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Capitalismo reale. Che paese è il nostro se un uomo deve sentirsi "fortunato" ad essere in cassa integrazione?

Post n°5578 pubblicato il 25 Novembre 2011 da cile54

Vi racconto la mia vita da cassintegrato

 

Alzarsi la mattina, come sempre, e stare attento a non svegliare il tuo amore. Un bacio sulla spalla e poi via giù dal letto a soppalco che rende una stanza incredibilmente piccola un po' meno piccola.

Prendo i pantaloni dalla sedia, litigo con il cellulare che cerca di svegliarmi quando sono già sveglio e passo in cucina. Preparo il caffè, mentre fuori è ancora buio, accendo il pc, guardo la mail, prendo il badge dal ripiano sopra le scarpiere in plastica apro la porta e... ma dove vado?

E' il 3 di ottobre, da oggi non ho più un lavoro. 12 luglio, 78 giorni fa. Una riunione, "i capi" che parlano, le solite motivazioni: «C'è crisi», «il mondo è cattivo» e quella frase, «non abbiamo mai lasciato a casa nessuno…» a cui manca il finale: «Fino ad adesso». Perché quando inizia il calvario di una "procedura di mobilità" non siamo più uomini e donne, non abbiamo sogni, speranze, amori, siamo "esuberi" e come tali andiamo trattati, con freddezza, con distanza.

78 giorni dopo sono in cassa integrazione e non ho più un lavoro. Non so descrivervi come ci si senta. Scoordinati, inquieti, spesso assenti. I pezzi della tua vita non ritornano, non combaciano. 78 giorni fa, un senso d'isolamento, quasi di vergogna nel guardare la gente che ti vuole bene, e quella risposta sempre pronta, «va bene», quando è chiaro che non va bene un cazzo, perché qualcuno non può capire cosa vuol dire essere senza lavoro, qualcuno ha dimenticato la bellezza del sentirsi liberi, indipendenti, dignitosi, con le mani piene di calli e la schiena stanca, ma con la testa alta, orgogliosamente alta.

78 giorni e la riscoperta dei "valori", di quella rappresentanza sindacale avuta più per motivi affettivi che per meriti acquisiti. Dopo due anni passati a leggere buste paghe e sanare discussioni sulle ferie, ti ritrovi in mare aperto, contro corrente, con l'azienda che sembra enorme e tu piccolo, piccolo, cocciuto, nel tentativo di ratificare prima a te stesso, e poi agli altri, che le tue parole ed idee sono consequenziali alle azioni.

78 giorni che sembrano secoli, il panico, la rassegnazione, la determinazione, il silenzio, una trattativa infinita. Le attese tra una proposta ed una contro proposta. Sapete, le attese sono terribili, quando aspetti sembra che il tempo resti inchiodato. Sorridi, parli, inventi e i tuoi colleghi sono lì a cercare risposte che non hai, a bestemmiare, a mandarti a quel paese. Senti tutta la solitudine di chi sa verità e non le può dire, di chi spera ma non può creare illusioni. Ed i giorni che scorrono, lenti, pensi che tutto crolli e senti un groppo alla gola quando invece vedi i lavoratori alzare la testa, cementarsi, non mollare, crederci. Senti crescere la spavalderia, ora non sei più solo. Vedi incarnarsi in due funzionari della Cgil il vero significato della parola "sindacato". Ed ogni sera quando torni a casa e ti chiedono «come stai?» il tuo «va bene» diventa sempre più convinto.

12 luglio-28 settembre, la firma. Un grande accordo mi dicono, «per la prima volta la tua azienda ha aperto la cassa integrazione, bisogna festeggiare»; «che culo!», penso e sorrido nervoso. La mattina dopo al centro per l'impiego di Bologna capisco perché dovrei festeggiare: «Signor Alessi, lei è fortunato, prima vengono i senza lavoro, poi quelli in mobilità, poi la gente in disoccupazione, per lei c'è tempo, si riposi». «Ci provi lei a campare con meno di 800 euro», vorrei rispondere, ma trattengo il respiro, saluto e vado via.

Che paese è il nostro se un uomo deve sentirsi "fortunato" ad essere in cassa integrazione? Dove i ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri devono spartirsi le macerie, sperando di diventare un po' meno poveri degli altri. Amo le utopie, vorrei diritti per tutti, lavoro per tutti. Ma oggi la realtà dice che io sono "fortunato".

78 giorni dopo mi hanno tolto, per non specificate "congiunture economiche", il lavoro, la tranquillità, la rappresentanza dei lavoratori, ma non mi hanno piegato.

79 giorni dopo, mi alzo, guardo la mia compagna, la bacio, prendo le chiavi dal comodino ed esco a cercare lavoro. Con un grande senso d'angoscia, ma con la certezza di poter guardare negli occhi tutti., 78 giorni dopo non ho più un lavoro, ma ho ritrovato negli occhi dei miei colleghi la speranza, e non ho tradito la mia dignità di uomo, per ora mi basta questo.

 

Gaetano Alessi

delegato Filcams Cgil Bologna

24/11/2011

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