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« Non importa dove sono, f...Non c'è strage in Itali... »

Le parole di Ilaria Cucchi, in lotta con chi non si rassegna agli omicidi di Stato, Come le famiglie Aldovrandi e Uva

Post n°6248 pubblicato il 17 Aprile 2012 da cile54

"La giustizia non è uguale per tutti" 

 

Stefano Cucchi, Federico Aldovrandi, Giuseppe Uva. Tre nomi di una lista enorme e in gran parte composta da ignoti. Di persone fermate da agenti delle forze dell'ordine e poi decedute, in circostanze su cui quasi sempre non si è voluto fare chiarezza. Ma intorno madri, sorelle, amici e un tessuto che lentamente comincia a costruirsi e che chiede giustizia. Si ritrovano l'una al processo dell'altra, a rinnovare la violenza subita e a chiedere verità, giustizia e che soprattutto salti il muro di omertà e di silenzio che unisce troppo frequentemente giudici e agenti, in nome di uno Stato che non accetta di farsi processare.

 

Patrizia, Lucia Ilaria e altre. Unite da un dolore comune e da una determinazione che le porta da anni, da troppi anni a girare per tribunali di tutto il Paese. Figli, fratelli, uccisi da funzionari di quello Stato che dovrebbe garantirne, in ogni caso, l’incolumità. In carcere, in caserma, durante un fermo, morti su cui mano mano si va facendo luce soprattutto grazie alla loro volontà comune di giustizia. Ilaria Cucchi ieri era a Varese, al tribunale dove si stava decretando la morte per “colpa medica” di Giuseppe Uva, fermato nella notte fra il 14 e il 15 giugno 2008. Per Giuseppe venne disposto il Tso ma nel frattempo era stato pestato e torturato, forse anche violentato da chi lo tratteneva, Lucia Uva, la sorella ieri non era sola a chiedere l’assoluzione del medico. Strana richiesta? Così la racconta Ilaria Cucchi che contemporaneamente riceveva notizie dirompenti in merito alla morte del fratello Stefano.

 

«Si speriamo che il medico venga assolto. Siamo parte lesa ma non è colpa sua se Giuseppe è stato ucciso! Oggi il nostro comune avvocato Fabio Anselmo ha fatto una arringa straordinaria contro un Pm che si sente onnipotente e che nei vari dibattimenti sembrava volesse processare più Lucia che arrivare alla verità. Il fascicolo sulle cause reali della morte di Giuseppe Uva, un ragazzo che aveva commesso la sola colpa di farsi trovare ubriaco, è nel cassetto del Pm che finora si è anche rifiutato di ascoltare l’unico testimone di quella notte di violenza. Se la sentenza, prevista per lunedì, porterà all’assoluzione del medico dovranno per forza tirare fuori i veri responsabili Durante i dibattimenti siamo state buttate fuori dall’aula anche se stavamo in silenzio. Questo per dimostrare che la giustizia non va avanti da sola, non è uguale per tutti. Per noi avere giustizia significa affrontare uno sforzo immane sia dal punto di vista emotivo che economico».

 

Quanto vi sta aiutando il fatto che state lottando insieme?

 

«La storia di ognuno è di tutti e tutte. Siamo unite oltre che dal nostro vissuto dal nostro avvocato. Le nostre sono vicende che sono riuscite ad arrivare nelle aule e fanno riflettere. Nella sfortuna abbiamo avuto la fortuna di trovare un avvocato al di fuori dal comune, capace di andare contro tutti e tutto, sempre al nostro fianco. E qualcosa sta cambiando, ce ne siamo accorti anche ieri per come il giudice prestava attenzione al processo per Giuseppe».

 

È accaduto anche un fatto importante per il processo che riguarda la morte di tuo fratello

 

«Si la Corte ha disposto una superperizia e questo segna una significativa sconfitta per la consulenza della Procura. Anche nel caso di mio fratello l’atteggiamento del Pm era teso a difendere più questioni di principio che di verità. La loro tesi è assurda, non spiega la morte di Stefano, la considera dovuta a “malnutrizione” che solo per “coincidenza” si è verificata in quei giorni  fra carcere e ospedale. Io ringrazio il cielo di aver trovato invece consulenti capaci e onesti ,nel momento in cui hanno potuto parlare è entrata la verità. Fino ad allora si era svolto un processo alla vittima. Discettavano sul cattivo carattere di Stefano, sul fatto che fosse magro, su come trattava la sua cagnolina, sui rapporti con la famiglia. Ad ogni domanda pertinente del nostro legale veniva fatta opposizione Poi sono arrivati i testi portati da noi, non solo i consulenti ma l’impiegato del Comune, la custode della palestra»

 

Che tempi ti attendi per la perizia?

 

«Il 9 maggio verranno nominati i consulenti che dovrebbero essere fra i migliori in Italia. Io credo che la perizia avrà luogo dopo l’estate. Si tratta di un grande gesto dall’enorme significato. Mio fratello è stato massacrato e io e i miei genitori non ci tiriamo indietro. Non accettiamo che si parli di colpa medica e lesioni lievi. Come a dire che sarebbe morto ugualmente a casa e casualmente è morto al Pertini, per fatalità?. Ma il problema vero oltre quello di mio fratello è che di queste situazioni ce ne sono tante e molte non le veniamo neanche a conoscere. Molto spesso si chiede di far finta di niente e a chi chiede giustizia si dice di voltare pagina. conosciamo e il discorso che molto spesso si vuol far finta di niente meccanismo che si vuol portare alla giustizia si chiede di voltare pagina, Il meccanismo è infernale, all’inizio cercano di portarti a credere in una morte naturale poi di non voler più accertare quello che è accaduto. Devi sapere andare avanti e non hai la forza, il desiderio. È una violenza dover rendere pubblico il proprio dolore, parlare dei propri affetti per chi non c’è più. Oppure, molto semplicemente ti senti solo, non sai a chi rivolgerti. La persona che hai perso era nelle mani dello Stato e ti domandi come poter chiedere a quello stesso Stato di giudicare se stesso. Eppure devi mettere da parte tutto e intraprendere questo percorso che ti porta a rinnovare ogni volta il dolore, che non ti da modo di elaborare veramente il lutto».

 

Come sei riuscita a scegliere di lottare?

 

«Se non fosse terribile dirlo parlerei di fortuna. Dopo il primo giorno dal ricovero di Stefano, (la sua mortdi l'ho appresa col decreto di autopsia), ero quasi sollevata. Mi dicevo che in ospedale non poteva succedere più niente. Poi dopo la prima giornata al Pertini sono andato all’obitorio e ho dovuto insistere con forza perché il consulente, il dottor Tancredi, si rifiutava di farmi vedere mio fratello. Quando ho visto come lo avevano ridotto ho capito che bisognava fare qualcosa. Ho pensato che chi ha permesso di farlo morire in totale solitudine doveva risponderne. E ho pensato alla vicenda di Federico Aldovrandi, ho parlato con la madre Patrizia e Fabio, il suo avvocato, è diventato anche il mio. Ho trovato un avvocato giusto ma penso sempre a quante povere famiglie non riescono a trovare una persona del genere che le aiuti».

 

Giorni fa, nel presentare il rapporto sulla condizioni delle carceri e dei Cie, il senatore Marcenaro, presidente del Comitato per i diritti umani del Senato, ha parlato dell’introduzione del reato di tortura, che manca nel nostro codice. Ha fatto riferimento alle vicende del G8 di Genova e alla storia di tuo fratello. Sta cambiando qualcosa?

 

«Secondo me si. Queste vicende cominciano a farsi sentire e comincia ad esserci una presa di coscienza verso un problema reale che potrebbe capitare a chiunque di noi. Non voglio cadere nel patetico ma se debbo pensare a un senso per quello che c’è stato per me, per Lucia, Patrizia e chi ci ha seguito questo è nella possibilità che l’opinione pubblica abbia la volontà di venirne a capo. L’Italia non ha accettato di mettere il reato di tortura che avrebbe riguardato Stefano Giuseppe e tanti altri, infatti i loro referti parlano di “lesioni lievi”. Ancora poi prevale lo spirito di corpo che si traduce in omertà complice. Le categorie delle forze dell’ordine coinvolte dovrebbero essere le prime a rivoltarsi invece si legittimano gli autori di queste atrocità. In quei 6 giorni in cui si è consumata la sua fine, mio fratello ha incontrato una marea di persone, almeno 250 testimoni. Mio fratello avrebbe detto di essere stato picchiato, ha chiesto ad un medico di scrivere sulla cartella clinica che voleva parlare con il suo avvocato. Questo lo fa una persona giunta al limite della disperazione. All’ennesimo medico che lo voleva sottoporre ad una ulteriore analisi avrebbe detto di essere troppo stanco, di aver provato tutte le porte. Prima di morire aveva scritto una lettera alla comunità in cui era stato per chiedere aiuto. La sola persona che ha provato a guardarlo andando oltre una assurda catalogazione della vita di una persona è stato un medico che non voleva disporne la carcerazione e per questo è stato sottoposto a provvedimento disciplinare. Mentre Stefano stava con la schiena rotta su una panca per 4 ore, i superiori pensavano al provvedimento e ai problemi di piantonamento. Quel medico che ha fatto solo il proprio dovere ha perso il posto di lavoro. Chi vedeva ha ricevuto l’ordine di restare al proprio posto eppure bastava che una persona avesse fatto solo il proprio dovere e forse Stefano sarebbe ancora vivo. Io questo non lo posso perdonare come non posso perdonare la consuetudine che ho compreso bene. I giudici e il Pm hanno ammesso tranquillamente che durante l’udienza per direttissima no hanno visto Stefano, si sono girati dall’altra parte e questo è normale per i poveri, per chi non viene considerato degno di vivere. Lo ripeto la giustizia non è uguale per tutti, mio fratello è stato picchiato perché era considerato un nulla che rompeva le scatole, la giustizia vale solo per i potenti, il rispetto solo per i boss. Una piramide sociale invertita a cui in quelle maglie è difficile sfuggire».

 

Stefano Galieni

17/04/2012 www.controlacrisi.org

 
 
 
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Roma, 12 maggio 1977

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