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Non si sa se ridere o piangere di fronte all'interpretazione grottesca della questione viene offerta dal Wall Street Journal
Post n°5126 pubblicato il 28 Agosto 2011 da cile54
La favola della Tav e i suoi cantori
Ricordate la Tav in Val di Susa? La grande opera che doveva riportare il Piemonte in Europa e l'Italia nel mondo? Il progetto faraonico fondato su previsioni di traffico che erano già vecchie dieci anni fa? L'abbozzo di cantiere diventato un campo di battaglia, usato per ricordarci che gli estremisti ci assediano e se l'opera fallisce è solo colpa loro? Non esiste più. Scomparsa. Smaterializzata. Sublimata in politica del riporto (quella che prova a coprire il vuoto di idee con ponti, binari e altre imprese scenografiche, utili quando nascono con-per-dentro un territorio, demenziali se disegnate in astratto su una carta geografica, fregandosene del rapporto costi-benefici, nella speranza di drogare il Pil).
La Tav è ormai diventata un feticcio, un ectoplasma mediatico, una metafora, un archetipo del liberal-misticismo. Spariti i numeri, le obiezioni rimaste inevase, le ragioni pro e contro. Sparita anche l'opera in sé, ridotta a un cantiere-simbolo in cui si combatte la battaglia del Paese moderno, liberale, progressista contro le forze oscure della conservazione provinciale, radicale, ecologista, naif. E come spesso accade quando il reale (ambiguo, problematico) viene soppiantato dall'ideale (qualcosa in cui credere a prescindere) le riflessioni sul tema diventano divagazioni sul contesto. Una fede non si discute, al massimo la si difende e la si diffonde. Evitata accuratamente la sostanza, data per scontata la necessità di un'opera che ha pochi uguali nella storia Italia recente quanto a inutilità riconosciuta, si citano citazioni di chi citava dati citati da non si sa più chi.
Il paradosso è che i sì-Tav, impegnati a dipingere gli oppositori come retrogradi e ideologizzati, finiscono per usare la più sciocca retorica ideologica, senza mai provare a rispondere alle obiezioni sollevate dai no-Tav. Straordinaria e ultima, in ordine di tempo, la paginata de La Stampa (23 agosto) in cui il corrispondente da New York ci informa di un irridente articolo del Wall Street Journal sulla Tav, bloccata da «un migliaio di valligiani, avvocati e ambientalisti», o ancora meglio «da una curiosa alleanza di pacifici retrogradi religiosi e avanguardisti dell'ambientalismo violento».
Non si sa se ridere o piangere di fronte all'interpretazione grottesca della questione che, mediata da La Stampa, viene offerta dal Wall Street Journal (non per niente si affida al ministro Brunetta come battutista pro-Tav e prende per i fondelli il povero Gigi Richetto) e il silenzio sulle obiezioni tecniche ed economiche dei no-Tav (si citano come principali ragioni "contro" l'amianto, il rumore e le vibrazioni causate dai convogli… !?). Si parla di un "Paese frenato da pochi oppositori". Per lo più ignoranti e violenti. Ignoranti e violenti, forse, come quei 150 docenti universitari che hanno scritto a Napolitano, sottolineando che «è ormai nota una consistente e variegata documentazione scientifica che contraddice alcuni assunti fondamentali a supporto dell’opera e ne sconsiglia nettamente la costruzione, anche alla luce di scenari economici e ambientali futuri del tutto differenti da quelli sui quali, vent’anni fa, si è basato il progetto».
Grazie al Wall Street Journal e a La Stampa eniamo rieducati attraverso la storia simbolica del Piccolo Motore Blu "che ce la fa", trascinando un treno pesantissimo su per la collina, come vuole una favola per bambini americana (citata con un gioco di parole nel titolo «Protesters Make Italian Rail Project The Little Engine That Couldn’t») di quelle che propagandavano l'American Dream fondato sull'ottimismo, il lavoro e l'individualismo.
Ecco, appunto: favole, archetipi, ideologia, ragioni indiscutibili, come gli «8 mila posti di lavoro in gioco» citati nel pezzo, cifra già messa in discussione in più di un'occasione. La Tav vista dagli Usa è "L'Italia che non ce la fa". La Tav vista dall'Italia è sempre più la storia di un Paese in cui di solito vincono i soliti furbi, i professionisti dell'appalto e del drenaggio di fondi statali, i politici amici dei professionisti. E in cui stavolta si stanno muovendo forze, persone, associazioni, territori, movimenti, intellettuali, convinti che qui si giochi una fondamentale partita sull'Italia che sarà. Gli strumenti utilizzati per la lotta a volte sono vecchi? Non lo è lo spirito che la anima e la prospettiva a lunga scadenza di un nuovo modo di pensare il futuro del Paese, quando il "no" alla Tav potrà diventare un "sì" a nuovi metodi, progetti, modelli di sviluppo.
Fabrizio Tassi 25 agosto 2011
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Giorgiana Masi
Roma, 12 maggio 1977
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