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Libri & Conflitti Lavoro vivo. Storie dal mondo del lavoro, quel mondo che il potere ha represso rendendolo clandestino

Post n°6370 pubblicato il 15 Maggio 2012 da cile54

IL RICORDO AMARO DI UN'ASSENZA

 

Questo libro nasce da un’idea della Fiom di Bologna. La motivazione che ha ispirato il sindacato metalmeccanico è stata quella di parlare del lavoro attraverso l’immaginazione di dieci autori e autrici di qualità.

Dieci racconti che parlano di storie molto diverse tra loro. Spesso si intrecciano e si sovrappongono, come sul tema della sicurezza e delle morti sul lavoro che ricorre come sintomo di una lettura tragica della condizione lavorativa, di ieri e di oggi. Ma emerge in forme originali anche la narrazione del lavoro migrante e la sua presenza pervasiva nell’economia italiana, il ricordo del lavoro di inizio Novecento, con la tragedia che ha dato vita all’8 marzo, il confronto crudo e diretto con la figura simbolica del “padrone”, lo spettro dell’amianto, la precarietà come fonte di ricatto. Storie di lavoro e di rabbia, dietro le quali, come in ogni vita reale, fanno capolino sprazzi di solidarietà, cumuli di speranze, storie d’amore che accarezzano personaggi altrimenti atterriti. Dieci racconti che spezzano il silenzio sul lavoro reale, e fanno del “lavoro vivo” il protagonista del libro. Come scrive Bruno Papignani, segretario Fiom di Bologna, nella postfazione: «Gli autori di questi racconti si sono spesi, hanno prodotto qualcosa di bello e di utile: bello e utile anche per me, quindi; qualcosa che ti arriva addosso violento come un pugno nello stomaco, qualcosa che però, subito dopo, passato il dolore iniziale, si trasforma».

Autori: Gianfranco Bettin, Giuseppe Ciarallo, Maria Rosa Cutrufelli, Angelo Ferracuti, Marcello Fois, Carlo Lucarelli, Milena Magnani, Giampiero Rigosi, Stefano Tassinari, Massimo Vaggi.

 

Isabella Borghese

13/05/2012

Libri & Conflitti Lavoro vivo

 

Per Noi uno stralcio tratto dal racconto di Stefano Tassinari IL RICORDO AMARO DI UN'ASSENZA e le parole di Checchino Antonini.

 

L’avrei voluto crescere io questo figlio, per poi tessere le lodi delle sue corse e le trame della sua vita. Per puro egoismo, e non per altro, ho preferito stargli distante quando gli sarei dovuto essere vicino, mettendo sua madre a parare ogni conflitto, a separarlo dalle scuse con cui mi defilavo e a proteggere non lui, ma me stesso dal mio ruolo di padre, tanto discusso quanto inefficace. E a proteggermi di nuovo, ora, sono le luci basse di questa stanza d’ospedale, o forse sono io a credere di sentirmi accolto nella mancata accoglienza di un luogo come questo, ben poco illuminato per partito preso e destinato al dolore dell’attesa. Nel silenzio di fondo, l’unico suono arriva dal ritmo preciso delle macchine, tarate sul suo respiro regolare, eppure così pieno di scompensi. Le quarantotto ore, che i medici di qui chiamano “canoniche”, sono trascorse senza che un solo movimento del suo viso mi facesse pensare a una barriera che si assottiglia, a una speranza che ti viene incontro, o a un sentimento positivo che, almeno per un istante, prevalesse sulla mia rassegnazione. Lo so che non dovrei, ma non riesco a togliermi di dosso le polveri sottili posate sul mio

senso di colpa, perché sono stato io, in fondo, a spingerlo verso quel lavoro da moderna schiavitù, sette euro all’ora il giorno dopo una chiamata telefonica, tre dei quali in busta paga e gli altri quattro infilati in un’altra busta, una qualsiasi, bianca come l’assenza di regole, o come il pallore delle nostre facce quando siamo incapaci di essere ribelli persino per l’attimo fugace di un gesto di diniego. Gliel’avevo detto a Richy: C’è la crisi e questa volta è destinata a durare per anni, e poi gli imprenditori – o avevo usato il termine “padroni”?

Non so, non me lo ricordo – fanno tutti così, prendere o lasciare, e se tu rinunci stai tranquillo che dietro di te si forma subito la fila, con qualcuno disposto a prendere anche di meno. E io l’ho vista la tua espressione perplessa, quella di chi si domanda: Ma come, proprio mio padre si mette a fare certi discorsi, uno che è sempre stato dalla parte degli operai anche quando in fabbrica era un “colletto bianco”? Ebbene sì, lo ammetto, e non solo riconosco che quelle parole erano le mie, ma se possibile ho fatto anche di peggio, come quando mi sono messo a calcolare ad alta voce i tuoi potenziali guadagni, moltiplicando sette euro per otto ore al giorno e poi cinquantasei per quindici giorni di lavoro al mese (ma potrebbero essere di più, ti ho ricordato, e allora…), il che fa ottocentoquaranta euro al mese, e considerando che in caso di bisogno la mamma ed io potremmo darti un aiuto (lo so, tu sei contrario, ma credimi, per noi non sarebbe un problema), be’, ce la potresti fare a trasferirti nella casa dei tuoi amici, dove un posto letto costa solo duecento euro (solo? Sì, tocca dire così…) e con il resto, stringendo un po’ la cinghia…. D’altronde, ti ho ripetuto per l’ennesima volta, abbiamo fatto così anche tua madre ed io, studiando e lavorando nello stesso tempo: lei faceva la babysitter, ma anche la cameriera in una pizzeria nei fine settimana; io, invece, passavo cinquanta giorni l’anno nel piazzale di uno zuccherificio a pesare i camion pieni di barbabietole, un mese d’estate a raccogliere la frutta nei campi e molte altre giornate ad aiutare un imbianchino a dipingere le pareti delle case. Subito dopo, cambiando discorso all’improvviso, mi hai chiesto: E se dovesse succedermi qualcosa? Ti rendi conto che l’imprenditore edile

Giacometti, titolare della ditta dalla rassicurante denominazione di “Un piano dopo l’altro”, non pagherebbe nulla?

Eh sì, perché nella mia busta paga non ci sarebbe scritto che guadagno tre euro l’ora (troppo sporca!), bensì che vengo regolarmente pagato, in qualità di apprendista, per lavorare sì e no una settimana al mese, in base alle esigenze dell’impresa.

Sono due giorni che m’interrogo sul motivo di quella tua domanda. Sesto senso? O semplice bisogno di mettere in crisi le mie certezze? Ancora non so darmi una risposta.

So solo che, a poco più di un mese dalla tua assunzione, due mattine fa te ne stavi ai piedi di un ponteggio quando un carico, sgusciato fuori chissà da dove, ti è arrivato dritto sulla testa, e a poco è servito quel tuo caschetto di plastica gialla che, con orgoglio, mi dicevi di non toglierti mai dal capo, anche per dare l’esempio a certi tuoi colleghi stranieri ai quali nessuno ha mai spiegato l’importanza della sicurezza nei cantieri. A cosa staranno pensando quei manovali bulgari e moldavi, gli stessi che – me lo immagino – hanno preferito avvertire il padrone prima di chiamare un’ambulanza, magari perdendo tempo prezioso per salvarti la vita?

Mah, forse hanno pensato che è toccato a te e non a loro, ma anche che la ruota della sfortuna gira e prima o poi…

Oppure, ancor più banalmente, che è tutta colpa del destino, cinico e baro come nella miglior tradizione dei film western. (...)

 

LAVORO VIVO, AA. VV.

Alegre

postfazione: Bruno Papignani

prezzo: 14.00 euro

pagine: 192

ISBN: 9788889772744

 

L'omaggio a Stefano Tassinari di Checchino Antonini QUI

 
 
 
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G8 GENOVA 2011/ UN LIBRO ILLUSTRATO, MAURO BIANI

Diaz. La vignetta è nel mio libro “Chi semina racconta, sussidiario di resistenza sociale“.

Più di 240 pagine e 250 vignette e illustrazioni/storie per raccontare (dal 2005 al 2012) com’è che siamo finiti così.

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Giorgiana Masi

Roma, 12 maggio 1977

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