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Antiberlusconismo al femminile. E' tempo di chiedersi quale sia la condizione della donna nella società postedipica
Post n°4334 pubblicato il 10 Febbraio 2011 da cile54
UNA RIFLESSIONE SULLA MANIFESTAZIONE DEL 13 FEBBRAIO
Dinnanzi al «nodo complicato» espresso dalla triade sesso-denaro-potere – come scrive Manuela Cartosio (Il manifesto, 9 febbraio 2011) – ritornata d’attualità grazie ai recenti scandali del nostro premier, la risposta data dalla mobilitazione di piazza del 13 febbraio ha il limite di ridursi unicamente a una delle tante manifestazioni di indignazione civile. Reazione viscerale dunque. Di fatto politicamente inconsistente. Per la Cartosio la mobilitazione è «uno strumento grossolano», non adeguato a sciogliere quel nodo complesso che chiama in causa il ruolo della donna nella società postmoderna e postpatriarcale. Ma resta pur sempre uno strumento. Forse l’unico rimasto. Ecco perché, per la Cartosio, è importante esserci, nonostante quell’appello sia «mal scritto», «mal pensato», nonostante le sue «sgrammaticature». Bisogna esserci. Perché? la risposta implicita è: cosa si può fare altrimenti? Solo l’indignazione ci resta. Mi sembra che questa sia la logica sottesa dell’articolo. Una logica abbracciata da gran parte della società civile, del ceto medio, della nuova intellettualità disorganica che ha sostituito la lotta con l’indignazione. È una logica della «falsa partecipazione». Falsa perché fornisce a tutti una risposta facile, immediata, viscerale che non richiede di fatto una seria riflessione sugli avvenimenti in atto nella nostra società. Scendiamo tutti in piazzia sabato, così poi ci sentiamo di aver fatto qualcosa. Che cosa non è importante, basta fare. È sufficiente protestare. Qualcosa prima o poi succederà. Qualcuno si muoverà. Forse. Chissa? Intanto, così facendo, siamo tutti deresponsabilizzati. Non c’è più bisogno di rielaborare un effettivo pensiero critico, di analisi sul presente. Troppo fatica, troppo sforzo. Protestiamo allora. Scendiamo in piazzia. Per le donne. Per la questione morale. Per le vittime di una società che si ricorda ogni tanto di essere fallocentrica. Dietro a questa «falsa partecipazione» si cela un’etica della rinuncia e una pratica della rimozione. Ecco gli strumenti di una sinistra e di una società civile che preferiscono l’indignazione all’organizzazione di un pensiero, di una protesta, di un’azione effettivamente collettiva, perché politica. Nel suo articolo Cantosio rivela di essere consapevole dei limiti della protesta. Altrettanta consapevolezza dimostra di avere nel mettere in guardia chi sia sollecitato a considerare le Arcorine come «povere vittime» – trappola in cui pare caduta una persona come Gad Lerner, con mio grande rammarico. Semmai, continua Cantosio, si tratta di «un’emancipazione malata». È qui che si tocca il vero nodo problematico della questione Arcore. Per affrontare seriamente il problema bisognerebbe, innanzittutto, cominciare a riflettere sull’emancipazione femminile in relazione alle conquiste ottenute nel Sessantotto. Tema enorme. Senz’altro. Tuttavia, se vogliamo evitare di considerare le Arcorine delle vittime di un’ingiusta società, per riconoscere fin in fondo anche la loro soggettività, bisogna spendere almeno due parole sull’argomento. Queste donne hanno fatto una libera scelta. Liberamente hanno deciso di trarre profitto dalla mercificazione del loro corpo. Indecente. Inconcepibile. Certo. Ma la libertà della soggettività può portare anche a questo. Allora dove sta la gravità nella loro libera sceltà? Il problema risiede nel fatto che, agendo così, si finisce per supportare un immaginario maschile che continua a rappresentare la donna innanzittutto come mero oggetto sessuale. Si continua, cioè, ad avvalorare una visione maschilista della società. E la cosa più grave sta nel fatto che a farlo siano delle donne per libera scelta. Il femminile ancora una volta viene negato in favore di un maschile in crisi. È un nuovo tipo di negazione, pari a quello delle donne manager. Il soggetto attivo nella compressione del femminile non è più il maschile autoritario e sovrano della società patriarcale, ma il femminile emancipato che usa la sua libertà come strumento per supportare una nuova versione del maschile. Un aggiornamento necessario preso atto della fine del patriarcato. Le donne manager da un lato, le arcorine dall’altro sono due facce della stessa medaglia. Quella di un femminile che ha incarnato il nuovo volto del maschile. Forse queste affermazioni risulteranno degli azzardi. Forse lo sono. Ma come leggere questi ultimi avvenimenti? Che cosa ci dicono? Di che cosa sono sintomo? Insomma è tempo di chiedersi quale sia la condizione della donna nella società postedipica, postnovecentesca e postpatriarcale. E se questa «emancipazione malata» fosse in realtà, purtroppo, l’unica emancipazione possibile all’interno dell’orizzonte capitalistico? Forse bisognerebbe iniziare ad interrogare il rapporto tra il femminile e il capitale. Un compito urgente. da Stefania Ragaù Bologna |
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Giorgiana Masi
Roma, 12 maggio 1977
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