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La psichiatria la fa chi vuole normalizzare e ricondurre tutto ad un pensiero unico, percorso unico, violento e autoritario?

Post n°8170 pubblicato il 07 Ottobre 2013 da cile54

Donne, delitti e psichiatria “utile” a convenienza

Psichiatria come mezzo di controllo sociale o come tramite culturale per realizzare aree di santificazione. C’è l’incapacità di intendere e volere come attenuante per uomini di cui si dice siano folli, depressi, comunque patologizzabili e tuttavia non innocenti se mai hanno commesso qualche delitto.

E c’è una vasta letteratura che dimostra che l’uomo che compie un gesto violento lo fa perché sostenuto da una legittimazione, una cultura, una mentalità che poi trova il punto di fuga e l’alibi in una sua possibile degenerazione. Non sarebbe sbagliata la cultura del possesso ma il troppo che stroppia. Non sarebbe sbagliato considerare una proprietà le persone che stanno con te ma è sbagliato farlo in modo tale da incorrere in sanzioni pubbliche.

La morale che investe tutto il ragionamento attorno alla questione della violenza è paternalista, dice che una donna non si tocca perché fragile, se incinta è ancora peggio, perché viene considerata un po’ malata, e quella stessa morale evidentemente esige un comportamento funzionale da parte delle donne che la fragilità la devono assumere come caratteristica propria e interpretare in ogni senso, esigendo l’impiego di tutori, affidandosi, senza mai avere tentennamenti nelle interpretazioni dei fatti accaduti, con una narrazione dicotomica in cui esiste una vittima e un carnefice, e quando non sei funzionale a questo schema semplicistico, legittimante autoritarismi e patriarcati, eccola insorgere la patologia che ti viene attribuita.

Sovente persone che si occupano di violenza sulle donne immaginano tu sia pregna di senso di colpa, avrai senz’altro una sindrome di qualunque tipo, perché non puoi sfuggire alla morsa di chi ti vuole vittima vittimista da salvare. Anzi: si definiscono le situazioni in cui le donne svolgono vite e lavori non comprensibili per alcune (le attrici porno, per esempio, o le sex workers) e se quelle non dichiarano di essere vittime di qualche sfruttamento e non concedono la propria debolezza ai tutori di passaggio dunque vengono schedate come complici, malate, del patriarcato.

Perché la patologizzazione di quel che è diverso da te è un mezzo di contenimento delle singole autodeterminazioni, di scelte che risultano immorali, ed è la stessa area di schedatura in sane (quelle che si percepiscono come vittime) e malate (quelle che non si sentono tali) che realizzano la morale psichiatrica per dare una giustificazione a donne che sono, come gli uomini, responsabili di atroci delitti.

Due situazioni in cui si ricorre ad una morale psichiatrica nei ragionamenti pubblici o nelle aule di tribunale (più spesso all’estero) per giustificare i delitti delle donne: quando si parla di infanticidio e quando lei uccide un lui.

Dice Alessandra Carnaroli, in una nostra conversazione:

Ieri sera ho visto maternity blues, film sull’infanticidio, e a me sembra che le mamme in quanto fattrici sacre abbiano sempre una possibilità di redenzione, che la depressione partum sfochi un po’ un concetto fondamentale: pure le donne possono essere carnefici e uccidere qualcun altro perché lo ritengono un loro oggetto, perché soggetto dominante di un rapporto impari, fatto di potere e abuso e dominazione. (…) Io trovo molti punti in comune tra infanticidio e femminicidio. Vedo il figlio come mio oggetto, mia rappresentazione e se poco poco non corrisponde alle mie aspettative comincia la violenza. Se il raputs non vale per il marito che uccide la moglie perché “vale “per la mamma che uccide il figlio? Perché c’è questa cultura del possesso che vede l’altro (il più debole) come terreno di conquista (dal bambino agli omossessuali passando per tutte le minoranze). Non nego assolutamente la depressione post partum (c’ho avuto 3 figli in 4 anni in un paese straniero…) ma credo che questa vada a sommarsi ad un substrato culturale che vede la donna madre come una sorta di santa e il bambino come sua sacra emanazione e questo è pericolosissimo…

E in pochissime parole ha riassunto un pensiero che quando si tratta di “madre” è difficilissimo da sradicare. Guardate voi la differenza che intercorre tra la maniera in cui viene data nei contesti mother-friendly la notizia di un infanticidio compiuto da una madre rispetto a quello compiuto da un padre. Se lo fa lei era depressa, non vedeva speranze, quasi che il mondo intero attorno a lei fosse responsabile della questione perché non s’è accorto che aveva bisogno di aiuto, il che probabilmente è pure vero ma non deresponsabilizza chi compie il gesto. Se lo fa lui, apriti cielo, come se fosse innaturale o come se naturalezza di un infanticidio resti alla donna alla quale i figli “appartengono”. Se lo fa lui assume quasi l’elemento di una mostruosità inaccettabile.

Un altro modo per rassicurare circa l’affidabilità materna è quello di raccontare che la donna che uccide il figlio è pazza perché le madri avrebbero tutte l’istinto materno e non può esistere in loro alcun egoismo dichiarato, fragilità, inadeguatezza. La madre deve sapere fare quel mestiere per Dna e guai a dire che non è così perché piuttosto bisogna patologizzare (come sopra) quella figura femminile ché in quanto donna non è in grado di essere come le altre. Bisogna inserire il fenomeno in una fascia da trattare con un minimo di omertà e tanta pietas maternalista, perché di certo le leggi di mercato non potrebbero rinunciare all’idea di una donna riproduttrice e che svolge ruolo di cura per favorirne l’espansione.

Diversa la questione se si parla di lui. Demonizzarlo è un bene perché lui è semplice forza lavoro esterna alla casa e che sia così afflitto per questioni familiari non va bene. Se è lui ad uccidere non si contemplano debolezze ma ci deve essere dietro invece una motivazione mostruosissima, dove tali notizie vengono usate per creare la papà-fobia, si parla dunque di un motivo spesso riconducibile ad un travaso di ruoli di genere che dovrebbero sempre restare rigidamente ancorati al passato, riconducibile alla vendetta contro la madre. I figli appartengono alle madri, si dice, dunque quale altra spiegazione in quelle uccisioni se non per il fatto che si intenda sempre e solo colpire lei?

Poi c’è la situazione in cui una donna uccide un uomo. La retorica utilizzata è identica a quella che giustifica, talvolta, il delitto commesso da uomini. Però quando si dice di lui che ha attenuanti psichiatriche non va mai bene e invece per lei, culturalmente inserita in un girone del paradiso, tra quelle che sono nate buone per dna e che sono diventate cattive perché qualcuno le ha spinte in quel senso, sembrano perfino più plausibili.

Raptus, depressione, sindrome della donna maltrattata. E quella sindrome, una di quelle che negli Stati Uniti sono state inventate, non sono riconosciute nel DSM ma vengono utilizzate nei tribunali per fare ottenere sconti di pena o assoluzioni per donne assassine, è formulata sulla base dello stereotipo sessista appena descritto.

Se uccide lui non è mai possibile sia stato “maltrattato”. Se lo fa lei, e non parliamo di autodifesa, legittima difesa, ma di omicidi premeditati ai danni di qualcuno, dunque viene fuori un passato di sofferenze e abusi che avrebbero fatto sentire l’assassina in un tale vicolo cieco da consentirle di uccidere senza pietà.

La sindrome della donna picchiata (testo più conosciuto è di LenoreWalker, autrice di The Battered Woman Syndrome) è citata nel diritto penale di alcune altre nazioni, trattata in testi che parlano di psicologia e maltrattamenti familiari, approfondita in testi di diritto, e benché appunto non goda di alcun tipo di riconoscimento nel DSM è diventata patrimonio comune della narrazione antiviolenza.

Lo vedo ogni volta che Bollettino di Guerra pubblica anche qualche notizia in cui si racconta di donne che uccidono uomini per gli stessi, identici, motivi per cui molti più (è vero) uomini uccidono le donne. Commentatrici che solitamente augurano la pena di morte agli assassini poi si lasciano andare in un tifo giustificatorio per l’assassina (e sono due facce della stessa, identica, medaglia…), immaginando che sguardo sano vorrebbe che la disumanizzazione della vittima sia prassi consolidata quando si parla di uomini uccisi. Diversamente c’è il recupero empatico dell’umano quando si parla di donne/vittime.

Quello che io vedo, invece, è che il possesso è la spinta per tutti questi delitti e la psichiatria agisce differentemente per dimostrare l’innocenza di chi li compie. Perché certa psichiatria “morale” e “moralista” è a partire dalla incapacità di accettare tutto quello che è diverso da noi senza demonizzare, patologizzare, escludere, etichettare. E sono cose, queste, che fa chiunque non sia in grado di accettare, la diversità o, pensate un po’, che io scriva quel che scrivo senza ritenere che io sia da confinare in chissà quale ambito di patologizzazione. Lo fa chi vuole normalizzare e ricondurre tutto ad un pensiero unico, percorso unico, violento e autoritario. Lo fa chi pensa, infine, che esista una psichiatria per giusta causa e una che no. E il punto è che quando parli di autoritarismi o li combatti tutti o non sei credibile. Ché non esiste il/la libertari@ selettiv@.

O li combatti tutti. O non sei credibile.

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Giorgiana Masi

Roma, 12 maggio 1977

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