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Invece della storia raccontata dai media. La produzione cresce solo perché sono finite le scorte: infatti non si assume

Post n°3676 pubblicato il 09 Agosto 2010 da cile54

Se la ripresa del Pil non è abbastanza

I dati recentemente pubblicati sulla ripresa del Pil in Italia (+1,1 % su base annua), trainata dal balzo della produzione industriale (+8,2%) potrebbero indurci a pensare che il periodo peggiore della crisi sia ormai alle nostre spalle. Non e' cosi' purtroppo e i dati, tristementi costanti, sulla disoccupazione stanno li' a dimostrarcelo.

Cosa sta succedendo, allora? Come e' possibile che la produzione industriale cresca anche in presenza di forte disoccupazione? La spiegazione tecnica e' piuttosto semplice: in periodi recessivi la produzione si ferma, il mercato non tira e le imprese preferiscono svuotare i magazzini utilizzando le scorte. I macchinari, al contempo, sono sotto-utilizzati. Una volta che le scorte sono finite la produzione ricomincia ed e' quindi naturale aspettarsi un balzo positivo negli indici statistici - ovviamente si produce molto di piu' che l'anno scorso, ma siamo ben al di sotto del livello pre-crisi (per altro, lo sappiamo, non eccelso) e la capacita' produttiva non e' ancora utilizzata in pieno. Di conseguenza le imprese non hanno bisogno di assumere. I numeri dell'Istat, dunque, possono al massimo rappresentare un'inversione di tendenza - si ferma la caduta del Pil - ma non l'inizio di un nuovo periodo di crescita sostenibile. Un altro dato ci deve inoltre suggerire di usare la massima cautela. Mentre la produzione industriale risale, i consumi stagnano mentre le esportazioni hanno ripreso a pieno ritmo. Cio' vuol dire che la crescita del Pil non e' il prodotto di un sistema-paese in salute ma e' invece il risultato della ripresa altrui.

Sarebbe percio' un grave errore pensare che il peggio sia passato, che il mercato abbia ricominciato a tirare e che l'intervento pubblico sia oramai inutile. Un concetto mal recepito dal governo italiano e dall'Unione Europea tutta. Le finanziarie draconiane imposte dai governi EU si preoccupano solo del rigore dei conti pubblici e danno pochissimo spazio al sostegno alla crescita. Certo, nel caso italiano, una attenzione particolare ai conti macroeconomici e' essenziale, il ricorso all'utilizzo massiccio del finanziamento in deficit e' impedito dal debito pubblico accumulato in decenni di sprechi. Tuttavia, una impostazione differente della politica economica era ed e' possibile, i numeri si possono rispettare in tante maniere: recupero dell'evasione, tassazione piu' elevata sulle rendite e sui grandi patrimoni a fronte di sgravi sul lavoro, sul risparmio e sugli investimenti. I disastri di questi anni hanno reso chiaro che l'intervento pubblico, soprattutto in tempo di crisi, e' indispensabile. In Italia, con una economia stagnante anche nei due decenni pre-crisi, tale intervento e' ancor piu' necessario. Questo vuol dire razionalizzazione delle voci di spesa, sostegno pubblico all'impresa e soprattutto alla ricerca, politiche fiscali in favore della processo produttivo e che penalizzino la rendita.

Le politiche economiche, tuttavia, non bastano, per quanto importanti. Per ogni classe dirigente degna di rispetto che si candidi a governare il paese e' fondamentale ragionare sulla struttura socio-economica che l'Italia avra' nei prossimi decenni. La grande impresa questo ragionamento lo sta gia' facendo e l'esempio di Pomigliano deve servire da monito: si lavora per una ristrutturazione del contratto sociale in senso padronale. Lo stato sociale aveva trasformato i produttori in consumatori, ora si vuole invertire questo trend. La globalizzazione dei mercati significa innanzittutto la possibilita' del capitale di fornire prodotti su scala mondiale e tale processo espansivo del capitale, unito alla recente crisi finanziaria, rischia di travolgere gli equilibri ancora fondati sul dominio occidentale e accelerare il processo di divisione tra paesi ricchi - dove si fa innovazione e si produce ricchezza di serie A e, dunque, si consuma - e poveri - paesi appunto produttori di merci a basso costo, con salari minimi e bassi livelli di consumo. Non e' uno schema nuovo nella storia del capitale, ma l'attuale vortice rimette in discussione non solo un secolo di lotte e di diritti ma anche posizioni storiche all'apparenza consolidate. L'Italia sembra essere risucchiata verso il blocco dei paesi dipendenti dal capitale transnazionale e dai mercati internazionali, paesi in cui la crescita economica non si traduce, come nel XX secolo, in espansione della ricchezza nazionale e miglioramento dello status sociale. Tutto questo proprio mentre in Cina ondate di scioperi portano verso un graduale miglioramento delle condizioni di lavoro e dei salari. Quale Italia vogliamo, dunque? Questa e' la domanda che dobbiamo porci al di la' delle banalita' su "un paese normale".

 

Nicola Melloni 

08/08/2010

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