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Quello che è accaduto a Roma è un evento più complesso di quello che i massmedia hanno raccontato, e che Di Pietro ha capito

Post n°5371 pubblicato il 18 Ottobre 2011 da cile54

Dai no global agli indignados cresce la consapevolezza di una sfida epocale

 

 

Quello che è accaduto sabato 15 ottobre a Roma è un evento più complesso di quello che i massmedia hanno raccontato. I deprecabili incidenti causati dai cosiddetti black block (che paiono non mancare mai a questo tipo di eventi nonostante lo spiegamento colossale delle forze dell'ordine già dai giorni precedenti) hanno avuto l'effetto di rovinare una manifestazione che era iniziata come una bellissima festa, partecipatissima, il segno che anche in Italia una coscienza civile che non si rassegna alla politica autoreferenziale, protesa solo a perpetuare la casta e i suoi interessi, e a un sistema finanziario che alimenta e aumenta le diseguaglianze sociali, c'è e vuole essere protagonista.

E hanno avuto l'effetto, certamente voluto, di far parlare di sé e non di quello che le centinaia di migliaia di persone venute da tutta Italia avevano da dire. Come il movimento per l'acqua pubblica, che è riuscito a imporsi nonostante la scarsità di mezzi e risorse, al punto di ottenere un referendum (grazie alla raccolta di oltre un milione e 400 mila firme) e, soprattutto, di vincerlo con una schiacciante percentuale, segno che quando un'idea è valida in sé, come lo è quella di vedere nell'acqua un diritto e non una merce, la gente segue e la fa propria. Al di fuori di ogni appartenenza partitica, ma al cuore di un fare politica con la P maiuscola, quella che mira a contenuti precisi, di rilevanza fondamentale per i cittadini e che per questo è aperta alla loro massima partecipazione e responsabilizzazione, ben oltre la logica della delega, il movimento dell'acqua testimonia che un modo alternativo di fare politica anche nell'Italia bloccata dal berlusconismo e dall'antiberlusconismo, esiste e dà i suoi frutti.

Per questo, il suo gridare, lungo il tragitto da piazza della Repubblica al Laterano, che "gli italiani hanno votato, fuori l'acqua dal mercato" assume i toni di una consapevolezza della propria capacità di agire incontestabile.

Così come consapevoli della validità della loro proposta sono i giovani e meno giovani di Attac, movimento no global nato negli anni 90 per contrastare la finanziarizzazione dell'economia, nell'età d'oro della finanza onnivora, i cui danni iniziavano a essere evidenti se non Occidente, certamente nei paesi del terzo mondo: l'idea di una tassazione minima sulle transazioni finanziarie, la cosiddetta Tobin tax in tutte le sue possibili varianti, è valida al punto da non essere mai stata applicata seriamente da una politica sempre più subordinata al potere bancario e finanziario, per il quale essa rappresenterebbe un ostacolo alle propria libertà di dominare incontrastata.

 

Accanto a questi movimenti, che traggono origine dalla contestazione alla globalizzazione capitalista liberista di fine millennio, vi erano centinaia di migliaia di giovani e giovanissimi che forse di Naomi Kleim, Vandana Shiva o Noam Chomsky, tra i più famosi riferimenti del pensiero no global, non hanno mai sentito parlare, ma che gli effetti di ciò che quelli hanno analizzato e contrastato questi lo vivono sulla loro pelle, schiacciati in una dimensione di precarietà che da lavorativa e sociale è divenuta esistenziale. Dietro al grido "non abbiamo rappresentanza" si cela la consapevolezza di un furto di futuro da parte di chi li ha preceduti, l'impossibilità di vedere nell'alternativa della tante pratiche nate dal movimento no global una speranza. La speranza chiede tempo, quello che per loro appare solo come un insieme di nebulosi istanti da vivere giorno per giorno, precariamente, appunto.

 

La maschera simbolo di questo nuovo movimento degli indignados porta però il segno della responsabilità personale, del coinvolgimento in prima persona, come quello dei protagonisti del film "V per vendetta", a cui si richiama, che sostengono il golpe bianco di un loro concittadino contro il potere tanto anonimo quanto massmediaticamente invasivo, ritrovando la forza di un agire comune. Anche in questo caso si è ben oltre la logica della delega, si lancia la sfida di un nuovo modo di essere cittadini protagonisti, anche se il cammino è tutto da inventare.

 

Tante altre erano le frasi che si potevano leggere nei cartelli improvvisati dei partecipanti: dalla rabbia dei terremotati aquilani delusi da una politica capace solo di farsi pubblicità sulle aleatorie promesse della ricostruzione, a quelle inneggianti le lotte nonviolente di Gandhi, a quelle che parevano essere uscite da un manuale di economia di Amartya Sen, tanto erano precise nell'analizzare i veri motivi della crisi economica e sociale occidentale, dell'assenza di etica di un'economia fondata esclusivamente sulla ricerca del maggior profitto, della responsabilità dei processi finanziari nell'aumentare le diseguaglianze sociali in maniera esponenziale. Tutte, comunque, accomunate da una grado di consapevolezza elevato, segno di una maturità di pensiero che una parte della società italiana ha saputo costruirsi mentre un'altra badava a godersi la sbornia di privilegi drenando le già scarse risorse pubbliche. Ma di questo, come già a Genova dieci anni fa, non si parlerà, destinato all'ennesimo oblìo.

 

E' questa mancanza di informazione la prima vittima dei disordini di San Giovanni, è questo mancato sguardo sulle complessità di pensieri e idee che stanno ridisegnando quelle che un tempo si definivano le "forze sociali" la ferita più eclatante di una coloratissima e pacifica piazza trasformata in guerriglia urbana. E con essa l'opinione pubblica, ancora una volta privata di un'informazione seria e articolata su ciò che è veramente in gioco in questa fase epocale della storia occidentale e mondiale.

 

Sabrina Magnani

17 ottobre 2011

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