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« Il ricatto più ignobile ...La storia delle fonti di... »

Perdere il lavoro, la casa, l’idea di un futuro. Insomma, morire di fame, adesso. Oppure morire di tumore fra qualche anno

Post n°6805 pubblicato il 16 Agosto 2012 da cile54

CHE COSA SUCCEDE ALL’ILVA DI TARANTO?

Lo stabilimento siderurgico di Taranto è una bomba a cielo aperto. Lo è sempre stato, da oltre mezzo secolo, da quando negli anni ’50 polizia e carabinieri sgomberarono con la forza centinaia di contadini poveri dagli oliveti e mandorleti espropriati per fare posto alla tomba industriale di centinaia di operai e di proletari dei quartieri più vicini. Da allora la strage di vite umane, espressa in primo luogo come morti, malattie e infortuni fra gli operai, poi come morti e malattie fuori dello stabilimento, è stata pratica quotidiana in fabbrica e in città.

Turni massacranti, operazioni pericolose, materiali dannosi, amianto, idrocarburi policiclici aromatici, polveri di ogni tipo: nulla è mancato, nell’organizzazione dello sfruttamento operaio, per provocare la morte, la malattia, l’infortunio per gli schiavi salariati del più grande complesso siderurgico europeo. Gli operai hanno pagato più di tutti, in questi 50 anni. Dopo essi i proletari dei quartieri operai e poveri vicini. Poi gli altri abitanti di Taranto. In nome della strenua difesa del profitto capitalistico tutto, o quasi, per 50 anni è stato taciuto, nascosto, dimenticato. I padroni sono cambiati: primo lo stato con l’Italsider, poi gli azionisti della famiglia Riva, ma lo sfruttamento è solo cresciuto, l’inquinamento, dentro e fuori la fabbrica, è solo aumentato. La classe politica è cambiata più volte, ma i suoi esponenti di turno, pugliesi e nazionali, hanno sempre fatto dell’impianto siderurgico il fiore all’occhiello della loro politica per il Sud, il vanto dell’impegno per l’occupazione, l’imbuto di finanziamenti pubblici, statali ed europei, per alimentare i profitti. Che poi lo

 stabilimento fosse la quotidiana tomba per operai e la causa di morte per altri poveri malcapitati, era questione da tralasciare. Per reggere il cappello ai padroni, per poter menar vanto del proprio operato, lo specchio del crimine doveva restare terso, pulito.

In 50 anni di sfruttamento gli operai hanno più volte alzato la testa. Costretti a lavorare in condizioni disumane e pericolosissime, sottoposti a un regime di fabbricafra i più militarizzati in Italia, confinati – i più decisi e conseguenti – in aree lager, fra mille difficoltà hanno combattuto contro lo sfruttamento e la barbarie in fabbrica, contro le morti alla catena e per l’amianto e i problemi cardio-respiratori, contro gli aguzzini padronali e i dirigenti sindacali. E lo hanno fatto da soli. Per anni, per decenni, davanti alla morte dei colleghi, gli operai sono scesi spontaneamente in sciopero, perché i sindacalisti hanno sempre cianciato di rispetto delle regole antinfortunistiche ma solo dopo, davanti a un cadavere, e neanche allora hanno voluto organizzare scioperi seri e compatti. Per decenni, fra estreme difficoltà., gli operai sono stati i primi, e spesso i soli, a denunciare il bestiale inquinamento provocato dentro e fuori la fabbrica dall’assenza di volontà, primo dello stato e poi dei Riva, di adottare tutte le misure realmente utili non per eliminare ma almeno attenuare il massacro delle persone e dell’ambiente. Sono stati gli unici a scagliarsi contro l’efferata equazione: profitto privato = disastro sociale. La vecchia generazione operaia è andata via, straziata dalle frustate dello sfruttamento e della malattia. È stata sostituita da una generazione nuova, ancora più consapevole, benché più ricattabile con i contratti di formazione e lavoro e mille altre forme di precarietà lavorativa. Ma i problemi sono rimasti, anzi si sono incancreniti. La crisi dell’acciaio ha fatto premere ai Riva in maniera ancora più schiacciante il tallone dello sfruttamento sulle spalle dei giovani operai, ha aumentato – se possibile – il loro disinteresse verso i costi da sostenere per eliminare o limitare le fonti di inquinamento.

Grazie alle lotte degli operai, vecchi e giovani, si è formata e radicata a Taranto una coscienza sociale e civile dei disastrosi effetti dell’inquinamento causato dalla fabbrica sulla popolazione e sull’ambiente. Una consapevolezza ambientalista sempre più diffusa e critica dei danni sociali della bomba a cielo aperto costituita dall’Ilva. Proprio per fronteggiare tale presa di coscienza collettiva da parecchio tempo politici, sindacalisti, giornalisti, benpensanti hanno organizzato scientemente una contrapposizione netta fra ambientalisti e operai, presentati, a seconda del momento e della convenienza, gli uni come alfieri della difesa dell’ambiente e quindi della chiusura della fabbrica, senza alcuna preoccupazione per il mantenimento dell’occupazione, della salvaguardia del lavoro degli operai, gli altri come arcigni egoisti difensori del loro posto di lavoro senza alcuna sensibilità per la tutela dell’ambiente. Una contrapposizione, una divisione che ha fatto sempre gli interessi della famiglia Riva.

Ora che un giudice ha disposto l’arresto domiciliare per i padroni e i più alti dirigenti dell’Ilva e il sequestro di alcune aree della fabbrica, senza facoltà d’uso, emergono i reali interessi sostenuti dalla diverse parti. Gli operai scendono in sciopero e occupano le strade per mantenere il posto di lavoro. E hanno ragione: se rimangono sul lastrico dove lo trovano un altro lavoro in una terra che non offre alcun’altra prospettiva? È vero che diversi operai, oggi come in uno sciopero simile attuato all’inizio del 2012 (quando furono mobilitati dagli stessi dirigenti e quadri dell’azienda), chiedono a Riva di continuare a produrre infischiandosene di ambientalisti e provvedimenti di legge: ma, abbandonati da tutti, lasciati soli con i propri problemi, è normale che possano vedere la soluzione immediata alla fame e al pagamento del mutuo nella continuità produttiva, chiudendo gli occhi davanti al ricatto “o il lavoro o l’ambiente”. D’altra parte quei sindacalisti che sono stati sempre zitti con gli operai e disponibili con Riva, che cosa dicono? Masticano amaro e ora, d’accordo con i dirigenti e i quadri aziendali, mobilitano gli operai per mantenere i posti di lavoro, ma si guardano bene dall’attaccare la politica di sfruttamento e di menefreghismo ambientale tenuta dai Riva sin dal loro insediamento. Il presidente della Regione Puglia Vendola, che è sempre stato a braccetto con i Riva cercando di contemperare tutela dei profitti e dell’ambiente e seminando a piene mani illusioni in funzione elettoralistica fra operai e ambientalisti, garantisce che “non è automatica la chiusura”. Il ministro dell’Ambiente, Clini, chiede che “la fabbrica resti aperta e il Tribunale del riesame faccia presto”. E sicuramente andrà così, questo tribunale o altro ente o il governo stesso troveranno il cavillo, emetteranno l’ordinanza, faranno la nuova legge, magari accompagnata da un consistente gruzzolo di denaro pubblico, per consentire ai Riva di continuare a produrre come hanno fatto finora, in barba agli operai, alla salute, all’ambiente. Come accadde 10 anni fa col sequestro dell’impianto petrolchimico di Gela, risolto in una bolla di sapone con un intervento normativo che lasciò tutto come prima.

Questo è il capitalismo, è questo stillicidio di sopraffazione, arroganza, morte e dolore. Illudersi, come fanno tanti ambientalisti tesi a eliminare gli aspetti più scabrosi della società (che non chiamano capitalista) per purificarla e salvarla, è vano. Nel gioco delle cortesie (perché l’arresto domiciliare per i Riva e i loro accoliti è pura cortesia, criminali come essi meritano ben altri provvedimenti di giustizia sociale i padroni vincono sempre e non pagano per i crimini commessi: la legge è dalla loro parte perché i loro rappresentanti, da essi ben pagati, varano leggi utili ai padroni. Imporrà mai un giudice ai Riva di finire i loro giorni in carcere? Imporrà mai una legge ai Riva di disinquinare la fabbrica, i quartieri vicini, Taranto, a loro spese e di riprendere a produrre in maniera ecocompatibile? Agli operai spetta dunque il duro compito di spezzare le illusioni, di lottare per un lavoro a misura dell’uomo e non del profitto e quindi per un ambiente sano e non rovinato proprio dalla ricerca continua del profitto a tutti i costi. Nella lotta si impara che nel capitalismo è impossibile salvare capra e cavoli, ottenere l’uno e l’altro. Perciò, tra mille difficoltà e sofferenze, gli operai imparano a trovare la soluzione organizzandosi per superare il capitalismo.

Saluti operai dalla Puglia

15/8/2012 www.operaicontro.it

 
 
 
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Giorgiana Masi

Roma, 12 maggio 1977

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