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Chi ha paura dei migranti? La salute mentale non ha colore. Colloquio con la psichiatra Rossella Carnevali

Post n°7311 pubblicato il 22 Gennaio 2013 da cile54

Troncare le proprie radici e l'impatto con una cultura diversa possono causare disagio che non sfocia per forza in patologia.

C'è chi ha dato migliaia di dollari al trafficante di esseri umani per viaggiare al freddo nel doppio fondo di un tir e c'è chi ha pagato regolarmente il volo su un aereo di linea con i suoi magri risparmi. C'è chi ha chiesto asilo politico e c'è chi gode già dello status di rifugiato. C'è poi il "normale" emigrato in cerca di lavoro, partito da qualche remoto angolo del pianeta e c'è la ragazzina minorenne venduta come una schiava dai suoi aguzzini e costretta sui marciapiedi delle nostre strade. C'è anche chi è riuscito a portare la famiglia, chi non ha più nessuna famiglia e chi mantiene la famiglia rimasta nel Paese d'origine spedendo vaglia di pochi euro ogni settimana. La popolazione di stranieri extra-Ue che vive in Italia è un magma eterogeneo di quasi cinque milioni di persone. Chi è partito forte di una decisione improcrastinabile, chi per una scelta forzata, chi senza poter scegliere. Alle spalle si lasciano i contesti sociali più disparati e ciascuno di loro porta con sé un bagaglio culturale diverso, una forza interiore diversa. Come è normale che sia. Ma lo shock dell'incontro con una "civiltà" sconosciuta è inevitabile per tutti. Al senso di esclusione che li accompagna nel distacco dalla propria terra, dagli affetti di una vita, si somma quello provocato dalla lingua e da una cultura diversa oltre che dalle barriere di ogni genere di cui è disseminato il Belpaese. Basti pensare alla kafkiana burocrazia per il rilascio del permesso di soggiorno oppure alla famigerata legge Bossi-Fini che ha introdotto il reato di "clandestinità" e alle prigioni mascherate da centri di accoglienza per le persone straniere senza, o in attesa di documenti validi.

In questo contesto si può comunque registrare un flebile segnale di cambiamento, a livello politico, che si è verificato il 20 dicembre scorso. Un accordo tra Stato e Regioni ha esteso il diritto all'assistenza sanitaria a tutti i migranti, compresi quelli senza permesso di soggiorno. Dare la possibilità di iscriversi al Servizio sanitario nazionale non risponde solo alla necessità di recuperare parte dell'umanità perduta dalle nostre istituzioni nel corso del ventennio berlusconiano. Gli studi sociologici più accreditati sono concordi nell'affermare che gran parte dei migranti arriva in Italia in buone condizioni. Molti poi si ammalano qui: traumi (25,9 per cento dei ricoveri per gli uomini), malattie dell'apparato digerente (14 per cento), oltre a parti e complicanze della gravidanza e del puerperio per le donne (56,6), sono le cause più frequenti di ricovero. Spesso nell'evoluzione della malattia, prima del ricovero, sono determinanti la diffidenza e la paura di essere rimpatriati nonché una scarsa conoscenza del nostro sistema sanitario. Considerando i numeri di cui stiamo parlando (oltre il 7 per cento della popolazione italiana) si può dire che questo accordo Stato-Regioni abbia disinnescato una bomba a orologeria. Questa popolazione nella popolazione, composta da persone straniere residenti e non, impone l'esistenza di modelli di integrazione sempre più evoluti. Tra questi modelli svolge un ruolo fondamentale quello relativo all'approccio medico. Poiché si tratta di donne e uomini che nella maggior parte dei casi hanno alle spalle esperienze estremamente dolorose, vissute sia in patria che durante il viaggio affrontato per arrivare fin qui, Babylon Post ha rivolto alcune domande a Rossella Carnevali, psichiatra e psicoterapeuta (nella foto), per capire in che modo si instaura il rapporto di cura con questa particolare tipologia di pazienti e quali siano le problematiche da affrontare.

«Come si può intuire - osserva Carnevali che si è formata al centro Françoise Minkowska di Parigi specializzato nel campo della psichiatria transculturale - certe esperienze possono minare la salute di un individuo in misura molto profonda. Ma questo non basta, altrimenti i migranti che ad esempio arrivano in Italia dopo aver sfiorato la morte ogni secondo del loro viaggio dovrebbero ammalarsi tutti, invece non è così. Ciò dipende ovviamente da fattori individuali, per cui a seconda del percorso di vita e dello sviluppo dell'identità, ogni essere umano è in grado di resistere in misura maggiore o minore agli eventi avversi o traumatici o alle delusioni e quindi cadere o meno nella malattia». Compito dello psichiatra, e del medico in generale, spiega la nostra interlocutrice, è riconoscere in tempo i segni della patologia, diagnosticarla e curarla. Ciò vale per tutti i pazienti, non solo per i migranti. «A questo punto gli ordini del discorso diventano due. Il primo è se il medico è in grado di eseguire il compito cui è preposto; l'altro è se il nostro sistema sanitario offre ai medici e, insieme ad essi, a tutti gli altri operatori sanitari le risorse per farlo. Penso che sia chiara a tutti la crisi in cui versa il nostro sistema sanitario nazionale. Ma non voglio fare discorsi politici. Possiamo invece discutere delle capacità del medico psichiatra». Approfondiamo questo punto. «Credo che innanzitutto vada chiarito che ci sono due livelli differenti da considerare» spiega la psichiatra. «Da una parte c'è l'aspetto strettamente psichiatrico del problema: l'insorgenza di patologie psichiatriche tra gli immigrati a seguito del processo migratorio. Dall'altra c'è la sfida del confronto, che poi più spesso è uno scontro, tra culture differenti, quella ospite e quella ospitante, che si verifica per tutti i migranti, sani o meno. Tale confronto può causare disagio, che però non sempre per forza sfocia in patologia». Carnevali propone quindi una riflessione sull'impostazione della cosiddetta cultura occidentale: «Storicamente essa ha lasciato ben poco spazio a tutto ciò che proponeva qualcosa di diverso da sé stessa. Sintetizzando molto, la nostra cultura è basata sulla razionalità, a partire da Socrate, Platone e Aristotele, passando per il pensiero religioso cattolico; questa impostazione è rimasta fino ai giorni nostri. Sono state sempre combattute o messe a tacere tutte quelle correnti di pensiero che proponevano una possibilità di irrazionalità sana e creativa come parte integrante dell'essere umano. L'irrazionale ha invece sempre rappresentato un pericolo, perché sarebbe il "Male" e la cattiveria insiti nell'essere umano o anche una dimensione di animalità e bestialità che va contenuta (si veda ad esempio l'Es teorizzato da Freud). In tale prospettiva nemmeno il bambino sarebbe un essere umano finché non sviluppa la razionalità. Fatte tali premesse, possiamo ipotizzare - in sintesi - che uno straniero possa andare a rappresentare una dimensione irrazionale, in quanto avendo cultura, religione, lingua, gestualità, abitudini diverse è difficilmente comprensibile ed inquadrabile nel nostro schema culturale. È facile quindi che lo straniero sia emarginato dalla società, quando non espressamente aggredito».

La situazione si fa più complessa se entriamo nell'ambito del rapporto tra psichiatra e paziente psichiatrico. «Qui si verifica una sfida ancora più grande, perché il medico non si trova di fronte solo uno straniero, con tutto ciò che abbiamo detto può rappresentare, ma un individuo che si è ammalato e che, molto spesso, manifesta la malattia in maniera differente da come siamo abituati a vedere comunemente». Può capitare che per esprimere la patologia psichica venga utilizzato un sintomo fisico, tanto per fare un esempio. E qui si apre il discorso sulla formazione degli psichiatri. «La psichiatria occidentale si basa, per diagnosticare la malattia, su un sistema categoriale (il Dsm, Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali) per cui ad un determinato elenco di sintomi corrisponde una patologia: senza la maggioranza di quei sintomi la patologia non è diagnosticabile. Questo metodo non permette di diagnosticare correttamente molte patologie con sintomi sfumati, figuriamoci se consente di diagnosticare patologie che in altre culture si esprimono sintomatologicamente in maniera diversa. Addirittura, con questo modo di ragionare, si è arrivati ad ipotizzare che in popolazioni con culture differenti possano esistere malattie mentali differenti. E questo - sottolinea Rossella Carnevali - è palesemente assurdo». Per fare una diagnosi corretta dunque è necessaria una formazione approfondita del clinico che deve affinare una sensibilità nel rapporto con il paziente che gli consenta di non lasciarsi ingannare da ciò che è manifesto (il sintomo), ma di comprendere ciò che si nasconde dietro di esso. E questo vale per tutti gli psichiatri, sia che si occupino di psichiatria transculturale sia che curino pazienti della stessa cultura o nazionalità.

Se parliamo poi dell'eziopatogenesi e cura della patologia mentale nel migrante c'è da fare un ulteriore discorso. «Va premesso che alcuni psichiatri considerano la causa della patologia mentale interna all'essere umano, come se la sua insorgenza non potesse in nessun modo essere determinata da una condizione esterna; la causa della malattia sarebbe geneticamente determinata. Gli immigrati perciò si ammalerebbero di più a causa di una predisposizione genetica particolare (per esempio alla schizofrenia) in un popolo, piuttosto che in un altro. Dall'altra parte c'è invece chi sostiene che le malattie sono culturalmente determinate: la causa della malattia è sì esterna all'uomo, ma sta completamente nella cultura. Questo è un ragionamento che diventa pericoloso se si arriva sostenere, come dicevamo prima, che per ogni cultura esistono malattie mentali diverse: un congolese può ammalarsi di una malattia psichiatrica che in Europa non esiste e viceversa. Di conseguenza solo un congolese può curare un congolese e così via dicendo. È chiaro che questi sono due orientamenti estremi e tra di essi ci sono migliaia di sfumature, ma il problema è che il pensiero in questo ambito di studio scorre sempre su una linea immaginaria tra questi due poli. Se riflettiamo infatti, ci troviamo ad osservare che gli estremi della linea sono pressoché sovrapponibili: entrambe hanno in sé una matrice razzista; che la scusa sia la genetica o la cultura, non c'è via di scampo, la differenza tra i popoli è incolmabile». Cosa accade se uno psichiatra cade in questo loop? «Gli psichiatri non possono cadere in questo loop. Altrimenti si mettono immediatamente in una posizione di superiorità rispetto al paziente, per cui non ci sono più medico (essere umano sano) e paziente (essere umano malato), bensì essere-umano e non-essere-umano. Se ciò si verifica, la cura è ovviamente impossibile, perciò si può soltanto aiutare il paziente a vivere un po' meglio, cioè si può fare solo assistenza». Secondo Carnevali quindi, bisogna uscire da questo dualismo per andare in un'altra direzione. Quale? «Quella che ci porta alla certezza dell'uguaglianza tra gli esseri umani. Il professor Fagioli, autore della Teoria della nascita e psichiatra dell'analisi collettiva, nel suo corpus teorico e nella pratica clinica quotidiana dimostra come gli uomini sono tutti uguali, poiché l'identità umana non sta nella cultura o nella ragione, ma nella dimensione interna irrazionale propria di ognuno. Tale dimensione che è pensiero non cosciente - spiega Carnevali - ha origine alla nascita dalla realtà biologica ed è ciò che fa l'uguaglianza tra gli esseri umani. Poi durante la vita essa si sviluppa nei rapporti interumani e diventa, o dovrebbe diventare originale in ognuno. È questa realtà, sana alla nascita, che si ammala nel paziente psichiatrico a causa degli stessi rapporti con gli altri (in questo caso deludenti), ed è lì che lo psichiatra deve andare a cercare ed eliminare la malattia, attraverso un rapporto psicoterapeutico. Solo con questa impostazione teorica, e quindi una formazione psicoterapeutica adeguata, il medico può fare la cura per la guarigione. Solo partendo dal presupposto che il paziente è un essere umano, e che si è ammalato, lo psicoterapeuta può essere in grado di eliminare le dimensioni patologiche dal suo pensiero non cosciente. E qui - conclude Carnevali - faccio notare che non stiamo parlando di immigrati o di indigeni: la differenza non c'è. Ciò che fa ammalare la realtà mentale e ciò che la cura è uguale per tutti, qualunque sia la provenienza della persona o il colore della sua pelle».

Federico Tulli

21/1/2013 www.globalist.it

 
 
 
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