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Il clima è di rabbia e tensione. La struttura è composta da 7 gabbie (una per le donne) di circa 25-30 posti ognuna

Post n°6051 pubblicato il 02 Marzo 2012 da cile54

Il CIE di Torino: né diritti né umanità

I CIE (Centri di identificazione ed espulsione) sono nell’elenco dei “Centri dell’immigrazione” del Ministero dell’Interno insieme ai CDA (Centri di Accoglienza) ed ai CARA (per richiedenti asilo), ma la loro è una finalità particolare: possono “ospitare”, fino a 18 mesi (!), immigrati stranieri “clandestini” in attesa di espulsione, i più senza aver commesso reati, se non quello di aver calpestato il suolo italiano fuggendo dalla guerra, da rivolte, da situazioni di grave pericolo. Alcune delle persone presenti nei CIE hanno invece commesso qualche reato più grave, sono state in carcere senza identificazione della propria ambasciata ed ora, in attesa di riconoscimento, stanno nel CIE Le rappresentanze dei loro Paesi (Nord Africa, Nigeria) spesso impiegano mesi e mesi per operare la loro identificazione. Si tratta però di una minoranza, i più sono solo “colpevoli” del reato di clandestinità previsto dalla legge 94/2009, ed ora dalla legge 129/2011, ulteriormente peggiorativa. I CIE sul territorio nazionale sono 13: il più grande è a Roma, Ponte Galeria, (300 posti), poi ci sono Trapani, Bari e Torino con 180 posti.

Il clima che si respira tra gli “ospiti obbligati” è di rabbia e tensione. A Torino la struttura è composta da 7 gabbie (una per le donne) di circa 25-30 posti ognuna, situate all’interno della recinzione (muro con griglia) alta 9 metri. E’ anche presente una struttura nuova e dignitosa, ma che si trova in cattivo stato perché “vandalizzata” dalle continue rivolte dei detenuti esasperati. D’altra parte la “rabbia” tra questi “ospiti” è tangibile: i più si sentono ingiustamente detenuti perché privati della libertà per il solo fatto di essere stati trovati senza permesso di soggiorno o con permesso scaduto da oltre 2 mesi. La mancanza di un documento viene così di fatto punita con una detenzione che può essere di 18 mesi, mentre un reato come il furto può essere punito anche con una pena molto inferiore (dai 3 mesi ai 3 anni, art. 624 del codice penale).

Chi ha il permesso di accedere alle gabbie, come i sacerdoti che possono visitare i detenuti per “motivi religiosi”, può entrarvi solo se vi sono almeno 2 agenti disponibili ad aprire. La visita di un religioso dà un po’ di serenità al dialogo: gli “ospiti” del CIE parlano, chiedono favori (soprattutto la ricarica del telefonino), chiedono di essere messi in contatto con un legale, raccontano i problemi di salute, di famiglia. Quella che domina, oltre la rabbia, è la noia: restare tutto il giorno e la notte in una “gabbia” senza fare nulla. Alcuni pregano (diversi musulmani con qualche “imam – fai da te” fanno i 5 momenti di preghiera; i cristiani – donne soprattutto – leggono la Bibbia in lingua, che gli fornisce l’Ufficio Pastorale Migranti e pregano con i religiosi quando vanno a far loro visita). Quello che ho notato è che il CIE è un posto strano: un “non carcere”, ma vissuto peggio del carcere, escluso (o quasi) ai giornalisti ed ai media che se pure oggi possono entrare in un CIE, spesso non hanno il permesso di parlare direttamente con i suoi “ospiti”. Il fatto è che l’esistenza stessa di questi Centri – nata da una legge razzista, molto probabilmente incostituzionale – è quella che va contestata politicamente. Creati per “contenere” il fenomeno immigrazione “clandestina” per legge, con costi impressionanti (il numero di agenti ed operatori è di poco inferiore agli ospiti), senza motivo se non per accontentare il partito dei “duri e puri” della Lega Nord (oggi all’opposizione), hanno bisogno di essere ripensati e forse annullati con grande risparmio economico: i CIE costano di più di tutte le politiche di integrazione che il governo mette in campo per 5 milioni di stranieri regolari!

I nodi problematici restano noia e rabbia, alimentati da inviti esterni di giovani “ “insurrezionalisti” contrari ai CIE, in una situazione di isolamento rispetto ai media che si occupano di quanti soggiornano in queste strutture di segregazione solo in caso di rivolte. E così le informazioni sulle reali condizioni dei CIE possono giungere solo dagli avvocati che in molti, attraverso il gratuito patrocinio, danno tempo e impegno per queste persone, dai religiosi, che hanno la possibilità di entrare nei Centri e attraverso le visite del Garante per le carceri. All’interno i servizi, ottimi sulla carta, fanno acqua in vari settori; uno dei nodi problematici è di sicuro l’aspetto sanitario. Un medico è presente nel centro, ma spesso, in caso di bisogno l’attesa per una visita è di un’ora e mezza, un tempo insostenibile per chi ha, per esempio, un attacco epilettico. Forse gli operatori vogliono anche con questi mezzi trasmettere il messaggio che in quel luogo non si parla di diritti.

Tanto è il tempo a disposizione degli ospiti: ci vorrebbero piccole attività, giochi che li impegnino, anche fisicamente, (calcetto, giochi da tavolo) e forse anche un atteggiamento diverso di alcuni operatori non troppo umani che rinfacciano loro i “costi per l’Italia” (veri, ma non scelti certo dai detenuti). Ci si chiede perché queste persone non possano essere impiegate in attività utili, servizi o altre attività lavorative come avviene nel carcere normale. In attesa e nella speranza che questi Centri vengano chiusi, si può provare, non a rendere umana una struttura disumana, ma ad aiutare queste persone a vivere un po’ meglio. Almeno questo dovrebbe essere possibile.

Fredo Olivero

Direttore Migrantes Regione Piemonte e Valle d’Aosta

1 marzo 2012

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