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Libri & Conflitti. La tortura in Italia, parole, luoghi e pratiche della violenza nei luoghi della repressione isituzionale

Post n°7522 pubblicato il 19 Marzo 2013 da cile54

Stralcio da LA TORTURA

di Patrizio Gonnella

Libri & Conflitti. La tortura in Italia, di Patrizio Gonnella. Parole, luoghi e pratiche della violenza pubblica. Prefazione di Eligio Resta Postfazione di Mauro Palma. (www.deriveapprodi.org) La tortura è un crimine contro la dignità umana. Eppure non ovunque e non sempre è proibita. La sua interdizione legale è tutto sommato storia recente. Forse anche per questo assistiamo a frequenti smottamenti. E non è un caso che con l’11 settembre del 2001 ci si sia spinti fino a riproporne la legittimità.

Con la progressiva riduzione della sovranità economica e politica degli Stati, assistiamo a un paradossale rafforzamento del loro potere punitivo che man mano si fa arbitrario e indifferente al sistema costituzionale e internazionale dei diritti umani. Come se la «sanzione punitiva» fosse l’unica prerogativa statuale rimasta. Da cui una diffusa impunità dei torturatori, che ha le proprie premesse nella necessità di segnare la vittoria del potere politico su tutto il resto.

Costruito a partire dalle «parole chiave» che scandiscono l’universo della tortura, questo libro si propone come un’analisi della violenza pubblica intrecciata a quella dei concetti, delle norme e delle vicende individuali.

La tortura non si consuma unicamente quando una persona è sottoposta a sofferenze e la sua pratica spesso non è riconducibile all’arbitrio di un «eccesso» di potere o a uno stato di eccezione. Per questo occorre allargare lo sguardo al sistema complesso che la produce, che la promuove, che la protegge.

Lo stralcio:

13. Libertà

 

La libertà individuale è un impegno sociale. Lo Stato costituzionale di diritto vive dell’intreccio indissolubile delle libertà positive e delle libertà negative. Il Presidente degli Stati Uniti d’America Franklin Delano Roosvelt, nel suo discorso al Congresso del 6 gennaio 1941, individuò nelle quattro libertà - dal bisogno, dalla paura, di espressione, di credo – il fondamento della pace possibile. Due libertà “da” e due libertà “di”. Non c’è pace senza giustizia. Non c’è pace senza libertà. La tortura fa vivere nella paura. Un paese che legalmente o illegalmente pratica la tortura costringe uomini e donne a vivere nel terrore dello Stato e di chi lo impersona.

La privazione della libertà personale è una condizione che non dovrebbe degradare la persona a cosa né dovrebbe ridimensionare i diritti di cui la persona è titolare. La privazione della libertà personale è solo una temporanea – o nel caso di ergastolo perenne – privazione della libertà di movimento. Non dovrebbe mai determinare la negazione delle quattro libertà di Roosvelt. Un detenuto conserva intatti i suoi bisogni ovvero i suoi diritti sociali ed economici, non deve vivere nel terrore di cosa possa accadere se si apre all’alba la cella, può esprimere le sue opinioni senza tema di ripercussioni, può pregare come gli pare, in che lingua vuole e il Dio che preferisce.

La tortura non avviene necessariamente nei confronti di persone legalmente private della libertà. Sarebbe una delimitazione che taglierebbe fuori tanti casi di tortura che avvengono per le strade nei confronti di persone neanche formalmente fermate o arrestate. Si pensi al caso di Mark Cowell, giornalista free lance inglese che si trovava nella scuola Diaz in quei giorni tragici di giugno del 2001. Venne pestato brutalmente dalla Polizia fino a finire in coma. Lui, come tutti coloro che dormivano alla Diaz, non era in una situazione di privazione della libertà né legale né illegale quando fu massacrato per fini punitivi e intimidatori. Nel caso della scuola Diaz, come scritto nella sentenza di condanna della Corte di Cassazione nei confronti di molti funzionari di alto grado1, vi è stata tortura. Quei ragazzi dovevano subire una punizione esemplare per avere fatto sfigurare la Polizia nel giorno precedente, quello degli scontri e della morte di Carlo Giuliani. Mark Cowell ha ottenuto in sede transattiva un risarcimento di trecentocinquantamila euro dal ministero degli Interni.

Ovviamente la condizione di persona privata della libertà rende quest’ultima più vulnerabile e soggetta a pressioni psico-fisiche. Il detenuto, sia esso condannato che imputato, è nelle mani dei suoi custodi. Da loro dipende per tutto. Il sistema carcerario italiano è improntato alla umiliazione e alla infantilizzazione piuttosto che alla responsabilità come invece avviene per taluni sistemi penitenziari del nord Europa. Tutti i momenti della vita carceraria sono scanditi da una richiesta scritta fatta su un modulo che si chiama “domandina”. Essa è formalmente rivolta “alla signoria vostra illustrissima”, ovvero il direttore, il superiore. Se il detenuto vuole parlare con il cappellano, se vuole un farmaco perché ha mal di testa, se vuole partecipare a un corso scolastico, se vuole fare qualsiasi cosa deve compilare una domandina e sperare in una risposta che non si sa se mai riceverà. La sua vita dipende dal poliziotto di sezione, dal capoposto, dal caporeparto, dall’educatore, dal direttore. Una persona che si trova in questo stato, che è lo stato della persona senza libertà, sarà più soggetta ai rischi di violenze nonché meno disponibile a denunciare le torture subite. È una persona che in tutto e per tutto dipende da altre persone.

Quando uno dei detenuti coinvolti nelle violenze avvenute nel carcere di Asti si è trovato davanti al giudice nella sua veste di parte lesa e ha ascoltato la sentenza di sostanziale non punizione per gli agenti che lo avevano torturato a causa della prescrizione, ha affermato triste e preoccupato che quel giudice lo stava condannando per la seconda volta. Era consapevole dei possibili rischi di nuove violenze a cui andava incontro.

Tblisi Ama era un detenuto maghrebino ristretto nel carcere di Potenza alla fine degli anni novanta. Per protesta salì sul tetto del carcere. Urlava che non sarebbe sceso finché un giudice non fosse andato da lui per ascoltare le sue ragioni. Il giudice Henry John Woodcock si recò in carcere. Il detenuto desistette dalla sua protesta, scese dal tetto, si sentì rinfrancato da quella presenza. Raccontò al giudice che veniva regolarmente picchiato da un gruppo di agenti di polizia penitenziaria. Il giudice ritenne compatibili le sue denunce con le ecchimosi che aveva sul corpo. Avviò un’inchiesta penale. Alcuni agenti furono indagati. Il ministero della Giustizia non trasferì da quel carcere né il detenuto né i poliziotti. Tblisi Ama nei mesi successivi fu trovato morto in cella, presunto suicida. In carcere torturati e torturatori continuano a incontrarsi e la vita del torturato dipende da quella dei torturatori. Per questo le denunce sono rare.

Più la vita carceraria viene costruita similmente alla vita libera esterna minori saranno i rischi di tortura e maggiore la disponibilità personale alla denuncia. Più la privazione della libertà non determinerà negazione di tutti gli altri diritti più sarà residuale la tortura. Bollate è un carcere milanese dove per iniziativa di una direttrice, Lucia Castellano, la vita interna ha sempre più somigliato a quella esterna. I detenuti sono liberi di girare per la loro sezione, la loro vita quotidiana non è scandita dagli esiti delle domandine, i detenuti scelgono le attività a cui partecipare senza ipocrisie o obblighi, non sono chiusi in cella per venti ore al giorno come i loro colleghi di quasi tutte le prigioni italiane. A Bollate il tasso di violenza è infinitamente più basso che nelle altre strutture. Più libertà è sempre uguale a meno violenza e a meno tortura.

Patrizio Gonnella è presidente dell’associazione Antigone. Ha scritto saggi e articoli sui temi della giustizia e delle condizioni di vita in carcere. Scrive da anni per «il manifesto» e «Italia Oggi». Ha un suo blog su Micromega.net e conduce, insieme a Susanna Marietti, Jailhouse Rock una trasmissione di musica e informazione su Radio Popolare. Collabora con la cattedra di filosofia del diritto di Roma 3.

 

La tortura,

di Patrizio Gonnella

Parole, luoghi e pratiche della violenza pubblica

Prefazione di Eligio Resta

Postfazione di Mauro Palma

pagine 160

euro 16,00

 
 
 
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Giorgiana Masi

Roma, 12 maggio 1977

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