemonte, Calabria e Puglia, invece, pur avendo rivisto i canoni di concessione, non si sono adeguate ai nuovi criteri. Sono invece ancora 7 le regioni che non hanno in alcun modo aggiornato i canoni dopo l’approvazione del 2006 delle linee guida (Basilicata, Provincia autonoma di Bolzano, Emilia Romagna, Liguria, Marche, Molise, Sardegna). Insieme rappresentano circa il 25 per cento delle concessioni attive sul territorio nazionale: una su quattro. In alcuni casi si è di fronte a vere e proprie regalie. In Liguria, ad esempio, una legge regionale del 1977, ancora in vigore, stabilisce che per ogni ettaro dato in concessione, si pagano 5 euro. In Molise vige ancora il Regio Decreto del 1927 e si pagano solo 10 euro per ogni ettaro. Non va meglio in Emilia Romagna e in Sardegna dove per ettaro si pagano, rispettivamente, 19 e 37 euro.

 

 Il tema non è sfuggito a molti amministratori locali che, in questi mesi, hanno dato vita a proposte legislative e dibattiti animati. Lo scorso 5 agosto, ad esempio, i Consiglieri regionali della Basilicata Alessandro Singetta (Api), Gennaro Straziuso, Luca Braia, Pasquale Robortella (Pd) e Giannino Romaniello (Sel) hanno presentato una proposta di legge finalizzata ad «armonizzare i proventi della commercializzazione delle acque minerali con quelli di altre regioni italiane e con quanto stabilito dalla Conferenza delle Regioni». Nel Consiglio regionale dell’Umbria, invece, la questione è stata sollevata dal Consigliere dell’Idv Dottorini, il quale ha affermato: «Non è più tollerabile vedere aziende che lucrano utilizzando un bene comune versando solo pochi spiccioli nelle casse pubbliche».

 

 Gabriella Meo, consigliera regionale dell’Emilia Romagna (Sel-Verdi), ha depositato uno specifico disegno di legge che, tra le altre cose, prevede la modifica della L. R. n.32 del 1988, e l’aggiornamento dei diritti proporzionali relativi ai permessi di ricerca ed alle concessioni minerarie per l’estrazione e l’utilizzo di acque minerali, di sorgente e termali. Secondo Gabriella Meo in Emilia Romagna «le 23 aziende concessionarie autorizzate hanno imbottigliato annualmente oltre 340 milioni di litri, per i quali sono stati pagati canoni per la ridicola cifra di 35.374 euro: un’autentica regalia ai privati concessionari, una cifra inferiore persino allo stipendio del funzionario regionale che ne segue l’iter burocratico». Una vicenda tutta italiana che stride fortemente con il clima di austerity imposto da Tremonti. Come si fa a chiedere ancora sacrifici agli italiani quando si consente a società, spesso multinazionali, di lucrare senza limiti?

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Giorgiana Masi

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