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« Le "normali" giornate ...Ennio Montesi, scrittore... »

In giro per l'Italia va in scena "18mila giorni - Il pitone" di Andrea Bajani, Giuseppe Battiston, Gianmaria Testa

Post n°4320 pubblicato il 07 Febbraio 2011 da cile54

Il lavoro al tempo del ricatto. Monologo a tre facce

In tempi in cui le parole d'ordine del mondo del lavoro sono diventate crisi economica, licenziamenti, precariato, flessibilità, la storia di un cinquantenne che perde il lavoro potrebbe sembrare uno spunto qualunque. Eppure, da questo tragico evento della "normalità" quotidiana, l'attore Giuseppe Battiston, il cantautore Gianmaria Testa e lo scrittore Andrea Bajani hanno creato insieme 18 mila giorni - Il pitone, spettacolo teatrale per la regia di Alfonso Santagata che da martedì prossimo, con un tutto esaurito di cinque sere al teatro Carignano di Torino, si appresta a girare l'Italia in trentuno date, fino a fine marzo.

I diciotto mila giorni del titolo corrispondono a cinquant'anni di vita del protagonista, improvvisamente licenziato, privato d'identità sociale, finito nel gorgo della perdita di senso delle cose e della vita. Ma diciottomila giorni significano anche gli ultimi cinquant'anni di Italia, periodo dove sono radicalmente mutate le prospettive e le aspettative sociali, in cui il lavoro da diritto ed elemento fondante dell'umana dignità, passando attraverso il trionfo dell'odierno precariato, è divenuto una forma più o meno palese di ricatto sociale. «La scintilla da cui è nato questo spettacolo è stata quando ho letto Cordiali saluti di Andrea Bajani, la storia di un "licenziatore" che viene licenziato, uno di quelli che deve indorare la pillola e mandare a casa la gente», racconta Gianmaria Testa che sarà in scena con la sua chitarra a fianco del monologante Battiston, «poco tempo prima avevo riletto La chiave a stella di Primo Levi dove il protagonista svolge un lavoro che gli permette sia di mangiare che un'identificazione sociale. A trent'anni di distanza, questi due libri sono diventati antitetici: da una parte il lavoro come dignità di una persona, dall'altro la precarietà assoluta. Così ho chiesto ad Andrea di scrivere un monologo su questo testa-coda, poi a Giuseppe di interpretarlo. Il testo che ascolterete mette in scena quello che ti succede quando il lavoro ti è stato portato via, togliendoti tutto, anche quel minimo di sicurezza del quotidiano. Un problema serissimo che in Italia negli ultimi quindici anni ha avuto un'accelerazione spaventosa. Basta pensare al referendum Fiat dove si è posta agli operai una domanda che non era una domanda, ma una pistola puntata alla tempia. Come se ti dicessero: vuoi darti una martellata sui piedi tutte le mattine? se scegli di non dartela non mangi».

«E' terrificante e vergognoso che si sia arrivati a una situazione così", riflette Battiston, fresco ancora del successo de La passione e Figli delle stelle, «non saremmo dovuti giungere al punto di mettere i lavoratori nella difficoltà di operare una scelta comunque vergognosa e lesiva della loro dignità. Oltretutto la questione di Mirafiori è stata osservata troppo da fuori. Io mentre seguivo tutti i programmi dove si parlava di questi tagli, i famosi "dieci munti in meno", in un primo momento mi dicevo "ma cosa vuoi che siano dieci minuti"; ma subito dopo mi son chiesto: ma tu l'hai mai fatto un turno in fabbrica? No. Allora devo stare zitto, perché basta andare in una fabbrica per renderti conto delle stronzate che sono state dette. In dieci minuti non riesci nemmeno a raggiungere il bagno o la mensa». «Il dramma nasce con l'avvento di quella che è stata pomposamente definita flessibilità ed è assurta a teoria filosofica sul lavoro per il nuovo millennio. Concetto teorizzato dalla buonanima di Marco Biagi, persona seria, per carità, ma si sapeva già da allora che quell'idea organizzativa del lavoro si sarebbe trasformata nella precarietà e ricattabilità più assoluta», continua Testa, «così si è creata una guerra tra poveri perché le aziende non hanno più interesse ad avere persone con contratto a titolo definitivo. Cercano di mandare via, licenziare. E dietro il licenziato c'è sempre uno più giovane che accetta mentalmente l'idea della precarietà e prende il posto vacante, quando ci riesce, avendo meno garanzie e permettendo alle aziende di liberarsi di un fardello pesante. Una vicenda del genere l'ho vissuta in prima persona nel 2007, quando dopo venticinque anni di lavoro come capostazione, quasi metà della mia vita, mi sono licenziato dalle Ferrovie, per dedicarmi a tempo pieno all'attività di musicista. Nonostante l'avessi scelto io, quando sono andato a licenziarmi non sono andato a cuor leggero: mi aspettavo anche solo un cenno di umanità. Invece il giovanissimo funzionario, a cui ho spiegato imbarazzato la mia scelta, non ha detto niente: ha soltanto estratto un foglio e mi ha detto: "firmi lì, i suoi dati li abbiamo già". E' evidente che si è conclusa un'epoca in cui certi diritti sul lavoro erano garantiti. Gli anni in cui i sindacati uniti avevano ottenuto i contratti nazionali collettivi, roba su cui oggi si sputa. Quello che però mi fa più specie sta proprio nella logica di base del capitalismo: capisco che il padrone voglia guadagnare sempre di più, però a forza di agire così tramuta il tessuto sociale in poltiglia. Ma il padrone non si rende più conto su cosa e chi sta governando? Dove farà i suoi benedetti profitti? Se massacra tutto quanto a chi le vende le sue accidenti di macchine?».

18 mila giorni - Il pitone esiste anche grazie ad uno scrittore molto giovane come Andrea Bajani, autore di due libri sulla traumatica trasformazione del mondo del lavoro (Mi spezzo ma non m'impiego e Lavoro da morire), che ha cercato di condensare in un monologo teatrale una serie di coordinate etiche e considerazioni socio-antropologiche di stringente attualità. «C'è stato un momento in cui ci siamo svegliati e ci siamo resi conto che quello che prima avevamo non c'era più. Come tornare a casa e cercarsi il portafoglio dentro la tasca e sentire che dentro la tasca c'è un vuoto dove prima era pieno», racconta Bajani, «è la scomparsa della dignità del lavoro, qualcosa che accomunava sia chi il lavoro lo dava, sia chi lo compiva. Il punto è proprio questo: come hanno fatto a rubarci qualcosa senza che ce ne siamo accorti? Com'è possibile che il lavoro sia diventato un favore concesso? Brecht diceva: "non si possono considerare normali le cose che accadono". Non possiamo considerare normale il fatto che intere generazioni subiscano il lavoro come una forma di ricatto. Bisogna probabilmente partire dal fatto che fino agli anni '90 esistevano i contratti collettivi di lavoro, i collettivi di fabbrica, un senso della collettività, mentre oggi il lavoro ce lo dobbiamo negoziare da soli e da soli dobbiamo imparare a non farcelo fregare».

«18 mila giorni parla del fallimento di un uomo e di un paese, il fallimento di un "noi", del senso di collettività», conclude Bajani, «questo cambiamento si porta dietro una differenza generazionale enorme. Con ogni evidenza, le generazioni più giovani sono nate parlando già la lingua della precarietà, mostrando maggiore disaffezione e distacco dal lavoro. Esercitano cinismo ed indifferenza verso il quotidiano e verso i colleghi che tra tre, quattro mesi non ci saranno più. La conseguenza è che queste nuove generazioni sono meno combattive, strutturate ed organizzate sul lungo periodo. E' come se ci chiedessero quotidianamente di esercitarsi a non soffrire, di non compatire l'altro. La logica della flessibilità è "tu fai carriera a patto di non curarti di chi non la fa al posto tuo" ed entrano in questo mondo convinti che questo sia l'unico modo per viverlo. Il problema, semmai, è come in Italia si vive il passato. Noi viviamo in un epoca di "presentismo" assoluto. Il computer ci dice di salvare le modifiche e noi rispondiamo sempre sì, perché conta solo quello che c'è adesso, di quello che c'era prima nessuno dice niente. Una manutenzione costante dell'oblio, che è poi l'agire più funzionale a questo genere di ricatti sociali. Tempo fa, quando lavoravo ad un reportage sul lavoro, chiedevo a ventenni e trentenni cosa fosse la mutua, l'indennità di disoccupazione o di maternità. Nessuno lo sapeva. E non è problema di ignoranza, perché quello che non sai non esiste. Attraverso questi dispositivi, ricordiamocelo, si disattiva la memoria. Ed è quindi difficile combattere per qualcosa che non si conosce, che non si sa di avere».

Davide Turrini 

06/02/201

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