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I popoli, in questo gioco tra potenti al crepuscolo, sono, nelle intenzioni dei due attori, solo delle comparse

Post n°3748 pubblicato il 31 Agosto 2010 da cile54

Affari coloniali

Non è solo folklore, come vuole far credere Silvio Berlusconi. La visita del dittatore libico a Roma è molto di più. Ci sono gli affari, naturalmente, e le partecipazioni libiche in alcuni tra i gangli essenziali del capitalismo italiano, da Unicredit all’Eni, dalla Fiat alla Juventus, passando per diverse partite «minori» solo perché meno conosciute.

C’è anche un doppio colonialismo di ritorno. Il primo aspetto di questo rinnovato amore per la «quarta sponda» mediterranea dell’Italia è l’esternalizzazione del controllo delle frontiere. Il ministro dell’interno Roberto Maroni abbozza davanti alle sparate del dittatore libico solo perché i poliziotti libici, addestrati ed equipaggiati dall’Italia, fanno il lavoro sporco nel deserto che i migranti africani cercano di attraversare per arrivare sul Mediterraneo e nelle acque tra l’Africa e la Sicilia. Il lavoro sporco, i poliziotti libici, lo fanno bene, come testimoniano i racconti dei migranti che riescono a filtrare dai campi di prigionia in pieno deserto o le centinaia di cadaveri che puntellano le rotte della migrazione verso l’Europa. In nome del «successo» della politica di contrasto agli sbarchi dei migranti si può accettare, evidentemente, che un dittatore sia accolto con tutti gli onori e gli si consenta di tenere concioni sul valore dell’Islam.

Il secondo aspetto di questo neocolonialismo targato Berlusconi e Lega è che, oltre al petrolio e al gas naturale, la Libia al momento è ricca di una materia prima che al capitalismo italiano serve moltissimo: il cash, la liquidità. Gli anni delle vacche grasse dell’industria petrolifera hanno riempito le casse del fondo sovrano libico che ha un surplus di liquidità in cerca di investimenti. Le aziende italiane, le «grandi» aziende italiane, fanno la fila per intercettare questi flussi di liquidità. E chiudono volentieri un occhio sulle «qualità» del loro partner commerciale, al potere ininterrottamente da 40 anni.

Certo, non è più il Gheddafi dei missili su Lampedusa o di Lockerbie o degli interventi armati in Chad e altrove. È un dittatore addomesticato, di quelli che dall’Egitto alla Tunisia, fanno la gioia dei governi occidentali, pronti a sponsorizzare e sostenere i regimi arabi «moderati», cioè asserviti, diventati serbatoi di manodopera per chi esternalizza e mercati da riempire, oltre che mete turistiche da cartolina per i fine settimana low cost.

Né Gheddafi ha alcuna credibilità da un punto di vista islamico. Per decenni feroce avversario di ogni declinazione dell’islam politico, solo negli ultimi anni il colonnello libico ha riscoperto il valore della religione come instrumentum regni, funzionale alla creazione di una ennesima repubblica ereditaria, ritagliata anche nell’immagine pubblica internazionale e nei processi di modernizzazione interna in modo da poter passare a uno dei suoi figli un paese pienamente sotto controllo, benvoluto all’estero perché innocuo.

I popoli, i cittadini, in questo gioco di reciproche cortesie tra potenti al crepuscolo, sono, nelle intenzioni dei due attori, solo delle comparse. Comparse i migranti che muoiono perché la Lega deve sbandierare i suoi successi; comparse le hostess sorridenti reclutate a tanti euro al giorno per mettere in scena una finta apertura culturale; comparse i cittadini italiani a cui nessuna azienda spiega la composizione del proprio capitale; comparse i cittadini libici, a cui Gheddafi non si è mai sentito in dovere di dare una possibilità di scelta sul governo che preferiscono. Sono comparse perfino gli altri ministri del governo, da Frattini a Maroni, che si prestano senza protestare a una messa in scena che dovrebbe far rabbrividire e arrossire. Comparse, in fondo, sono anche le voci che dal principale partito di opposizione si levano contro la visita di Gheddafi. Quando il governo era loro responsabilità, verso il dittatore libico hanno fatto una politica sostanzialmente uguale, diversa solo nella misura del cattivo gusto che Berlusconi – in questo almeno più sincero – ammette platealmente di non avere.

Enzo Mangini

[30 Agosto 2010]

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