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Il comune linguaggio italiano tradisce una concezione della disabilità molto distante dalla ragione. Un ampio dossier

Post n°6218 pubblicato il 10 Aprile 2012 da cile54

Definizione e valutazione della disabilità: com'è arretrata l'Italia!

 

Disabile, invalido, handicappato, non autosufficiente: sono solo le più frequenti definizioni che incontriamo nella corposa e disorganica normativa italiana che tratta di tali aspetti. Dietro la terminologia e il linguaggio - assai poco coerenti nel tempo e nei contesti - c'è sempre un beneficio, una provvidenza, un'agevolazione, l'accesso a un servizio, che per essere ottenuti richiedono uno "status", uno specifico iter, un accertamento e un "soggetto preposto", che solitamente è un medico o una commissione prevalentemente sanitaria.

Inoltre, per l'accesso al sistema di servizi e prestazioni, in Italia non è quasi mai sufficiente la verbalizzazione di uno "stato invalidante", ma sono richiesti anche altri requisiti: ora di età, ora di limiti reddituali, ora in base ad altri criteri soggettivi o materiali. All'accertamento sanitario si aggiunge, quindi, anche quello più schiettamente amministrativo.

Ultimo, ma non ultimo: esiste in Italia una proliferazione di momenti accertativi, derivante proprio da una frammentaria molteplicità di definizioni, criteri, eccezioni, che mutano a seconda dei benefìci attivabili, anziché viceversa, mentre è ancora estremamente debole e confinata nell'ambito della sperimentazione la valutazione connessa alla presa in carico, alla programmazione individualizzata dei servizi, ai sostegni alla piena partecipazione sociale.

Ma dopo l'approvazione della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità [ratificata in Italia con la Legge 18/09, N.d.R.], questa impostazione è ancora sostenibile? Le attuali definizioni e i percorsi di riconoscimento degli stati invalidanti sono in linea con le definizioni di disabilità previste dalla Convenzione? Qual è la distanza fra ciò che accade in Italia e ciò che indica la carta internazionale, per altro ratificata dal nostro Paese?

 

La disabilità nel senso comune

Il comune linguaggio italiano tradisce una concezione della disabilità molto distante dall'accezione attribuita invece dalla Convenzione ONU. Disabilità viene infatti comunemente intesa come sinonimo di menomazione, cioè un fatto accidentale che afferisce al fisico, alla mente, ai sensi. È uno scartamento più o meno grave dalla media della normalità, valutabile, sbrigativamente, con logiche sanitarie. Essa riguarda e risiede esclusivamente nella persona che ne è affetta (non usiamo questo termine a caso). Gran parte del corpus normativo ricalca quindi - come è ovvio che sia - questa accezione, che assume pertanto la forma del paradigma, cioè del modello interpretativo della realtà.

 

La disabilità nelle norme italiane

Le disposizioni italiane in materia sono potenzialmente ancorate a due articoli della Costituzione Italiana (1948): il 3 e il 38.

L'articolo 3 - ricalcando la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani (ONU, 1948) -, sancisce che tutti i Cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione alcuna, e che «è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese». Lo stesso articolo vieta la distinzione «di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali».

Non c'è alcuna espressa indicazione alla disabilità (comunque intesa), anche se è possibile riconoscerla nelle ultime due parole e anche se la memoria storica ci aiuta a ricordare che - durante la discussione all'Assemblea Costituente - tra le condizioni personali e sociali veniva considerata solo la situazione dei ciechi.

Complessivamente, il terzo è un articolo di forte affermazione di diritti civili di ognuno, costantemente richiamato dalla Suprema Corte Italiana. Di fatto, però, gran parte della produzione normativa in materia di "disabilità" riprende l'articolo 38, ove si prevede che «ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale». Assistenza quasi compensativa, quindi, una volta che siano state dimostrate l'indigenza e l'inabilità (non la capacità di lavorare).

Poi si vedrà a quali articolazioni e gemmazioni ha portato concretamente questa impostazione nella produzione normativa italiana, nelle politiche, e nella prassi (servizi), ma queste, come è facile intuire, sono fortemente connotate dall'apprezzamento dello stato economico e di "incapacità lavorativa" del singolo, più che dalla ricerca del reale diritto di cittadinanza, richiamato dall'articolo 3.

 

La disabilità secondo l'ONU

 

Le definizioni di disabilità (Preambolo, lettera e) e di persona con disabilità (articolo 1, comma 2), sono l'espressione dei princìpi fondamentali su cui si basa la Convenzione ONU. Derivano pertanto dall'affermazione dei diritti umani delle persone, del diritto all'inclusione e della partecipazione sociale in condizioni di pari opportunità rispetto agli altri. Vi si aggiunga il conseguente divieto ad ogni forma di discriminazione e di segregazione e da ultimo si sottolineino tutti gli intenti legati all'abilitazione, alla libertà di scelta, alla ricerca di accomodamenti ragionevoli in caso di palesi condizioni di discriminazione.

In sintesi: le persone vanno messe nella condizione di vivere, scegliere, partecipare, rimuovendo gli ostacoli che impediscono loro di farlo e promuovendo soluzioni che ne consentano la partecipazione al pari degli altri.

È in questo contesto logico - prima ancora che etico - che ci si muove quando si definisce la disabilità come «un concetto in evoluzione» e come «risultato dell'interazione tra persone con menomazioni e barriere comportamentali ed ambientali, che impediscono la loro piena ed effettiva partecipazione alla società su base di uguaglianza con gli altri».

La disabilità non è un concetto imperituro che possa essere fotografato con un'immagine che non ha scadenza. Essendo il risultato di un'interazione, e potendo modificarsi uno degli elementi di tale "scambio", la disabilità che conosciamo oggi potrebbe essere molto diversa da quella di domani (peculiarità diverse, nuove forme di esclusione, nuove forme di partecipazione...).

Questa rimarcata evoluzione non ha solo un significato storico e sociologico - cioè riguardante l'evoluzione di un'intera società -, ma è valida anche rispetto ad ogni persona le cui condizioni possono modificarsi. La persona può seguire percorsi di capacitazione o involversi, suo malgrado, in situazioni segreganti o discriminanti, a causa di nuove barriere o ulteriori ostacoli. La disabilità cambia assieme all'interazione che la genera. Riconoscere e saper rilevare questa dinamicità permette anche di valutare l'efficacia delle politiche generali e dei supporti alle persone.

L'interazione è fra le persone che hanno una menomazione e le barriere che queste incontrano. Le barriere sono comportamentali: atteggiamenti, luoghi comuni, pregiudizi, prassi, omissioni. Le barriere sono ambientali: luoghi, servizi, prestazioni inaccessibili; assenza di progettazione per tutti; assenza di politiche inclusive… Non esiste disabilità senza barriere. Senza barriere e ostacoli ci sono "solo" persone con menomazione. Inoltre, questa interazione negativa assume significato perché impedisce alle persone con menomazione «la loro piena ed effettiva partecipazione alla società su base di uguaglianza con gli altri». Quindi, risultano incluse nelle interazioni negative anche le discriminazioni, cioè i trattamenti differenziati (diseguali) senza giustificazione.

In altre parole, viene riconosciuto che la rimozione o riduzione della disabilità è una responsabilità (e dovere) istituzionale e della società nel suo complesso. Infatti, le barriere, gli ostacoli e le condizioni di discriminazione sono creati in gran parte dalla società, che si è dimenticata che esistono persone che si muovono su sedia a rotelle, si orientano con un cane guida, comunicano senza l'uso della voce, si relazionano a cuore aperto.

L'articolo 5 della Convenzione ONU impone agli Stati di proibire qualsiasi discriminazione e, nel caso venga riconosciuta da un tribunale, obbliga gli stessi Stati a mettere in atto un "accomodamento ragionevole" che rimuova la condizione di discriminazione e diseguaglianza, ne impedisca il ripetersi e, nel caso, risarcisca il discriminato dai danni materiali e morali subiti.

Tenendo conto dell'«universalità, indivisibilità, interdipendenza e interrelazione» di tutti i diritti umani, ogni volta che si impedisce il pieno godimento di uno di questi diritti, vengono ad essere colpiti in una catena negativa anche tutti gli altri diritti.

Qui sta tutto il peso specifico della Convenzione: rendere un diritto effettivo di tutti e in tutti gli ambiti della vita ciò che oggi viene faticosamente riconosciuto solo come legittima aspirazione di qualcuno e solo in alcuni ambiti della vita.

 

Le persone con disabilità

Dello stesso tenore è la definizione di persona con disabilità: «Per persone con disabilità si intendono coloro che presentano durature menomazioni fisiche, mentali, intellettuali o sensoriali che in interazione con barriere di diversa natura possono ostacolare la loro piena ed effettiva partecipazione nella società su base di uguaglianza con gli altri».

Prima sintesi: per rendere la persona con menomazione una persona con disabilità, è necessario che una serie di barriere ostacolino la sua piena ed effettiva partecipazione. A generare la disabilità, quindi, non è tanto la menomazione, ma gli ostacoli che la persona incontra, le scelte e i percorsi che può o meno assumere durante la sua vita, a causa di barriere che altri hanno posto.

Si tratta di una definizione profondamente "rivoluzionaria" rispetto a quella assunta dalla normativa italiana (pre)vigente alla Convenzione: viene infatti riaffermata la responsabilità di fondo delle politiche di ciascun Paese e dei servizi che questo attiva e mantiene per favorire la piena inclusione e le pari opportunità senza discriminazioni basate sulla disabilità.

Carlo Giacobini

 

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