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Una parte d’Italia, realtà che operano una sottile e capillare opera di reclusione femminile tutti i giorni

Post n°6140 pubblicato il 23 Marzo 2012 da cile54

NOI, DIETRO LE SBARRE DEL CANCELLO

Chiamiamola Esse. Mi ha mandato la sua storia, che ne racchiude tante altre. Storie di bambine e bambini, di scelte, di obiezione di coscienza, di aborto. Io la trovo una storia bellissima, e ve la offro. Loredana Lipperini

Credo ci sia una connessione tra il fatto che esistono parecchi paesini, piccoli come quelli della vicenda di Anna Maria Scarfò, in cui la chiesa spadroneggia ed è l’unica realtà presente sul territorio a poter organizzare realtà di aggregazione, e come queste realtà sono organizzate, e soprattutto, cosa ruota loro intorno.

 C’è un paese piccolo come quello in cui è nata la Scarfò, in cui succede che nasco anche io. Una come tante altre nate, col fatto che però è nata femmina. Come tante altre. Che però capisce chiaramente che se nasci femmina non è che ti va poi tanto bene.

 Maschietti da una parte, femminucce dall’altra. Sin da sempre. Nessuna ribellione registratasi.

 Gli oratori, i luoghi dove i bambini e le bambine si incontrano per giocare, sono rigorosamente separati a seconda del sesso. Io femminuccia sono obbligata ad andare a quello per le femmine. Niente maschi. Una miriade di femmine intorno a me, io andavo molto più d’accordo coi maschi, ma niente da fare. A tenerci d’occhio ci sono altre femmine, grandi, queste, e le suore.

 I maschi so che loro, non hanno suore, né preti (che per me erano il corrispettivo maschile delle suore), solo ragazzi grandi che si prendono cura di loro. L’oratorio femminile è l’asilo parrocchiale del paese. L’oratorio maschile è l’enorme cortile della chiesa del paese, ha anche un campo gigantesco da calcio (adoravo giocare a calcio, quanto gliel’ho invidiato…), e due campi da basket. Poi c’è un tendone enorme sotto il quale si tengono varie attività che coinvolgono anche gli adulti, a volte. Da noi invece non ci stavamo tutti, per cui solo le bambine potevano starci, le attività di socializzazione erano altrove. Quando c’era l’oratorio feriale, poi, capitava che nel frattempo c’erano anche i bambini della materna, e allora stavamo coi bambini, li curavamo, pure. Niente di trascendentale, sia chiaro. Ma perché ho dovuto iniziare a giocare a fare la mamma senza scegliermelo? Avevo sei anni.

 All’oratorio ci si andava tutte le domeniche, e d’estate tutti i giorni feriali, perché i genitori lavoravano e c’era l’oratorio ad occuparsi di noi. La mattina si era stati tutti in chiesa, ed anche lì, all’interno dell’edificio, la fila di panche della navata di destra era riservata al sesso maschile, quella di sinistra, al sesso femminile. Rigorosamente separati anche durante la funzione, la domenica pomeriggio era naturale pensare come ovvio quello di andare in due posti diversi, io femmina qui, tu maschio lì. Si giocava, giochi di squadra, soprattutto. Poi c’era la famigerata ora di catechismo della domenica, tenuta da due ragazze che a me, bambina, sembravano vecchissime, in realtà avranno avuto al massimo diciotto anni. Un’ora di catechismo che a me sembrava durare ore, giorni… Che sofferenza infinita lì inchiodata a quella chiesa, anche se per loro era ovvio che noi non avremmo mai potuto desiderare nient’altro che stare lì ad ascoltare le gesta dei Santi, mentre ai maschi veniva data la possibilità di giocare su quell’infinito campo di calcio (e allora sì che quell’ora sarebbe stata più sopportabile!). Mi divertivo solo quando potevo fare un po’ di casino con qualche altra che si annoiava a morte insieme a me.

 A volte venivano i maschi in bicicletta dall’altro oratorio, e si fermavano davanti ad un cancello del nostro oratorio. Noi, dietro le sbarre del cancello, li guardavamo là fuori, liberi. Parlavamo un po’, non si faceva niente di anormale, ma bisognava stare attente che non ci beccasse nessuno, sennò sarebbero stati guai seri. E’ stato lì che ho iniziato ad amare il mio essere prigioniera. In un modo quasi perverso, aspettavo i maschi da dietro le sbarre, e sognavo di essere liberata da loro, miei salvatori. Un mondo di rabbia era dentro di me, sognavo di bruciare tutto e poter godere di un po’ di sana libertà. Avevo dieci anni al massimo. Il disagio che, secondo il prete, sarebbe nato ovunque tranne che dove c’era Cristo, era proprio lì sotto i suoi occhi, nato dal suo oratorio, e dalla sua politica di reclusione.

 E ora arriviamo al punto. Il punto di rottura.

 Dodici anni. Dopo sei anni di ininterrotta frequenza di quel posto, con quelle modalità, dopo aver dovuto visionare vari documentari pseudoscientifici che sostenevano che il feto urlasse e piangesse quando veniva praticato l’aborto, dopo tutto ciò, un bel giorno ci danno una specie di compitino da fare. C’era una domanda. Non mi ricordo su che cos’era. Ricordo solo che risposi tutt’altro, raccontando la storia delle streghe, e dell’inquisizione cattolica. Ricordo che le catechiste giovani mi presero da parte per chiedermi se ero diventata matta. Il fumo mi usciva dalle orecchie. Decisi di non andarci mai più, e difatti fu l’ultima volta che le vidi.

 Solo che ne uscii io come quella strana che fa cose strane. Ed era effettivamente strano fare una cosa del genere, per un paese come quello, con quella mentalità incontrastata. Era normale sostenere che i feti piangessero nell’utero, era normale pensare che i maschi e le femmine dovessero stare in due oratori separati senza poter socializzare, era normale non poter condividere niente con loro, era normale che fosse un tabù. Era normale essere strani se non si sostenevano i sacramenti della Comunione e della Cresima rispettivamente all’età di otto e dieci anni, era normale venir divisi in classi d’età per quanto riguardava il catechismo settimanale. Era normale non poter uscire dal clima che si respirava nella classe delle scuole elementari: anche la religione era una riproduzione eterna del conflitto e dell’armonia scolastica. E sono cose normali ancora oggi.

 Quel punto di rottura io me lo porto dietro da moltissimi anni. Quella rottura, il fatto che io ne sia uscita fuori ovviamente quella strana, ma non altrettanto ovviamente derisa per la mia debolezza, perché sì, ero debole perché ero piccola e sola, e nessuno ha pensato al bisogno di comprensione e di aiuto, di supporto. Nessuno, soprattutto, ha mai pensato al fatto che in questi paesini vige la regola non scritta “o con noi, o contro di noi”. E se sei “contro di noi”, a dodici anni che fai? Niente più luoghi di aggregazione, niente di niente.

 Essendo io quella strana, è ovvio immaginare quanto gli obiettori di coscienza lì, possano trovare terreno fertile per le loro idee. Se tu nasci, cresci e vivi in un posto del genere, arrivi a crederci. E non solo. Arrivi anche ad odiare le donne, perché questa parrocchia ti conferisce tutto un armamentario teorico di supporto. La chiesa, se è abbastanza potente, infatti, può anche arrivare a possedere un giornale settimanale su cui scrivono persone come l’autrice di “Sposati e sii sottomessa.”, o giornalisti de Il Giornale. Può godere del parere di presunti esperti che non si firmano quasi mai ma che usano la crisi economica e sociale di questi tempi per avallare ragionamenti da far invidia alla Lega nord, di un razzismo e di un elitarismo da spavento. Quella stessa parrocchia, nel suo giornale, ad oggi, rema contro il governo Monti in una direzione ancora più conservatrice, parla male dei giovani sparando nel mucchio, evocando strane storie di ragazzi-bamboccioni che non hanno voglia di fare nulla, e che, diciamocelo, un po’ la disoccupazione se la cercano, e dulcis in fundo, gode, per quanto riguarda “la questione di genere” dell’eminente opinione della scrittrice sopra citata, che dovrebbe rappresentare quello che le donne vogliono, come le donne sono. Può, il giornale, addirittura arrivare a sostenere che se la scuola pubblica è anticreazionista, allora viva le sovvenzioni pubbliche alla scuola privata.

 Questa è una parte d’Italia dimenticata, in cui governano delle realtà che, in definitiva, operano una sottile e capillare opera di reclusione femminile tutti i giorni, sin dalla più tenera età, in tutte le forme, e con tutti i mezzi che hanno, senza che tu, femmina, ti possa ribellare, se non uscendone completamente distrutta dal punto di vista psicologico.

Mia zia è morta a Gerusalemme nel 2008, dopo una lunga malattia. Ha avuto una vita meravigliosa.Si fece suora all’età di ventuno anni, ebbe così la possibilità di girare il Medioriente come missionaria e di visitare luoghi che altrimenti, se fosse rimasta al paese, non avrebbe mai potuto vedere. Nata nel 1930, era destinata ad una vita di massaia, madre e moglie, cui comunque le sue sorelle furono destinate, se non avesse scelto di farsi suora francescana. Fu così mandata ad insegnare in Egitto, Siria, Giordania, e infine, Palestina e Israele. Era la più grande di sette fratelli, dovette respingere tutti i suoi corteggiatori per conquistarsi una libertà che le avrebbe fatto conoscere una vita completamente diversa.

 Mi piace ricordare che mia zia non ebbe scelta. Forse raccontò ad altri che l’aveva. Ma guardo, ora, le sue sorelle, e poi ricordo la sua vita, le sue lettere con quella busta dai bordi blu e rossi (spedizione internazionale!), e quanto mi facevano emozionare le sue parole piene di felicità e serenità… Confrontando le due vite è chiaro che mia zia scelse quella via perché avrebbe avuto più indipendenza. Siamo nel 2012, sono passati tantissimi anni da quando lei era una ventenne, ma a quanto pare, in questi piccoli paesi, le cose restano sempre uguali, finchè qualcuno non si deciderà a remare contro le politiche sessiste di certi preti, piccoli uomini che non sanno fare altro che odiare.

 Finché qualcuno non deciderà che è ora che le donne abbiano scelta.

21 marzo 2012

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Giorgiana Masi

Roma, 12 maggio 1977

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