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I suicidi di giovani vite ci pone senza giri di parole davanti a una scelta di lotta alla criminalità dei governanti
Post n°8392 pubblicato il 22 Dicembre 2013 da cile54
Il suicidio di Luca e Ned. "Per parlare di morte bisogna parlare della vita che c'era."
Trentadue anni, giornalista, si chiamava Luca Dello Iacovo. Di lui dicevano fosse un giovane piuttosto timido, un vero appassionato del proprio lavoro e anche molto capace. Si è suicidato.
Trentadue anni, scrittore, si chiamava Ned Vizzini. Il suo secondo romanzo si intitola “Mi ammazzo, per il resto tutto ok”. (E a tal proposito mi domando se Mondadori sarebbe mai riuscita a scegliere un titolo peggiore di questo). Si è suicidato anche lui.
Luca e Ned hanno dato entrambi il loro addio alla vita nella stessa settimana a due giorni di distanza l’uno dall’altro, in due luoghi così lontani, per uno Latina, per l’altro Brooklyn, consegnandoci tuttavia l’idea di possedere, due sensibilità così vicine tra loro.
Luca si è lanciato dal nono piano. Come dire? Neanche una speranza di salvezza – seppur misera - si è voluto concedere. Ned, invece, ha deciso di volare dal tetto della casa della famiglia. Per i due, comunque, stesso identico destino: la morte.
Anni fa, nel 2003, mi ha colpito non poco il suicidio di Mario Monicelli. Una scelta che d’impatto ha sconvolto tutti tranne i familiari, e chi del regista la pensava come Lizzani – che poi ne ha imitato l’atto nell’ottobre di quest’anno – e che al tempo il suicidio di Monicelli lo commentò con poche parole, chiare: “Un gesto da lucidità giovane”.
In questi giorni, con queste due vite che hanno lasciato la loro, mi sono chiesta se ci troviamo davanti ad altri due gesti di lucidità giovane. Sulla lucidità non saprei cosa dire, mi è sufficiente sapere che la scelta di togliersi la vita può partire spesso da disagi psichici molto forti: Ned era depresso, e pare anche Luca, così l’altro ieri riportavano i media. Si può essere davvero “lucidi” quando ci si lancia dall’alto per morire? Forse, credo, si può essere solo consapevoli, prima, di non voler restare più al mondo, poi arriva il momento di “follia” e in un attimo ti fa dire addio alla vita con un salto nel vuoto.
Ma per parlare di morte, di suicidio, in casi come questo, bisogna parlare anche di vita. Della vita che c’era prima della morte. Non è meno importante quella di operai precari, disoccupati, imprenditori, persone di diverso genere che nella crisi non riescono a trovare la forza di un cambiamento, generatore di nuove risorse, ma si lasciano piuttosto inghiottire dalle mancanze improvvise, dalla disperazione in cui cadono, dalla paralisi che provoca quel male oscuro, la depressione, che a un certo punto pare volersi portare via – e a tutti i costi – chi ne soffre. E lo fa senza chiedere permesso. Lo fa e basta. Stop.
Non è meno importante la vita di queste persone, ma quando ho letto la notizia di Luca, prima, e quella di Ned, due giorni dopo, mi son detta che dietro la morte di due giovani trentenni, con simili caratteristiche e percorsi lavorativi, ci sono state due vite che somigliano – per forza - a quelle di tutti noi giovani trentenni e poco più, giornalisti, aspiranti scrittori.
Mi son detta che le loro difficoltà, i loro sogni, le loro debolezze, le loro paure, la loro precarietà di certo erano simili alle nostre.
Cos’è allora che non funziona, cos’è che non va? Cos’è, soprattutto, che dovrebbe andare diversamente?
Di diverso forse, e non è poco, c’è quel coraggio di vivere, restare, resistere, che dovremmo saper trasmettere a chi ci è vicino nei percorsi di vita, come anche in quelli lavorativi. Di diverso c’è il non dimenticare di guardare sempre a chi lotta, a chi viene schiacciato dal potere ma invece di farsi sotterrare sguscia via perché sa che “resistere” è il verbo dei nostri antenati e imitarli è l’arma migliore che possiamo impugnare. Ma anche il non trascurare che la responsabilità di prenderci cura della nostra esistenza non è un gioco da poco, ma un atto di amore verso noi stessi da saper mettere a disposizione anche degli altri, verso gli altri. Ché soffrire è forse rispettabile, ma subire è spregevole. Preferisco “l’operaio” che brucia una banca, “all’operaio” che si dà fuoco davanti a un ministero perché non trova altra strada per la sua protesta.
Di diverso c’è il saper riconoscere i cosidetti “suicidi invisibili”, i nostri compagni di vita, di lavoro, i nostri vicini di casa, amici, conoscenti... Chi tra questi vive per semplice esistenza, per mangiare, per bere, per respirare, ma nel frattempo ci stanno ingannando perché un giorno se ne andranno e noi ci stupiremo, - penseremo alla nostra distrazione passata verso tutti questi – e ci diremo che infatti “non sorridevano mai”, ma noi non abbiamo fatto nulla per conoscere il malessere profondo che toglieva loro un sorriso, un’espressione di serenità vera. Una serenità vera, non una maschera.
Di diverso c’è tanto forse. E anche il dirsi che quando a uccidersi è un tuo coetaneo, con le tue stesse aspirazioni, che inciampa nelle difficoltà del tuo stesso lavoro, a morire sembra che sia un tuo fratello, e a smuoversi e a sollecitarti non è solo una tristezza imprevista, ma profonda, ma anche la rabbia. Potente.
Il sapere che nessuno è stato lì a dire a Luca e Ned: “Siamo tutti in difficoltà. Andiamo avanti insieme”. Avanti. Insieme. Com’è giusto che sia. Tra fratelli, per anima e sensibilità. Questo il dolore maggiore per queste due perdite, Luca e Ned.
Di diverso c’è anche il sapere, e non scordare mai, che ci vuole coraggio a vivere, oggi, non a morire, ché per questo è questione di attimo. E sapere che di questi tempi decidere di restare al mondo è forse la scelta peggiore, ma anche la più temeraria, la più spavalda. La più eroica. E non ci resta che essere eroi, almeno delle nostre esistenze. E di chi ci è vicino.
Isabella Borghese 22/12/2013 www.controlacrisi.org |
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Roma, 12 maggio 1977
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