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Ma allora quali margini rimangono alla politica una volta estromesse le forze politiche antagoniste al sistema?

Post n°5404 pubblicato il 24 Ottobre 2011 da cile54

Arriva la sondocrazia, ti dice come la pensi e come voti 

 

Il primo ad avere utilizzato l'espressione sondocrazia - se non andiamo errati - è Stefano Rodotà, in un suo saggio risalente ormai a più di dieci anni, Tecnopolitica. La democrazia e le nuove tecnologie della comunicazione. La formula starebbe a significare l'uso dei sondaggi come strumento per influenzare, in un senso o nell'altro, il comportamento di quantità strategiche di elettori. Sondocrazia appartiene a quella schiera di neologismi inventati per far fronte, in qualche modo, alla difficoltà di descrivere le democrazie del nostro tempo. Il politologo britannico Colin Crouch si è visto costretto a inventarsi il termine di "postdemocrazia", l'unico adatto - a suo avviso - di cogliere l'eccezionalità dei regimi politici delle società avanzate, nelle quali formalmente continuano a valere gli istituti della democrazia rappresentativa del dopoguerra, ma svuotati di reale potere deliberativo rispetto ai poteri delle oligarchie politiche ed economiche. Mentre i parlamenti diventano marginali nella vita pubblica dei paesi, i luoghi in cui si prendono le decisioni strategiche sono a loro volta impermeabili alle domande della società. La forma della democrazia è immutata, ma nella sostanza a decidere sono i mercati, i capitali finanziari, la Banca centrale europea - un caso fra tutti, la lettera della Bce di agosto che dettava "riforme" e tempi delle medesime.

Il tema non è nuovo ai lettori di Liberazione che di recente ha aperto un dibattito sulla scia del forum tra il direttore Dino Greco, il segretario di Rifondazione Paolo Ferrero, quello della Fiom Maurizio Landini e Fausto Bertinotti, che nel suo saggio sulla rivista Alternative per il socialismo nomina il problema di «far saltare il recinto neoautoritario». «Questo capitalismo finanziario globalizzato - dice Bertinotti - ha la vocazione di sussumere dentro di sé tutto e tutti, di ridurre tutto a merce - come ogni capitalismo - ma in una condizione di assenza del proprio avversario storico. L'idea che porta avanti è che per essere competitivi bisogna ridurre tutto a variabile dipendente. Da qui nasce l'incompatibilità di questo capitalismo con la politica - intesa come sfera autonoma in cui si formano le decisioni. E' una vocazione totalizzante che produce un'Europa oligarchica in cui i conflitti sociali, in primo luogo quelli del lavoro, vengono non combattuti, ma considerati fuori dal quadro ammissibile di questa società organizzata». La politica così come oggi si manifesta, all'interno del recinto delle forze legittimate a governare, ha solo l'apparenza della democrazia, essendo stata svuotata delle proprie prerogative.

Ma allora quali margini rimangono alla politica? Se essa è ridotta all'impotenza, quale funzione svolge effettivamente all'interno del sistema di governo delle merci e degli uomini, in virtù della quale le è concesso di rimanere in vita? Perché, se per assurdo la politica non avesse più alcuna utilità, non solo per contrastare gli interessi dominanti, ma persino per garantire la riproduzione del sistema, essa non avrebbe più ragione d'esistere. Ma invece esiste. E deve poter esistere in vista di una qualche utilità per il sistema dominante. Questa funzione è il marketing elettorale. Per quanto la sua potenza onnivora sia spropositata, per quanto esso governi di fatto i processi materiali della società, il capitalismo finanziario globalizzato del nostro tempo non può fare a meno della politica, non la può sopprimere, a meno di non perdere lo strumento di orientamento delle opinioni. Una volta estromesse le forze politiche antagoniste dal circuito legittimo della governabilità, le democrazie si sono organizzate sul modello del bipolarismo maggioritario. All'interno del recinto delle istituzioni - per stare alla metafora - possono competere soltanto partiti o coalizioni tra loro omologhi, accomunati dal condividere le medesime opzioni economiche dominanti. L'unica competizione che si può stabilire tra di essi è nel contendersi segmenti sempre più ristretti di elettori di "centro", ma determinanti per far prevalere uno dei due attori in gara. Non è un caso, che nello schema delle democrazie bipolari i sondaggi abbiano conquistato un ruolo di primo piano nel dibattito pubblico. La sondocrazia, per essere più precisi, è l'uso dei sondaggi non per scopi conoscitivi, ma per «influenzare il comportamento di una quota strategica di elettori» - scrive Paolo Natale in Attenti al sondaggio (Laterza, pp. 134, euro 12) e docente universitario di Metodologia della ricerca e Analisi dei sondaggi. «Uno dei motivi principali è proprio legato all'evoluzione avvenuta nell'elettorato, che ha subìto negli ultimi anni, un po' in tutto il mondo occidentale, una progressiva polarizzazione in due aree politiche quantitativamente simili e, salvo casi limitati, particolarmente fedeli alla propria area: con scarti ridotti tra i due poli politici, le scelte legate al tipo di campione, e al metodo di rilevazione volta per volta utilizzato, possono provocare stime con vincitori differenti».

Ma da cosa dipende l'aleatorietà? E' che i sondaggi non sono una scienza oppure è colpa dei politici che alterano le indagini demoscopiche a seconda delle proprie convenienze? Per quanto i sondaggi di opinione siano di buona fattura rispetto al passato, una certa dose di approssimazione è congenito non solo nel metodo, ma anche nella natura dell'oggetto studiato, che deve tener conto della complessità e della volatilità delle opinioni. Eppure, non si tratta dell'assenza di consapevolezza sugli strumenti. Bene o male una scienza demoscopica esiste ed è tutto sommato avvertita sulle difficoltà dei metodi utilizzati, tanto da avere al proprio interno scuole di pensiero diverse - dal metodo dell'analisi per variabile a quello dell'analisi dei soggetti. Più che parlare di sondaggi scientifici o non scientifici, meglio parlare allora di «sondaggi corretti o di sondaggi scorretti». Un sondaggio è composto «da una serie di passaggi più o meno obbligati, in ognuno dei quali occorre tenere in considerazione i corretticriteri per giungere al risultato finale. Ciascuna delle fasi di un sondaggio può quindi essere inficiata daerrori, distorsioni, manchevolezze che non permettono il corretto perseguimento del proprio obiettivo». Poniamo, ad esempio, che un sondaggio venga realizzato su un «campione probabilistico» di individui. Che valore può mai avere un'indagine su individui che hanno «l'identica probabilità a priori di essere intervistati», indifferentemente dalle opinioni? Supponiamo che per conoscere il grado di fiducia degli italiani nell'Ue si scelga un campione probabilistico di mille cittadini estratti dalle liste elettorali. Siccome non sarà possibile avere di tutti un numero di telefono o reperirli tutti quanti o, ancora, ottenere da tutti la disponibilità a farsi intervistare, si renderà di fatto obbligatorio pescare altri individui per rinfoltire il campione. Ma di questo passo, del campione originario resterà ben poco. Chi ci assicura che gli individui non reperiti avrebbero dato le stesse risposte di coloro che sono stati inseriti nel campione per sostituirli? «I sondaggi forniscono solamente una stima, la più accurata possibile, dell'orientamento/comportamento di voto degli elettori; ma risentono della variabilità insita nel metodo stesso, il ben noto errore di campionamento».

Ma non è solo «l'imperfezione demoscopica a generare mostri», «è anche la politica che se ne ciba in forme sconsiderate, utilizzando le indagini per fini propagandistici o comuicativi, e molto raramente a fini conoscitivi». Quando un leader politico commissiona un sondaggio non lo fa solo per «comprendere il reale pensiero degli elettori». Altre domande - tipo "gli italiani hanno paura degli immigrati?" - sono «preventivamente destinate a venir pubblicate sugli organi di stampa o in Tv al fine di creare un determinato clima di opinione, favorevole se possibile al committente stesso». I sondaggi - è il colmo del paradosso - «ci raccontano come siamo, senza che noi possiamo fare nulla per contraddire questa "nostra" opinione». Poco alla volta «gli italiani cominciano a pensare e a pensarsi in maniera simile a quanto viene loro raccontato: scoprono di avere determinate opinioni e di vivere in un certo modo e si adeguano quindi a quelle credenze, a quello stile di comportamento». Così si forma il clima di opinione. Ed è impossibile mutarlo perché «tutti parlano e discutono come se quel dato fosse reale».

Tonino Bucci

23/10/2011

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