Creato da fattodiniente il 01/06/2007

Gloriosa spazzatura

31 canzoni più qualcuna

 

 

Joni Mitchell, 'Both Sides, Now'

Post n°71 pubblicato il 05 Gennaio 2012 da fattodiniente



La grandezza tutta umana dell'arte consiste nel farci acquisire consapevolezza dei nostri sentimenti e delle nostre pulsioni, e in qualche modo di dare una forma concreta, percepibile ai nostri desideri.
Non che non lo sappiamo fare anche da soli, ma spesso siamo presi nelle trappole delle nostre contraddizioni, e certamente l'angoscia dell'urgenza ci fa mancare di lucidità, portandoci ai comportamenti più immondi.
Da questo punto di vista, la bellezza, e se vogliamo l'utilità, dell'arte sta dunque nel rendere più distesa, alta e consapevole l'ansia del vivere, con quel che si porta dietro.

Joni Mitchell, per dirne una (ma che una!), con questa splendida canzone, prende con delicatezza la peronospera quotidiana, apparentemente così banale e tuttavia così pervasiva, legata alle sensazioni che si provano quando finisce un legame amoroso: le immagini del prima e del dopo, quel senso così angosciante di smarrimento, di mancanza, di vuoto provato. Quella sensazione di mancanza di significato del tutto, ora, contrapposta al senso di pienezza, di fiducia, provato prima. I due lati dell'amore, appunto. Non conosco nessuno che non li abbia visti entrambe.

Che poi, riflettendoci, ciò che la canzone ci mostra è il senso ultimo dell'amore, e in fondo il segreto del suo successo, prima, e del suo dolore, dopo: qualcuno che dia un significato più completo, ricco, nuovo, sorprendente, entusiasmante, ai nostri anni. E la mancanza di questo orizzonte infinito, inarrivabile e tuttavia costantemente perseguito e ricercato, dopo.
In fondo, vedendo le cose nella prospettiva rovesciata, è la ragione - il trucco se vogliamo - per cui qualcuno si innamora di noi, e una indicazione sulla via da seguire in queste faccende. 

L'amore è l'arte del rendersi indispensabili.

 
 
 

Franco Battiato, "La stagione dell'amore"

Post n°70 pubblicato il 01 Gennaio 2012 da fattodiniente

 

 (ascoltarla con attenzione)

Battiato è un altro che quando parla, va ascoltato. Tanto per dire, non riesco ad immaginare una canzone più appropriata di questa per celebrare l'avvento di un nuovo anno. Certo, sembra parlare di tutt'altra cosa, ma la celebrazione di un nuovo anno, di una nuova stagione della vita, non è nient'altro di quel che tratta LA STAGIONE DELL'AMORE. Dipende naturalmente dal fatto che il tutto ha a che fare con quella passione del tutto umana che è il tempo. "Il tempo è il fuoco che mi brucia/ma io sono il fuoco/E' la tigre che mi divora/ma io sono la tigre" diceva Borges.
Eh già, NOI siamo il tempo (capirai la scoperta, Heidegger ci ha speso la vita a cercare di farcelo capire), e il tempo è la nostra esperienza, le cose che abbiamo fatto, e quelle che desideriamo o desidereremmo (non è la stessa cosa) fare.
Dopo di che, è una faccenda tra noi e il potente Eros: con la sua solita fulminante capacità penetrativa, Battiato arriva subito al cuore del problema.

Certo, dice bene lui, di occasioni se ne hanno, e si perdono, ma non bisogna rimpiangerle, mai, che ci saranno poi altri entusiasmi che faranno pulsare il cuore. Probabilmente è questo uno dei segreti della leggerezza. Casomai, bisogna stare attenti a dove dirigi il naso, tenendo conto che è sempre un qualche centimetro davanti a te (anche una spanna, dipende dalle dimensioni), e se non calcoli bene le misura degli spazi, è la prima cosa che si rompe se poi vai a sbattere. Per cui va bene l'entusiasmo, ma un po' di giudizio ci vorrebbe sempre ("Adelante Pedro, con juicio". Anche Manzoni insegna sempre qualcosa...). Non sempre l'ho avuto.

E' vero: gli orizzonti cambiano, e non ce n'è uno solo, per cui non sono perduti mai. In effetti, ogni persona è un mondo, e il mondo è segnato dal suo orizzonte, che al tempo stesso lo delimita e ne segna l'inarrivabilità della sua conclusione. Per cui, quando ti metti ad esplorare una persona, non raggiungerai mai i confini della sua anima, come diceva Eraclito.  Il senso dello smarrimento dell'abbandono sta in questo, nella perdita di quel che è ormai diventato il TUO orizzonte; con gran soddisfazione di Eros, che da parte sua se ne frega dei guai in cui ti ha cacciato, semmai ci gode.

Poi, scopri che ci sono altre persone.

E ricomincia una nuova stagione, e ricomincia un nuovo anno.
Credo fermamente che nei propositi che si formulano per l'anno entrante vada compresa la tua esperienza, se vuoi che essi abbiano qualche speranza di andare a buon fine. E pure se questo fa brutto, è di certo la miglior difesa dalle insidie di Eros (e per la salute del tuo naso). Il mio me lo sono già rotto svariate volte, tanto per dire, ma non giurerei che, nonostante tutto, non si romperà ancora. (Non conto quelli che ho rotto io, anche se sarebbe sportivo farlo, ma va beh...).
La cosa buffa sta nel fatto che, parlando per me, ho sempre avuto ottimo fiuto nell'indovinare dal primo momento dove le cose sarebbero andate a parare, e a posteriori direi di non essermi sbagliato mai, ma spesso ho lasciato fare ad Eros lo stesso. Spesso, non sempre. Perché Battiato dice, giustamente, di pensare a quanto si è speso male il proprio tempo, che non ritornerà, e l'affermazione va pensata. Dopotutto, si tratta di non rimpiangere quanto fatto: intanto perché manca la controprova che le cose diversamente sarebbero andate bene, e poi perché, sempre parlando per me, non ho nemmeno recriminazioni verso gli orizzonti che ho perduto. Al massimo, qualcuno ha perso la mia stima, ma dubito se ne faccia un cruccio, ammesso che lo sappia e gli interessi.
In ogni caso, qualunque cosa consigli (fare o non fare) a dar retta al fiuto si sbaglia meno che a non farlo, e questo dovrebbe essere più che abbastanza. Come propositi per il nuovo anno, dovrebbe bastare.

 
 
 

Giorgio Gaber, "La leggerezza"

Post n°69 pubblicato il 29 Dicembre 2011 da fattodiniente

 

(ascoltala)

Il meraviglioso TRA LE NUVOLE, con George Clooney, parla esattamente di quel - sentimento? stato d'animo? modo d'essere? - di cui canta Giorgio Gaber in questa canzone. La leggerezza. Immaginate - dice il protagonista del film - di dover fare un viaggio e di mettere in uno zaino ciò che è importante per voi. Gli oggetti indispensabili, le cose che vi sono care, gli affetti; ma poi le cose di cui siete responsabili, i ricordi... Alla fine vi accorgerete di avere caricato sulle spalle un peso immenso, che vi blocca, vi impedisce di spostarvi.
Già. Immagino che questo sia ciò che chiamiamo 'la nostra vita'. La leggerezza, a sentir Gaber, e Clooney, dovrebbe essere la capacità di far a meno di tutto ciò.
Eh. E poi? Beh, il film ci mostra una vita davvero leggera, e il finale ci lascia una sensazione di... inconsistenza, ed è un finale che fa pensare, lascia straniti.

Davvero è QUESTA la leggerezza?
Perché sì, non c'è dubbio che qualunque cosa sia, la leggerezza sia una gran bella cosa; una gran bella virtù, se è pratica di vita, ma ho il sospetto intanto che sia una cosa bella soprattutto per chi ha a che fare con chi la pratica; in fin dei conti, se una persona pesante è tra quanto di peggio possa capitare nei rapporti interpersonali, una persona lieve, leggera, rende la vita più facile e piacevole.

Ma quello di cui parlano Clooney e Gaber è un aspetto diverso, e riguarda indubitabilmente in prima persona chi la leggerezza sa o debba praticarla. E dunque, cos'è mai la leggerezza?

Il Sileno, per dirne uno, è in un certo senso un prototipo della leggerezza, ma era un tipo da prender con le molle, ed in ogni caso le risposte che dava non erano granché incoraggianti; quando Mida gli chiede cosa sia più desiderabile per un uomo, quello gli risponde "Stirpe miserabile ed effimera, figlio del caso e della pena, perché mi costringi a dirti ciò che per te è vantaggiosissimo non sentire? Il meglio è per te assolutamente irraggiungibile: non essere nato, non essere, essere niente. Ma la cosa in secondo luogo migliore per te è morire presto." Alè. Certo, più leggeri dell'esser morti non si può, ma è un po' troppo radicale come risposta, e in ogni caso tanto leggera non mi pare, vista anche la sua utilità...

Gaber dal punto di vista pratico centra meglio la questione, per quanto riguarda il rapporto con le cose, mentre Clooney lo coglie meglio da quello dei rapporti con le persone (quantunque Sartre ci abbia resi accorti del fatto che, molto spesso, cose e persone finiscono per esser la stessa cosa, ma lasciamo perdere). Sicché la leggerezza avrebbe a che fare col rapporto con le cose e le persone, visto che noi questo siamo, e allora si capisce anche la risposta tranchant del Sileno.
Solo che non è mica facile. Clooney fa presto a risolver la questione, ma lui è per l'appunto Clooney e magari può permetterselo.

Ma a voler prendere sul serio questa ineffabile accoppiata, la leggerezza, pensandoci, avrebbe a che fare con l'ironia, che non è poi tanto il prender le distanze dalle cose (cosa che magari piaceva al Sileno, ma è poco pratico), quanto il galleggiare sopra di esse, che rende meglio il senso sinestetico della metafora. Una persona 'leggera' è una persona ironica; potrei dire una persona che 'sa dare il giusto peso' alle cose, se non fosse che trovo la definizione farlocca. Mai conosciuto uno così. Ciascuno dà alle cose il significato che crede o che è capace, semplicemente, e poi si cucina nel suo brodo. Dopo di che, sono cazzi di chi lo frequenta. Mi sa che alla fine, 'dare il giusto peso alle cose' si risolve in un non pesare troppo sugli altrui zebedei, per cui la leggerezza è più di questo. 

Tuttavia, che sia una faccenda che ha a che fare col rapporto con le cose (e le persone) resta fuori di discussione.
Il contrario della leggerezza è naturalmente la gravità: ci sono cose gravi, che cioè hanno un grosso peso, e che non possono essere eluse, nonostante ogni tentativo di ridimensionarne, ritararne il significato. Magari ciascuno giudica gravi certe faccende solo sulla base del suo sistema di pensiero, ma che esistano delle questioni refrattarie ad ogni riperimetrazione è un fatto. Sono le faccende verso cui portiamo, nostro malgrado?, delle responsabilità, quantunque possano essere le più varie.Vista così, la leggerezza parrebbe essere sinonimo di irresponsabilità, ma nemmeno questo è giusto, giacché si può affrontare qualsiasi questione con appropriata leggerezza, senza essere superficiali. Argh...

Eh sì, com'è misteriosa la leggerezza, è una strana cosa...

 
 
 

The Bothy Band, "The Kesh Jig"

Post n°68 pubblicato il 04 Settembre 2011 da fattodiniente

(ascoltala)

I posti cambiano, come le persone. Lo so, l'ho sempre saputo. Solo che delle volte si fa finta di no, per pigrizia, per superficialità, ma anche - ma soprattutto, per affetto. Un posto, come una persona, conserva di te ricordi, desideri, modi d'essere: ciò che eri, ciò che vorresti essere, ciò che non potrai essere più. È così. 

Sono tornato in Irlanda, dopo ventitre anni. Una eternità, a pensarci. Solo che nel frattempo molte delle cose che per me l'Irlanda significava, non sono cambiate, e dunque perché sarebbe dovuta cambiare l'Irlanda?
E neanche a dire che non lo sapevo: ne avevo giusto scritto, con le parole di Roddy Doyle, qualche tempo fa. Ma non avevo dato peso alla cosa. Pensavo ad epifenomeni, manifestazioni superficiali di una realtà immutata perché immutabile: l'Irlanda è l'Irlanda, e su questo non si discute.
Ma non è così.
Certo, magari gli irlandesi son rimasti rlandesi - in questo almeno non molto è cambiato, ma esperienze come andare alla Kylemore Abbey, e ritrovarsi in due, in una strada e in un ambiente semiselvaggio, e ritrovarci ventitre anni dopo un parcheggio da 500 posti, reception, guide turistiche e almeno un migliaio di persone, beh è una bella presa di coscienza. Come mio solito, ho abbordato un nativo (un posteggiatore, nel caso), chiedendogli quando fosse accaduto tutto ciò, e la sua risposta (un 8-10 anni fa...) mi ha fatto raccontare la mia esperienza precedente, e la sua risposta è stata illuminante: 'money money money!'
Eh già. Dopotutto, perché negare ai nativi i benefici economici del turismo di massa? Quando visitai il paese per la prima volta, le presenze turistiche erano all'incirca un milione all'anno: adesso stanno sui dieci milioni. E probabilmente, l'Irlanda che conobbi era già un'altra cosa rispetto ad una decina d'anni prima.

Che poi questo abbia significato stravolgere queli che erano dopotutto tranquilli  paesini come Killarney, facendone una specie di Disneyland, immagino significhi qualcosa solo per qualcuno dei suoi abitanti. Ma di nuovo, il non riconoscere più il luogo, fino a perdervi le coordinate, il non ritrovare più edifici e posti che custodivo gelosamente nellla memoria e nell'affetto, è una esperienza che avrei volentieri evitato, e che certo avrei fatto meglio a non fare.
Un po' come scoprire che il tuo primo amore di ragazzetto si è nel frattempo sposato e ha fatto dei figli e magari di te ha solo un vago ricordo, nemmeno troppo positivo. Che bisogno c'è di saperlo? E cosa resta di te - di ciò che pensi di essere, di ciò che pensi di esser rimasto - dopo una esperienza così? Nel migliore dei casi, ti rendi conto d'esser invecchiato, e che comunque il tuo mondo - i tuoi valori, il tuo immaginario, i tuoi desideri e aspirazioni, il tuo modo di vedere le cose - semplicemente non esiste più.

Ciascuno di noi ha (credo) un suo posto mitico, una sua Avalon in cui - presto o tardi - tornerà ad approdare. Ciascuno di noi ha (penso) un suo luogo sicuro, che è anche la proiezione delle sue aspettative, un posto in cui il mondo è come deve essere, e sarà così per sempre, perché rappresenta, sintetizza, ciò che nel nostro intimo, nella nostra essenza, siamo e saremo per sempre.
Beh, il mio se l'è portato via il tempo, lo sviluppo, il progresso, o che altro accidente è stato, che importanza ha?

E allora, ripercorre quelle strade - che quelle ormai non sono più - cambiate pure quelle - con la colonna sonora di vent'anni prima, come questo strepitoso brano della Bothy Band, che già allora era l'eco di un mondo di dieci anni prima, è risultato alla fine di una malinconia assoluta.
Non più la malinconia di un mondo che si rivelava come era immaginato nel desiderio, ed era malinconia perché era un mondo che MATERIALMENTE non poteva appartenermi quanto mi apparteneva SENTIMENTALMENTE; al suo posto, la malinconia di qualcosa che mi è appartenuto per un breve attimo - un mese di ventritre anni fa, e non potrà appartenermi più, perché scomparso. Molto celtico, niente da dire.
E quel che resta, sono solo i ricordi custoditi gelosamente per ventitre anni, e ora scolorati, sino a che non svaniranno del tutto. 

Mundus senescit. Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemos.

 
 
 

Jethro Tull, 'Rover'

Post n°67 pubblicato il 12 Maggio 2011 da fattodiniente

(per ascoltarla)

Una volta scrissi che c'è una musica per ogni momento della giornata. Beh, allo stesso modo c'è una musica per ogni stagione, per ogni mese, e in generale per ogni momento dell'anno. È una mia fissa; una delle tante, e neanche la più perniciosa.

Non saprei dire quando m'è sorta: probabilmente nel momento in cui ho cominciato davvero a capire che il tempo passa, e che un bel po' ne era passato. Il che rende la cosa diversa, e un tantino più originale (eh beh) dalla ovvia considerazione che a Natale ascolti le musiche natalizie, a Pasqua quelle pasquali (?), e a ferragosto quelle ferragostane. Quali poi siano, non è affar mio.
In effetti, pensandoci, Vivaldi ha compiuto esattamente questa operazione; che ci abbia preso o no, non saprei: alla fine è questione di sensibilità e capacità di immedesimazione individuale. Se qualcuno volesse il mio parere, dirò che trovo la cosa un po' stupida: se vuoi sentire le sensazioni dell'autunno, basta aprire la finestra a novembre e sei servito al meglio: la musica al massimo sarà un palliativo. D'altro canto, voler vivere le sensazioni della primavera ad autunno (per dire) è indubitabilmente una faccenda un tantino contronatura; un po' come assaporare pesche a dicembre, sai il gusto che hanno...

Ma la cosa di cui parlo io è tutta diversa, ed è strettamente legata al mio vissuto personale. Proust diceva che un certo sapore è in grado di richiamare gli aspetti più intimi e profondi di un ricordo; secondo Poe era invece l'olfatto il senso più acuto ed evocativo. Per me è l'udito, ovvero (come dubitarne?) la musica. Siccome generalmente, per i più intendo, il senso deputato a questo genere di delizie è la vista, se poi qualcuno pensa che invece sia il tatto, abbiamo fatto filotto. Basta non litigare sulla questione, e siamo tutti contenti.

Ora, il punto - per quanto sta a me, naturalmente - è capire perché e percome accada questa cosa, ma tutto sommato non c'è nemmeno granché da spiegare. In certi periodi della mia vita, ascoltavo una certa musica, un certo artista o un certo disco: lo riascolti e torni indietro nel tempo; capirai che c'è da comprendere.
Da quel dì (da quando mi ha preso questa fissa insomma) ho sempre pensato che sarebbe stato interessante provare a farne un resoconto: un calendario musicale (bella questa, nessuno ci ha pensato mai, sono disposto a scommetterci). Ma non l'ho mai fatto; un po' per pigrizia, ovvio...
Tanto per capirci, questo brano racconta la mia primavera del '78 (ovvio, il disco uscì in quei giorni...) e le molte cose e stati d'animo vissuti; quella di tre anni prima, è di Contrappunti delle Orme e quella di quattro anni dopo è dei Chieftains. Potrei continuare, snocciolando titoli e fatti di ogni stagione e quasi ogni mese degli ultimi trentacinque anni. Diamolo per fatto, che è meglio...

Ora però, più passano gli anni, più il ricordo e la cosa si fa sistematica, il che suppongo dica - una volta ancora, ma in modo diverso - che in fondo non siamo che ciò che siamo diventati: tornare a pensare a come questo sia successo, è un po' ripercorrere il labirinto della nostra vita, sapendo che - piaccia o non piaccia - ad ogni bivio, ad ogni svolta, una e solo una era la via da seguire, la scelta da fare, per sbagliata che poi la giudichiamo (due volte su tre, a star leggeri...).
E allora, probabilmente la faccenda ha un aspetto consolatorio, e forse di dolce illusione: riessere lì, in quel momento, sapendo che se quella era la musica, quella era la danza da ballare. Dopotutto, è vero che i rimpianti che ciascuno si porta sono millanta, e che una buona percentuale delle scelte fatte non le rifarebbe, ma nessuno considera mai che manca la controprova che le cose sarebbero andate meglio, e ci sarebbe comunque restato il rimpianto di non aver percorso la strada che al momento ci sembrava migliore. È una vita difficile, eh?
Da questo punto di vista, del resto, anche il riascoltare cose del bel tempo andato è una scelta, e se non altro porta alla consapevolezza di sé e delle proprie pulsioni, della propria capacità di discernimento e dell'immagine che abbiamo di noi stessi.
Magari non serve a niente, posso essere d'accordo.
Ma cos'è che serve, dopotutto, a questo mondo? 

 
 
 

Horslips, 'Sword of Light'

Post n°66 pubblicato il 14 Gennaio 2010 da fattodiniente

 

(ascoltala)

Beh, questi non erano davvero granché. Un onesto gruppo di rock-folk, dai risultati diciamo pure dozzinali: musica per il proletariato, nessuna rilettura del patrimonio folk che andasse al di là di due chitarre e una ritmica ad elettrificare danze e melodie interpretate con più originalità da chiunque ci sia provato.
Però c'erano, e credo avessero anche un loro fedeli e accaniti sostenitori; non credo proprio di poter esser messo nel novero, e questo probabilmente va a mio merito. Però i dischi li avevo - li ho ancora se è per questo.
La cosa che mi piace di più sono le loro facce da sottoproletari; facce viste in giro per Dublino, e poi in tutti i film di Ken Loach. O se preferiamo, nei film tratti dai romanzi di Roddy Doyle: più corretto, ma è anche vero che volti ed espressioni sono poi gli stessi, di qua e di là del Canale di San Giorgio. 

Roddy Doyle, già. E' probabile che facce così siano ancor quelle che popolano l'isola di smeraldo, anche se a quanto pare la situazione sociale ora è alquanto cambiata: "successe, direi, verso la metà degli anni Novanta. Andai a letto in un Paese e mi risvegliai in un altro posto, completamente diverso". L'immigrazione,  dall'Est prima, dalla Nigeria e da altri posti dell'Africa nera poi. Forme diverse di una stessa miseria, fatta di disoccupazione, disperazione sociale, precarietà esistenziale.
Non saprei dire se gli Horslips cantassero quella dei loro bei dì (la metà degli anni '70); credo di no, ma suppongo di sì. E in ogni caso, quello era l'effetto: canzoni sulla grandezza ed epicità passata (ma di quando?) del loro paese, che interpretate sui toni piatti e scontati della loro musica, diceva molto di più sulla povertà spirituale e culturale attuale che sulla importanza della storia che la precedeva. Almeno loro non dovevano inventarsela una storia passata...

Avendo passato gran parte degli anni '80 ad ascoltare musica irlandese, un certo orecchio ed una certa conoscenza della materia potevo (e posso) comunque vantarla, e devo dire che quando riuscii a visitare quel benedetto paese, oltre vent'anni fa, trovai esattamente ciò che mi aspettavo, ed in fondo cercavo. E ci stavo pure bene.
Ora i Chieftains se ne stanno andando per età, e gli altri protagonisti di quella fortunata stagione o han battuto altre strade, o han detto ciò che avevano da dire. E l'Irlanda non è più la stessa. Ma non per la musica che vi si suona: i tempi cambiano, occorre farci i conti, oppure lasciar perdere. Magari riascoltando ancora e ancora cose che il cambiare delle cose han consegnato alla storia, ammesso che sia una storia che a qualcuno interessa ancora.
E così, capita di riascoltare anche gli Horslips, e le loro banali, ma in fondo non sgradevoli interpretazioni. E che il Signore si ricordi anche di loro, e di chi li ascolta ogni tanto. Gente innocua in fondo, noi e loro.   

 
 
 

Gavin Bryars, 'Jesus' Blood Never Failed Me Yet'

Post n°65 pubblicato il 28 Dicembre 2009 da fattodiniente


(da ascoltare, davvero)

L'ascolto di questa (canzone? opera? sinfonia?) è una esperienza. Non tanto per la sua lunghezza (quasi un'ora e un quarto), o per la sua ripetitività: sarebbe facile e del tutto fuori luogo ironia.
Potremmo dire che si tratta di un mantra, come in fondo sono tutte le composizioni minimaliste, ma sarebbe farle un torto. La storia di quest'opera, raccontata nel libretto, narra di un filmato girato nel 1971 sui barboni della metro di Londra; uno di loro cantava questo brano religioso.
in seguito, Bryars pensò di farne un'opera, accompagnando il canto con una sezione orchestrale; egli racconta che 'quando copiai il il loop in un nastro continuo, lasciai la porta dello studio aperta, mentre scesi per prendere un caffé. Quando tornai, trovai l'abitualmente vivace stanza innaturalmente silenziosa. Le persone si muovevano molto più lentamente del solito, e qualcuno stava seduto da solo, piangendo silenziosamente. Rimasi perplesso, finché realizzai che il nastro stava ancora scorrendo e che tutti erano sopraffatti dal canto non accompagnato di un vecchio.'

Non c'è nessuna magia, nessun incantesimo: solo la dignità di un vecchio barbone che canta - nonostante tutto? - l'amore di Gesù. Di passaggio in passaggio, secondo la lezione di Steve Reich, si aggiunge una sezione di fiati, un'arpa, uno xilofono, una campana, un coro, quasi inavvertiti, discreti, solo ad accompagnare.

Un vecchio barbone, la sua quieta dignità, l'amore, e la fede vera.
Forse, in questi giorni natalizi sarebbe interessante sostituire per una sola ora l'ascolto di questo disco alle montagne di spazzatura ideologica quotidianamente propinate da un altro vecchio, che ha una concezione un tantino diversa di amore, e dai milioni di atei devoti che straparlano di religione, senza avere un briciolo di religiosità. Chissà, potrebbe essere uno shock salutare in questo brutto e cattivo paese che siamo diventati.
Ma è molto probabile invece che moltissimi girerebbero canale dopo venti secondi, infastiditi ed annoiati.   

 
 
 

Hatfield & the North, 'Son of 'There's No Place Like Homerton'

Post n°64 pubblicato il 10 Ottobre 2009 da fattodiniente


(eccola)

Quest’estate sono stato a Londra, soggiornando, senza rendermene inizialmente conto, nel quartiere di Homerton. Un posto davvero come un altro, la prima periferia: case e palazzoni, supermercati, un ospedale, parcheggi, la ferrovia… Niente di particolare, non fosse che non c’è nessun posto come Homerton. A renderlo unico è una ‘canzone’ (ammesso che il termine sia adeguato, e non credo), Son of ‘There’sNo Place Like Homerton’: ci voleva l’ironia di Dave Stewart per elevarlo a posto speciale perché non ha niente di speciale. Un po’ come la nostra vita.

Chi nasce di ottobre ha quest’animo sempre un po’ così, a mezzo, che ben si sposa con giornate come questa, dal tempo grigio, in cui piove a tratti e non si capisce se faccia quasi freddo. Paesaggio da anni marroni,che è anche paesaggio dell’anima; ben illustrato – musica ed immagini – da quello che oltre ad essere per generale considerazione uno dei dischi più belli mai pubblicati, ha nel mio giudizio la più bella copertina di ogni epoca.

Un paesaggio piatto, casuale, in un tramonto autunnale. Case anonime, quasi insignificanti. Paesaggio da anni marroni, appunto. Anno Domini 1973.
La luce umida si fa largo a stento, sotto il cielo nuvoloso; una sera qualunque in posto qualunque: un angolo di una terra piatta, monotona, assente, insignificante.
Ma in alto, la coltre di nubi si squarcia e si apre a rivelare una apocalittica battaglia celeste invisibile dal basso: è il Giudizio Universale di Luca Signorelli, nel Duomo di Orvieto.
Una rivelazione, una epifania, uno scarto nell'ordine delle cose.
Non mi stanco mai di guardare questa immagine, nella superficie traslucida del cartoncino. Non mi stanco mai di comperare ancora e ancora questo disco, anche se sembra una follia. In un certo senso lo è. Ormai siamo a quota cinque.

Il disco e il gruppo si chiamano Hatfield and the North. Gruppo di culto, pressoché ignoto ai più - ma ben presenti a tutti gli appassionati del genere - strappato alle nebbie del tempo e a tutti consegnato da Jonathan Coe, loro fervente ammiratore, e che del loro secondo album, "The Rotters'Club" ha fatto il titolo del suo romanzo, "La banda dei brocchi", appunto. Omaggio e citazione, quasi una mimesi.

Ci si sono provati in tanti, a descrivere cosa sia la musica di Hatfield and the North, non credo di poterci riuscire io.
Richard Sinclair canta come un gentleman inglese, Dave Stewart si diverte a disegnare le armonie e le melodie più inusuali ed inaspettate, che non possono che essere identificate da titoli come "Lobster in Cleavage Probe","Gigantic Land Crabs in Earth Takeover Bid" (!); ed è difficile dire dove finisca la fantasia, dove inizi il genio, e dove invece la faccia da padrone l'umorismo molto british e molto estremo dell'autore, ben illustrato anche dal divertente interno di copertina: musicisti e cantanti all'opera, insieme ai quattro di Bonanza, numeri da vaudeville e altre amenità.
Una musica difficile, complessa, articolata; a volte dura, al limite del cacofonico; altre volte piana, ilare e quasi irridente nella sua banalità, comei motivetti che si fischiettano rasandosi ("Shaving Is Boring", come recita una delle "canzoni").
A volte furibonda, dissonante, estrema; altre volte rilassata e quasi sognante;altre volte ancora giocata su fughe e contrappunti; ma sempre interpretata con una perizia tecnica e una fantasia che REALMENTE hanno avuto pochi pari."There's No Place Like Homerton", come recita il capolavoro del disco. Nessun dubbio, se ci si ascolta musica così.
Una musica difficile da ascoltare, ma straordinariamente suggestiva.
Suggestiva, ecco il termine. E di fondo malinconica.
La malinconia di anni perduti - gli anni marroni, appunto, ma anche anni in cui si pensava a costruire un futuro possibile. Anni generosi, se hanno saputo produrre un disco come questo.

"
La musica che Benjamin sentì quellasera era chiara, accessibile, piena di intelligenza e umorismo, malinconia ed energia, e speranza. Non avrebbe mai capito il mondo, ma avrebbe sempre amato quella musica. E allora l'ascoltò, sicuro che Dio era dalla sua parte, e si sentì a casa."

Musica per sentirsi a casa, appunto, e osservare il mondo con occhio distaccato e partecipe, divertito e triste, furibondo e comprensivo, rassicurato e rassegnato. Musica del passato che parla di un futuro sempre possibile; musicaper un futuro che non si sarebbe mai realizzato; musica lontana e senza tempo. Musicache riscalda il cuore, se c'è qualcuno che riesce ad immaginarla e a produrla. 

Ascoltando questo disco, vorrei tornare a quegli anni.
Oh lo so, allora mi sembravano anni di merda - e probabilmente lo erano. Ma erano gli anni della mia giovinezza, e per quanto non fossi molto fiducioso (eufemismo) circa il futuro, nondimeno avevo un futuro davanti, intatto, gravido di incognite, ma anche di possibilità. O almeno, è quel che mi piace pensare adesso.
Ciò che eravamo, ciò che siamo stati. Ciò che avremmo voluto essere, ciò che siamo.
Ma come il Benjamin di Coe, ci sentivamo in tanti, e proprio grazie alla musica, intendo. Se da qualche parte qualcuno faceva una musica COSI', uno spiraglio di luce, per quanto indubitabilmente obliqua, esisteva.
Certamente, dietro alla coltre delle nubi, qualche Dio terribile ma benevolo avrebbe scatenato la sua ira in nome nostro.

Perché sì, come illustra "quella" copertina, ci sono più cose tra cielo e terra di quante non ne contempli la nostra filosofia...
E, no, non c'è nessun posto come Homerton. Io lo so: ci sono stato.

 
 
 

Ray Charles, 'What'd I Say'

Post n°63 pubblicato il 28 Settembre 2009 da fattodiniente


Com'è e come non è, m'han chiesto di tenere delle conversazioni, delle conferenze, un corso insomma, sulla musica pop. Pagato, ovviamente. Insomma come essere pagato per andare con una bella donna.
A me vien da ridere, perché continua a sfuggirmi il titolo che avrei per fare una cosa del genere, ma ammetto che la cosa mi diverte.
Oddio, una volta vista la locandina, m'è sfuggita una imprecazione e l'ilarità è sparita, o almeno ha cambiato segno: 'musicologo'. Io musicologo? Ma quando mai. Cosa poi sia un musicologo, neanche lo so bene, ma qualunque cosa sia, di sicuro non lo sono io. Musichiere, al massimo, toh. Il Mario Riva delle canzonette pop. 
Non nascondo che la cosa mi mette in un certo imbarazzo, perché immagino che occorra avere non solo una buona cultura musicale (e va beh, tutto da dimostrare, ma è possibile), ma anche una certa conoscenza di teoria della musica. Ora, va bene che non occorre essere cavalli per capire di ippica, ma il solo fatto di avere due orecchie e di ascoltare (e possedere) quintali di dischi, è una qualifica che hanno svariate migliaia di persone, delle quali tutto direi, ma non che siano musicologi. 
Insomma, è lo stesso ragionamento in base al quale svariati milioni di individui, sol per il fatto di avere una tastiera (per metonimia: un computer, uno schermo e tutto il resto) e di scrivere mandando forsennatamente a capo, non per questo possono esser definiti poeti. Io la vedo così, ecco.
Ma tant'è. E allora mi son dato da fare, e ho messo su un programmino (non è un eufemismo) che mi tenga lontano dalle secche in cui non so navigare, anche ripescando (oh yes) cose e considerazioni sparse qua e là in questo pregiato blog (umpf!), e poi vediamo come va a finire.
Giuro che se va a finire bene, aggiungerò la qualifica 'musicologo' al mio profilo.

Ah, la canzone. C'entra. E' un punto nodale nello sviluppo del pop: il momento in cui il gospel (musica sacra) si mescola col blues, e inventa un nuovo stile. Perché la musica pop questo è: commistione, ibridazione, mescolanza, operate al fine di vellicare le parti più o meno nobili del nostro corpo, per cercare di venderne più copie che si può. Non lo sapevate?

 
 
 

Tom Petty & the Heartbreakers, 'Refugee'

Post n°61 pubblicato il 30 Luglio 2009 da fattodiniente



Questa è una canzone che trent’anni fa amavo da morire; poi, ho smesso di ascoltarla, sedotto da altre cose, e, riascoltata a distanza di anni, la trovo insulsa, banalotta, inutilmente enfatica e un tantino noiosetta.
Beh, può una canzone piacerti, e poi ad un certo punto non piacerti più? Insomma, succede con le persone, perché non dovrebbe succedere anche alle canzoni? A ben vedere anzi è la stessa cosa: se una canzone ti piace, è per com’è, per i ricordi che custodisce e che hai costruito in essa, per le emozioni che ti dà, per i momenti in cui ti ha accompagnato e che hai trascorso in sua compagnia. Dov’è la differenza?
Che poi ci siano canzoni che ascolti per un certo periodo e poi basta, è un fatto tra i più comuni, ma è anche vero che nel tempo per queste canzoni provi se non uno speciale affetto, quantomeno un ricordo riconoscente. E pure questo vale anche per le persone.
Ma io sto parlando di canzoni che hai amato e che ora invece non vuoi proprio più sentire; un po’ perché ti ricordano momenti che non vuoi ricordare, e rivivere in qualunque modo; un po’ perché è proprio la canzone che non sopporti, non ti piace più. È possibile, questo?
Non c’è mica niente di male: è un fatto. Che succeda di rado, non vuol dire. Magari, questo sì, è più frequente succeda per le persone, comunque la dinamica è la stessa, a parte la faccenda del risentimento, che non si può arrivare a provare per una canzone.
La cosa peggiore è, naturalmente, quando fai la parte della vecchia canzone. Ma anche questa è una esperienza interessante, che insegna e fa riflettere su molte cose: val la pena farla. Ora, una canzone – una buona canzone quantomeno – evoca un cosmo di cose: emozioni particolari e a loro modo uniche, atteggiamenti e stati mentali, sogni e desideri, e potrei continuare. La questione è che, quando si è parte di un rapporto sentimentale, si tende a non considerare abbastanza il fondamentale fatto che amiamo l’altra persona non solo per quel che è – cosa essenziale, ma in sé sterile – ma per come ci fa sentire, cioè per l’immagine che ci rimanda di noi. È assolutamente ovvio che amiamo qualcuno perché ci fa vedere il mondo che noi siamo come speciale, ricco, illuminato. Dopo di che, entrati appunto nella parte della vecchia canzone, è come se si spegnesse la luce, e nel mentre osserviamo l’altra persona percorrere una nuova vita, vediamo il nostro mondo come vecchio, cadente, stantìo, e nient’affatto significante. Che è esattamente ciò che percepiamo nei confronti di una canzone che non ci piace più. A quel punto, scatta una dinamica per cui è come sedicessi alla canzone “ok, non insistere, non mi dici più niente, anzi mi domando cosa ci trovassi nell’ascoltarti”. Ed è una cosa che non è facile dire a se stessi, mettendosi nei panni dell’altro. Pure, occorrerebbe saperlo fare, se non altro per amor proprio, e per difesa di ciò che si continua ad essere anche in assenza dello specchio dell’amore dell’altro che non c’è più. In fin dei conti, che una canzone non piaccia più a me, non vuol dire che non possa continuare a piacere a qualcun altro, per quanto incomprensibile possa sembrare. Certo, se è difficile dire perché una canzone non ci piaccia più (o perché ci piacesse tanto prima, è lo stesso), è ben più difficile dirlo di una persona. Dirlo di se stessi, a spanne mi sembra impresa impossibile. E scatta il risentimento.
Come dicevo, infatti, una differenza sostanziale sta nel fatto che verso una canzone non si può provare risentimento, mentre nei confronti di una persona sì, eccome. Questo avviene per via del tempo: non si imputerà mai ad una canzone di averci fatto perdere del tempo, mentre – soprattutto giocando la parte della vecchia canzone, ma non solo – con le persone il tempo si perde eccome, e con esso tutto ciò che esso comporta: speranze, desideri, illusioni; per qualche strana ragione, le emozioni che ci ha dato una canzone che non amiamo più, non sono motivo di recriminazione, mentre lo sono eccome quelle vissute per un’altra persona. Il fatto è che da una persona ti aspetti sempre qualcosa; qualcosa di nuovo, sia pure il solo rivivere ancora ed ancora momenti vissuti. Una canzone, in fin dei conti, è sempre uguale a se stessa, anche se – volendo – ci si riesce a trovare sempre una sfumatura, un dettaglio, una profondità diverse. Il ragionamento è più interessante se applicato ad una persona: le persone cambiano realmente? Possono cambiare prospettive, forse aspettative, ma tutto il resto? Ma se non cambiano, nella loro essenza intendo, com’è che si finisce col diventare una canzone bolsa? Eppure accade. E con ogni probabilità dipende da ciò che ci si aspetta da canzoni e persone, da ciò che si aspetta (o non ci si vuole più aspettare, o non ci si aspetta più) da noi. Una canzone può finir per annoiare, figuriamoci se non accade ad una persona.
Una canzone non si lamenterà mai per questo. Le persone, noi… beh… Di sicuro avremo le nostre buone ragioni per farlo. Ma questa è un'altra storia.

 
 
 

Rod Stewart, 'The First Cut Is the Deepest'

Post n°60 pubblicato il 27 Luglio 2009 da fattodiniente


(la canzone)

Questa è una canzone talmente bella che ti vien voglia di darle ragione. Parla ovviamente della prima delusione amorosa, e del fatto che dopo di essa innamorarsi non è più la stessa cosa.
Non credo proprio sia così, e lo dico con assoluta cognizione di causa. Avendo preso innumerevoli fregature (avendone anche date quasi altrettante, ci mancherebbe), posso serenamente smentire Cat Stevens – la canzone è sua, ma questa versione di Rod è strepitosa. Ogni fregatura fa male uguale, o quantomeno fa male in proporzione all’impegno e al trasporto che ci hai messo.
Semmai, col tempo le fregature portano a considerare un po’ di altre cose. Innanzitutto, e soprattutto, che le fregature son SEMPRE dietro l’angolo, e prima o poi spuntano fuori, immancabilmente. È un fatto. E che sia incapacità (mia), o difetto strutturale di questo genere di faccende, son dell’opinione che nelle faccende amorose
 non val la pena impegnarcisi più che tanto. Dopotutto, le fregature è un po’ meglio (appena unpo’, e son serio) darle, piuttosto che riceverle. Stronzo è meglio che cretino: questione di amor proprio. Poi metti su TheFirst Cut Is the Deepest, e anche la tua sensibilità è soddisfatta. Come si fa, del resto, a non amare una canzone così?

 
 
 

Fleetwood Mac, 'Dreams'

Post n°59 pubblicato il 10 Luglio 2009 da fattodiniente

(eccola)

 

Migliaia di canzonette. Centinaia di migliaia. Alla fine sembrano cantare tutte all’incirca le stesse tre o quattro cose, le stesse tre o quattro emozioni, gli stessi tre o quattro sentimenti. Trattasi di canzone, dopotutto, appunto.
Una volta mi venne questa cosa degli angeli che cantano – parlavo di “And the Angels Sing”, di Benny Goodman – per cui se la Musica è il modo in cui si sta nel Paradiso, le canzonette sono la musica prodotta dagli angeli quando indossano abiti mortali. Che bella cosa che ho detto quella volta.
Tre o quattro argomenti e tre o quattro emozioni, d’accordo. Ma questo non spiega affatto perché così tante canzonette, e perché ciascuno di noi si affezioni a così tanti motivetti. Nick Hornby ci ha scritto su il suo mirabile libretto, tanto per dire. Lui ne ha scelte “solo” trentuno. A parte il fatto che per ogni canzone descritta ne cita almeno altre dieci. A mettere tutte in fila le mie, TUTTE intendo, arriverei a mille, probabilmente. Non esagero, semmai è una stima per difetto. E sono assolutamente convinto che sia così per la maggior parte delle persone.
E’ solo che, dopotutto, l’amore, la malinconia, la gioia, la rabbia, sono quattro sentimenti, ma si coniugano in così infiniti momenti della nostra vita – ciascuno a suo modo particolare, unico, irripetibile, diverso dagli altri – che ciascuno ha il suo mood, la sua tonalità emotiva. E ciascuno è segnato da una canzone.
Che poi vale per le canzoni quel che Oscar Wilde diceva della sigaretta, anzi vale anche di più: è il prototipo perfetto del perfetto piacere, è squisita e lascia insoddisfatti, che cosa si può volere di più?
Le canzonette, le buone canzonette – quelle che sanno significare qualcosa – sono ‘augenblick’, attimi autentici: un ‘colpo d’occhio’ sulla propria autentica condizione esistenziale.
Qualcosa che non dura, che magari si ripete, nella sua unicità momentanea persino irrilevante, ma che nel suo darsi costante costituisce, attimo per attimo, la nostra stessa vita. Se proviamo a descrivere ciascun momento, spenderemo molto più tempo di quanto sia la durata dello stato d'animo che abbiamo vissuto, e senza probabilmente arrivarne a definire esattamente, con le parole, la natura e l'emozione vissuta. E la stessa cosa vale per una canzone: puoi scriverci un libro, ma la sua unicità, le sensazioni che comunica e che fa vivere non riuscirai a coglierle. Un po' come descrivere ad un cieco il colore bianco del latte, come nell'apologo di Tolstoj.  Del resto, una canzonetta piacerà di sicuro a una quantità spropositata di gente, ma si può star certi che ciascuno di costoro la amerà per una ragione diversa, e ci troverà qualcosa di suo, e alla fine sarà solo la 'sua' canzone.
Per questo così tante canzonette. Ogni canzone, un attimo di vita, un momento significativo, un mood, uno sguardo particolare sul mondo, un ricordo, una speranza, una situazione emotiva o esistenziale o concreta, un modo di essere, momentaneo ma autentico, profondo.

Mi piacciono le canzonette, perché mi piace vivere.

« Thou reader throbbest life and pride and love the same as I,
Therefore for thee the following chants. »

(Tu lettore fremi di vita e orgoglio e amore come io fremo,
dunque siano per te questi canti.)

Walt Whitman

 
 
 

Soft Machine, 'Out-Bloody-Rageous'

Post n°58 pubblicato il 17 Giugno 2009 da fattodiniente

 

(ascoltala)

Il 7 giugno se ne è andato Hugh Hopper; per me - ma non solo - il bassista dei Soft Machine nel loro periodo più glorioso, a dispetto di una carriera quarantennale e mai banale.
E così, poco dopo la dipartita di Hugh Hopper (e di Pyp Pyle) un altro pezzo di storia della mia musica è venuto a mancare. La gente muore, è un fatto. Se muore un musicista (ma vale per qualunque altro artista), il discorso è diverso, nonostante i dischi più significativi magari risalgono ormai a decenni fa. Credo dipenda dal banale fatto che una volta che raccontano la tua storia - per testimonianza diretta, o per il suo raccontarla - fanno parte di te. L'artista se ne va, la sua opera resta; semplice.
Solo che ciò non spiega la malinconia.

Primo Levi parlava del senso di colpa provato dai superstiti del lager. Ecco, credo sia qualcosa di simile. Non è mica giusto che chi ha fatto parte della tua vita se ne vada, perché dopo non è mica la stessa cosa, non è mica la stessa vita. I ricordi, c'è poco fare, in qualunque modo sono cose morte, ed è la morte che raccontano. Puoi accettarlo, o maledire gli eventi. Puoi incolpare te stesso, o chiunque altro. Puoi conviverci dignitosamente, o piangere. Puoi cullarti in essi, coltivando malinconie e nostalgia, e puoi persino sperare che ciò che è stato, ritorni - allo stesso modo, o in forma diversa. Ma ciò che è stato, per l'appunto è stato.
E la musica non fa ritornare le cose: le rievoca, ti dà l'illusione di riviverle, ritornandoti emozioni e sentimenti che vivesti. Ma sono fantasmi, illusioni.
Alla fine della vicenda de 'In viaggio verso Bountiful', speranzoso ma infine doloroso viaggio alla ricerca del passato perduto, il figlio della protagonista dice 'bisognerebbe smettere di ricordare, non si ricorda mai niente di buono'.

Forse sarebbe meglio che chi custodisce i tuoi ricordi, andandosene se li portasse via con sé.

 

 

 
 
 

Tears for Fears, "Advice for the Young at Heart"

Post n°57 pubblicato il 20 Aprile 2009 da fattodiniente


(ascoltala,è stupenda)

Vi sono molti tipi diversi di storie d’amore, e ciascuno potrebbe con una certa precisione raccontarne più d’una, oltre alle sue proprie, s’intende. Queste storie, quale più quale meno, interessano sempre qualcuno; vuoi per diretta o indiretta conoscenza dei protagonisti, vuoi per interesse specifico verso uno degli interessati, vuoi per mera curiosità dei fatti altrui. Abitualmente, non ci si dà ragione di tale interesse, quale esso sia, probabilmente ritenendolo di poco o punto peso, anche se nell’intimo ciascuno sa benissimo non essere così.

Che cosa raccontino queste storie, ovvero che cosa esse insegnino e quale utilità possano esse avere, è di per sé argomento meritorio di miglior attenzione. Pure nel loro essere variamente analizzate, per solito si ritiene ch’esse comunque possan ricondursi tutte a varie tipologie generali, sia pure definibili a piacere con criteri propri e particolari. O diversamente, se ne può dedurre che ciascuna storia d’amore, anche se solo per piccoli ma non perciò marginali aspetti, sia diversa da ogni altra; e dando ugualmente per assodato che ogni singolo individuo sia per l’appunto singolo, individuale, unico, essendo perciò una storia d’amore prodotto di due fattori di per sé irripetibili, ogni rapporto d’amore e di unione sarà allora un accadimento vieppiù particolare e del pari irripetibile, dalle caratteristiche e peculiarità sue proprie, non riconducibile se non in modo molto vago e generalissimo ad altri. Del singolo, lo sappiamo, non si dà scienza, come Aristotele c'insegnò. Ciò porterebbe allor dunque a considerare tutti gli amori come partecipanti di una unica generalissima qualità costituente l’umana categoria dell’amare, nella cui unità ritrovare l’infinita varietà dei casi possibili.

Consideriamo poi che per ogni unione amorosa esistono sempre almeno due storie: quella vista dalla parte di lui, ed una storia vista dalla parte di lei; spesso non son tra loro che lontanamente simili, perché ciò ch’è vero per l’uno non altrettanto lo è per l’altro, ed in tali faccende il modo di vedere di ciascuno non è tanto un punto di vista su una realtà, quanto piuttosto la realtà dei fatti stessa; e senz’alcuna possibilità di discussione, pure. Come sperare di poter cogliere il senso di legami siffatti, senza tradire l’una o l’altra delle ragioni, e la realtà stessa del rapporto? Ossia, quel che è vero per una donna, non lo è ugualmente per un uomo; ma non nel senso che sia falso, semplicemente il vero di lei, è per lui sovente al di fuori della gamma delle possibilità, con le conseguenze filosofiche e pratiche che senza difficoltà se ne possono trarre. Sono cioè i presupposti, i modi di pensiero, i valori talvolta, ad esser proprio altri, differenti; e che farci, dunque?

Queste considerazioni possono sembrare stranianti ed indurre ad un certo scetticismo, se non altro sulla possibilità che si possa dare scienza dell’amore e dei sentimenti, cosa che in effetti è sostenuta da molti, e con molte buone ragioni. Ed ancor meglio può far concludere che parlare e ragionare dell’amore sia una attività finalmente inutile, se non addirittura sbagliata e limitante. È l’utilità stessa del raccontare l’amore che parrebbe venir meno, non potendo sperare di trarre da questo narrare un qualsivoglia utile insegnamento. Qualche ammonimento forse, ma di nessuna utilità infine,perché poi tutti continuiamo ad innamorarci, e nelle forme che più ci aggrada, o ci capita, o nelle quali semplicemente siamo capaci.

Ma di quante altre cose si potrebbe allora dire altrettanto, e assai meno rilevanti anche? E certo, se l’infinita possibilità di forme ed occasioni sembra scoraggiar qualsiasi scientifico approccio alla materia, non dimeno il piacere della narrazione e dell’ascolto ad essa accompagnato, all’approccio amoroso nuocere non posson più che tanto; giacché davanti ad una siffatta narrazione, sia essa risolta in senso positivo o meno, la sensazione infine dominante più che ogni altra è quella dell’invidia, forma estrema e deviata del desiderio: perché non è successo a me? Ed a me potrà mai succedere? Così anche quegli ammonimenti che ci vengono da queste narrazioni passano in secondo piano e sembrano del tutto svanire di fronte a quel desiderio.

Del resto, le forme dell’amore sono molteplici, infinite, ed innumerevoli le occasioni, le possibilità di incontro, di innamoramento, e ad ogni momento numerosissime le scelte differenti che possono essere operate: di comportamento, di valutazione. Quante volte inconsapevolmente abbiamo perduto quella che avrebbe potuto essere l’occasione della nostra vita? Quante persone dell’altro sesso, che in condizioni differenti, o in differenti contesti, avrebbero potuto suscitare almeno la nostra attenzione, ci sono passate davanti senza lasciare in noi nel tempo nemmeno il più lontano ricordo? E quante persone non hanno tra loro intessuti ben diversi legami di amorosi sensi per mera mancanza di tempo sufficiente ad una conoscenza più profonda e sincera? Se consideriamo appena un poco le cose secondo questa visuale, indubbiamente converremo che nel più dei casi sono necessari un tempo, un luogo ed un contesto appropriati come condizioni generali per la nascita di un legame affettivo. Il quale si può poi realizzare o meno, a seconda di una somma di molte altre variabili, ben più complesse ed imponderabili, che rendono sempre difficoltoso l’affermarsi di un reciproco sentimento affettivo.

Statisticamente dunque, le potenzialità, per chiamarle così, universali dell’amore sono infinitamente maggiori delle loro realtà fattuali. In altre parole, il numero di persone delle quali ci capita d’innamorarci è infinitamente minore di quello delle persone delle quali potremmo innamorarci, e se ciò non accade è perché, per vari accidenti e combinazioni del caso, noi non incrociamo che una parte minima di tutta questa moltitudine umana, e quasi sempre in condizioni non ottimali.

Ma consideriamo allora le modalità generalissime secondo le quali nascono e fioriscono i rapporti amorosi. Nessuno, credo, oserebbe affermare che sempre e soltanto le combinazioni interpersonali migliori siano quelle che si realizzano e prendono corpo: posto per assunto che possa esistere un amore assoluto, “l’amore della vita”, ossia che per ciascuno esista l’uomo o la donna ideale, questa persona dovrà essere per definizione una ed una soltanto, tra i miliardi di individui che popolano la terra, o almeno tra i milioni che per affinità geografiche e culturali possano esserci accostati. Le possibilità di incontrare questa persona, e d’intesservi poi legami d’amorosi sensi, sono per una mente sana e sufficientemente pratica, addirittura infinitesime, se non pressoché nulle. Ma anche a voler essere più elastici e possibilisti, come il buon senso suggerisce e come in fondo tutti siamo, vediamo che amori potenzialmente forti, saldi, ben avviati, fondati su una felice combinazione di caratteri e di atteggiamenti, combinazione non improbabile da realizzare, talvolta finiscono e muoiono per dettagli, per trascurabili accidenti del caso o bizzarrie del comportamento umano, o più semplicemente perché le verità, soprattutto in questo campo, non sono mai assolute, ma relative al tempo ed ai modi: quel che è vero oggi, qui, potrebbe benissimo non esserlo più domani, o in un altro contesto, o semplicemente considerando le cose da un diversa angolatura.

Non sarà dunque provocatorio affermare che l’amore è sempre, quasi necessariamente, frutto del caso. Ci si può innamorare di qualcuno per i più svariati motivi, anche semplicemente per una lunga sua frequentazione, per una parola giusta detta in un momento cruciale; per ripicca, per noia, per deliberata volontà, per uno squilibrio ormonale, o per altri casuali ed episodici accadimenti. E la durata di questo amore andrà ugualmente soggetta alle più diverse casualità, se non soltanto all’impegno che ciascuno vorrà mettere nell’impresa: nel crearla, nel farla crescere, nel coltivarla e mantenerla, senza scordare che, una volta ch’essa è nata e cresciuta, è normalmente più facile e comodo mantenerla e lasciarla andare piuttosto che finirla, chiuderla, troncarla; magari rinunciando, e certo chiudendo la soglia, a più allettanti, stimolanti, credibilmente fruttuosi nuovi legami. E quanto questo abbia a che fare con l’Amore è cosa discutibile assai.

L’amore perciò può essere visto come semplice fenomeno statistico soggetto a varianza: posto che gli uomini si innamorano, si uniscono e si accoppiano tra loro con assoluta regolarità, non esistendo epoca nella quale, a dispetto di tutte le condizioni, le convenzioni e le proibizioni, di più si sia amato o altra in cui si sia amato di meno, e stabilito che tali unioni o accoppiamenti spesso proseguono nel tempo indipendentemente dalla loro intensità o dalla loro qualità, si può soltanto procedere ad una descrizione delle varie modalità: i tempi di frequentazione necessari, i riti di unione, le convenzioni che si stabiliscono, i vari epifenomeni sociali che ne scaturiscono, e così via.

Non v’è insomma nulla di magico, nell’amore. Dal punto divista scientifico anzi si potrebbe arrivare a negare ch’esso sia un sentimento,o almeno che sia principalmente un sentimento. Potremmo definirlo un comportamento istintivo dell’uomo, regolato in prima istanza dal caso e dalla logica combinatoria e probabilistica, cui seguono atteggiamenti sociali variamente prestabiliti; una condotta cui viene conferito di volta in volta un certo speciale interesse, che esula comunque dalla primaria necessità di riproduzione e salvaguardia della specie, anche se in fondo generalmente si riproduce solo chi meglio si innamora, in accordo con la teoria della selezione naturale. E meglio, a badar bene, può significare anche soltanto più intensamente, o volitivamente, o con maggior determinazione e sicurezza; tutte cose, cioè, che hanno poco a che fare con la qualità e molto piuttosto con la quantità.

Cos’è del resto, la qualità dell’amore? Detto che quel che piace a taluno - le attenzioni assidue, un atteggiamento protettivo o rassicurante, la dedizione, o quant’altro - può risultare ad altri insopportabile, intollerabile, inopportuno, non è evidente come il grado di trasporto amoroso non sia niente altro che una quantità?

Ciò porta in ultima analisi a considerare questi amori totali, veri, puri, sinceri, inevitabilmente sotto la luce dell’egoismo: ti amo tanto, troppo, ti ho dato tutto me stesso, quindi ho dei diritti su di te. Si sa, del resto. Chi per amore arriva a perdere letteralmente il senno, chi soltanto il sonno, chi rinuncia ad ogni altra cosa,vita normale inclusa, chi arriva ad uccidere se stesso, o l’oggetto del desiderio: non di rado, entrambi, magari con astanti e malcapitati compresi. E questi son solo gli estremi di una insanità verso la quale tutti siamo incamminati.

Sarebbe però un imperdonabile errore di prospettiva voler leggere ogni qualsiasi storia d’amore in questa chiave. Anzi, una volta stabilite tutte queste verità, e non v’è - a chi voglia vederle - qualcuno che possa non convenirne, resta da stabilire la natura della speciale rilevanza cheabitualmente assumono, quale più, quale meno, tutte le storie d’amore, almeno agli occhi dei protagonisti; quel certo speciale interesse altrimenti incomprensibile, cui s’accennava più sopra. La funzione sociale, o meglio filosofica, primaria delle storie d’amore potrebbe infine esser questa: il capire perché, e come, l’amore assuma speciale rilevanza tra le molte e differenti vicende che ciascuno vive, ed interpreta.

Diremo dunque che vi sono indubbiamente molti modi di vivere, e descrivere, una storia d’amore. Tali modi non appartengono però che in minima parte alle qualità del discorso amoroso, essendo piuttosto frutto e riflesso del carattere di ciascuno degli amanti, e naturalmente del modo con il quale i rispettivi caratteri si incontrano, si scontrano, si mediano. La varietà degli atteggiamenti possibili, delle azioni intraprese, è dovuta alla varietà dei caratteri degli umani, perché alla fine, per quanto uno possa industriarsi d’apparire migliore, e più buono di com’è, non potrà mai prescindere e nascondersi dall’animo suo proprio, e l’amore non è che uno degli specchi in cui riflettersi e che riportano all’esterno quel che abbiamo dentro, bello o brutto che sia. Non è cioè che l’amore ci faccia molto migliori, non nel tempo perlomeno.

L’assenza di amore, questo sì, può farci peggiori, ma è questo un altro discorso. L’amore è un principio di insanità, ma la mancanza d’amore è una malattia ben altrimenti perniciosa. Anche perciò, non è corretto pensare che vi siano storie d’amore diverse dalle altre. Non per principio.

Quanto al darne ragione, si tratta infine di una chimera, di una illusione nemmeno tanto pia, della quale crediamo d’aver diritto, forse a ricompensa, ad estrema consolazione delle nostre pene e dei nostri affanni. Ma non v’è ragione alcuna, infine, che possa anche soltanto dire il perché delle cose che ci accadono: come ogni altra cosa umana, se è veramente umana, esse soltanto accadono, ed infine non accadono più. Sono le stagioni a produrre tutte le cose: e così come le stagioni passano, pretendere di fermare lo scorrere delle cose in spiegazioni e ragioni è anche più inutile che sbagliato, perché a quale misura di verità potremmo mai sperare di ancorare la nostra scienza, che non sia anch’essa frutto di una qualche stagione; di un qualche attimo d’un qualche tempo che, forse, non abbiamo nemmeno gli occhi per vedere, e le parole per dire?

 
 
 

The Beatles, "Good Night"

Post n°56 pubblicato il 15 Aprile 2009 da fattodiniente

(ascoltala)

« L'atto di coricarsi è come un addio, una separazione, una presa di congedo, (devo dir così?) una stretta di mano con Dio; e quando stringi la mano di Dio, procura che le tue mani siano pure. (...) Dormi, con le mani pure, sia che tu le abbia mantenute pure tuttoil giorno, nell'integrità; o che tu le abbia purificate, la sera, nel pentimento (...) »
John Donne

Buon sonno, a tutti coloro che dormiranno, sereni.
E buon sonno a chi faticherà a dormire, per le sue pene, e nonostante le mani le abbia lavate, forse anche al di là del bisogno.
Il buio di questa notte primaverile avvolge allo stesso modo tutti coloro che si trovano soli, abbiano essi le mani pure dal giorno, o dalla sera. Così che chi purifica le proprie mani, purifica un poco anche quelle altrui. E dunque buon sonno a chi le mani pure non le ha; forse perché pensa di non doverle lavare, o forse perché lavarle pensa di non potere, ché sarebbe inutile. Ma siamo tutti peccatori, e siamo tutti gli uni un poco partecipi del dolore degli altri.
Che questo augurio lo possa raggiungere anche senza ch'egli lo legga e possa ritrovarselo nel cuore, e finalmente giacere, sereno.

Buonanotte... buonanotte...

 

 
 
 

Supertramp, "If Everyone Was Listening"

Post n°55 pubblicato il 12 Aprile 2009 da fattodiniente


(ascoltala)

Una delle regole non scritte di questo blog è ovviamente ‘non mettere due brani dello stesso artista’, ma prima o poi doveva succedere di disattenderla. Beh, i Supertramp sono un’ottima occasione per infrangerla.

Perché chi non ama i Supertramp? A chiederlo in giro, probabilmente nessuno. Ma quanti possono dire di conoscerli davvero? Quanti cioè davvero li amano? Forse sarebbe più corretto dire che praticamente tutti apprezzano i Supertramp, o almeno apprezzano qualcosa di loro. Perché amarli, quella è un’altra faccenda: significa capirli fino in fondo, e quindi conoscerli, riconoscerne le sfumature, i riferimenti, i significati, il modo in cui costruiscono le emozioni… Mille citazioni, in un gioco di rimandi a specchio, in cui tutto viene usato per significare qualcosa di molto diverso, in cui tutto diventa qualcos’altro, sempre molto molto personale. In un certo senso, la musica dei Supertramp è un gioco mimetico, ma non nel senso del nascondere stili e stilemi, ma in quello del reinterpretarli, illuminandoli di nuova luce: un blues è e resta un blues, un sax soul resta esattamente quel che è, ma elevati ad una potenza diversa e nuova. Esercizi di stile, ma mai fini se se stessi: al contrario eseguiti alla ricerca di una forma espressiva precisamente finalizzata, più consona ad un contenuto che c’è sempre, eccome. Come un gioco di burattini, nel quale i bambini fanno parlare le loro angosce e malinconie con la voce del personaggio,che solo apparentemente racconta un’altra storia.

Certo, a colpire è quel tono ilare e leggero, sempre piacevole e accattivante, anche divertente, di affrontare la vita e le sue difficoltà, le sue malinconie. Una leggerezza che però confina, o meglio si coniuga e si fonde, in un pathos intensissimo, fatto di emozioni, di altitudini e profondità persino vertiginose; e senza rendertene conto, ti accorgi che nel mentre sorridi, sei stato portato dentro ad una tensione lacerante, altissima, espressa da un lirismo persino sfacciato nella sua purezza, e sincerità: cose che alla fine nemmeno le parole sanno descrivere, e raccontare. Un pathos fatto di niente.

Perchéi Supertramp sanno essere delicati, intimisti, lievi lievi, e poi trascinanti, e travolgenti, per poi diventare drammaticamente lirici e persino commoventi, quando ci si mettono; e sempre in modo inaspettato, sorprendente. Tu ascolti i Supertramp, e trovi sempre qualcosa di bello, di piacevole, di gradevole. Da ameni ma serissimi menestrelli della vita quotidiana, della quale essi cantano con apparente levità, con un distacco ironico e un po’ sornione,  le sue miserie, i suoi drammi esistenziali, i conflitti irrisolti, descritti sempre come alla fine irrisolvibili. I loro testi raccontano una amarezza, un disincanto davvero radicali: disagi esistenziali, più che esistentivi, per usar il lessico di uno che se ne intendeva.

Occorre spiegare chi siano realmente i Supertramp perché chi li ascolta, li capisca; e spiegare – si sa – fa sparire la magia.
Sempre ammesso che ci sia qualcuno che li sta davvero ad ascoltare.

 
 
 

Tortoise, "I Set My Face to the Hillside"

Post n°54 pubblicato il 07 Aprile 2009 da fattodiniente


Sospesi tra il senso di infinito (le capacità immaginative della mente? l’anima?) e il senso finito della povertà e della brevità della nostra esistenza, perdiamo di vista il fatto che siamo una specie giovane, e quantunque le capacità immaginative ci rendano incommensurabilmente più potenti di qualunque altra specie mai esistita, tuttavia le risposte che ci diamo perdono di vigore, di potenza, nel limbo tra il pensiero dell'infinito e la relativa dimensione spaziale e temporale della nostra esistenza.

Noi siamo abituati a misurare l’umanità in larghezza, in estensione: quanti sono i miliardi di uomini che nel tempo hanno popolato la Terra? Qualcuno ha fatto il conto, e qualunque sia il numero risultato, esso eccede ampiamente le nostre capacità di visualizzarlo. Lo sgomento di fronte a questo numero iperbolico ci fa perdere la nostra dimensione individuale, ridotta a poco più di nulla: un granello, un niente.

Ma nessuno prova a considerare l’umanità nella sua lunghezza, nelle dimensioni temporali della sua estensione. Nessuno considera che a separarci dai primissimi uomini – i Cro-Magnon, dotati di intelletto, cioè di pensiero astratto - sono poco più di 1300 generazioni.
1300 generazioni. 1300 uomini che messi in fila nel tempo, uno dopo l’altro, disegnano tutto il percorso dell’umanità dalla sua apparizione a noi. Di avo in avo, in 1300 passaggi si arriva da noi ad Adamo.
Poco più di 500 sono gli uomini che ci separano dalle pitture di Altamira; meno di un centinaio, e arriviamo a Platone. Addirittura una ottantina sono quelli che si sono succeduti dalla nascita di Cristo e dal culmine dell’Impero Romano.
Considerata così, l’umanità assume una dimensione realmente sconcertante. Essa è fatta di 1300 generazioni, e questo è quanto. Che memoria di specie possiamo mai avere? Che possiamo saperne, veramente, noi?

E tuttavia, questo è straordinariamente confortante. La nostra dimensione individuale, che si perde nei miliardi di individui esistiti ed esistenti, riacquista profondità ed significato straordinari, se considerata verticalmente…

(2005)

 
 
 

David Byrne, "In the Future"

Post n°53 pubblicato il 04 Aprile 2009 da fattodiniente


"Nel futuro tutti avranno lo stesso taglio di capelli e gli stessi vestiti

Nel futuro tutti saranno estremamente grassi per la dieta a base d'amido

Nel futuro tutti saranno estremamente magri per carenza di cibarie

Nel futuro sarà pressoché impossibile distinguere i ragazzi dalle ragazze, anche a letto

Nel futuro gli uomini saranno "ultramascolini" e le donne "ultrafemminili"

Nel futuro la fusione atomica ci consentirà di costruire un grattacielo da un granello di sabbia

Nel futuro la chirurgia genetica creerà una razza di schiavi lavoratori: stalloni, "puttane", personaggi televisivi e politici

Nel futuro metà di noi avranno "malattie mentali"

Nel futuro non ci saranno religioni né spiritualismi di sorta

Nel futuro le "arti psichiche" troveranno un uso pratico

Nel futuro non penseremo che la "natura" è bella

Nel futuro il tempo sarà sempre lo stesso (relativamente a com'è adesso)

Nel futuro nessuno combatterà più con nessun altro perché chiunque potrà essere qualsiasi cosa voglia essere

Nel futuro ci sarà una guerra atomica che ridurrà i sopravvissuti a selvaggi

Nel futuro l'acqua costerà cara

Nel futuro tutti i beni materiali saranno gratuiti

Nel futuro ogni casa sarà una piccola fortezza

Nel futuro tutti passeranno il tempo a pensare all'amore

Nel futuro la televisione sarà di tale qualità che la parola scritta avrà soltanto una funzione artistica

Nel futuro le persone con lavori noiosi prenderanno pillole per alleviare la noia

Nel futuro tutti tranne i ricchi saranno molto felici

Nel futuro tutti tranne i ricchi saranno molto sporchi

Nel futuro tutti tranne i ricchi saranno in ottima salute

Nel futuro i sistemi di comunicazione/distribuzione saranno così efficienti che nessuno vivrà più in città

Nel futuro le fattorie saranno dirette da una rete computerizzata nazionale

Nel futuro ci saranno mini guerre dappertutto

Nel futuro le decisioni politiche (e non solo) saranno integralmente basate su sondaggi d'opinione

Nel futuro solo i grandi ricchi saranno in grado di viaggiare o spostarsi dalle proprie case

Nel futuro gli individui con inclinazioni militaresche praticheranno sport "assassini"

Nel futuro ci saranno macchine che produrranno esperienze religiose in chi le userà

Nel futuro ci sarà una società senza classi, nessuno sarà più ricco di chiunque altro

Nel futuro la gente si farà costantemente interventi di chirurgia plastica, alterandosi i lineamenti più volte nel corso d'una vita

Nel futuro ci saranno molti suicidi di massa

Nel futuro ci saranno gruppi di selvaggi, che vivranno nelle zone incolte e rapineranno gli abitanti dei quartieri residenziali

Nel futuro ci saranno soltanto banconote e saranno personalizzate

Nel futuro nessuno riuscirà a tornare a casa più di una volta l'anno

Nel futuro tutti staranno perennemente a casa

Nel futuro non avremo tempo per gli svaghi

Nel futuro non"lavoreremo" più di un giorno la settimana

Nel futuro i nostri corpi saranno rinsecchiti ma sani e i cervelli più grandi

Nel futuro ci sarà gente affamata dappertutto

Nel futuro nessuno potrà permettersi televisioni o giornali, con il risultato che nessuno saprà più che cosa succede

Nel futuro la gente vivrà nello spazio

Nel futuro solo i grandi ricchi avranno animali da compagnia

Nel futuro i poveri saranno regolati dai ricchi

Nel futuro gli storpi, i ritardati e gli indifesi saranno uccisi

Nel futuro tutte le case saranno centri di divertimento, con video, pillole, balli, attrezzi sessuali, film olografici e macchine da gioco

Nel futuro tutti avranno il proprio stile individuale di vestiti da libera uscita

Nel futuro tutti mangeremo i nostri cibi preferiti, solo che saranno tutti sintetici

Nel futuro ci scoperemo qualunque cosa in qualunque momento e in qualunque luogo

Nel futuro accadranno tante cose che nessuno riuscirà a farsene un'idea "


In fondo, qualsiasi logica antimetafisica resta prima di tutto una logica, perciò qualcosa che precede ogni qualsiasi altra determinazione.
Quel che si dovrebbe fare è dunque (ed ancora e sempre attraverso un passaggio logico) semplicemente mostrare.
Nell'atto del mostrare, ogni pretesa ordinatrice metafisica viene messa a tacere, e quel che si vede, semplicemente è.
Questo spogliare di senso altro, lasciando le cose e gli avvenimenti nella loro nuda povera ed austera essenzialità, rivela l'azione tranquillizzatrice, anestetica, ordinatrice e (falsamente) consolatoria di qualunque metafisica.

Come fa David Byrne intutti i suoi testi. E tra tutti questo è il più mirabile. Uno dei recitati per le Civil Wars del coreografo Bob Wilson, su temi musicali ispirati alla leggendaria Dirty Dozen Brass Band di New Orleans.
Testi antimetafisici nella loro essenza; testi che mostrano, autentiche epoché poetiche, in cui le parole e le frasi, tutte di senso perfettamente compiuto,risultano tuttavia profondamente stranianti e inquietanti, non illuminando in modo inavvertito lo spazio dell'essere, ma mostrandone l'opacità silenziosa ("come oggetti disposti sul tavolo operatorio", Michel Foucault) e chiedono il soccorso - umano, troppo umano - di un senso che le raccolga, le ordini, le disponga in gerarchia. Le renda cioè nuovamente significanti: che è a dire rassicuranti, tranquille e non minacciose, sì da far tornare il nostro mondo ciò che è, previsto e prevedibile. 

Sino a che, istupiditi dalla incombente massa di significati indiscussi e perciò indiscutibili, chiediamo, e necessitiamo, di una parola diversa: di uno scarto sorprendente nell'ordine del possibile, che ci riveli una ricchezza altra, più vera, più profonda, più autentica e autenticamente emozionante. Qualcosa che non ci rifletta nel mondo, ma ci illumini di una luce in cui realmente poterci osservare, e vedere.

Ed ecco "a che i poeti nell'epoca della povertà".

 "Un albero lo si misura meglio quando è abbattuto".

 

 
 
 

Chick Corea, "What Game Shall We Play Today?"

Post n°50 pubblicato il 02 Aprile 2009 da fattodiniente

(ascoltala)

Una delle poche persone che riuscirono a chiudere la bocca a quel rompicoglioni di Socrate, fu Diotima. Vado a memoria (potrei sbagliare): fu anzi l’unica che ci sia riuscita. Sarà perché parlava d’amore, dicendo cose rimaste definitive da allora; o sarà perché era un donna. O sarà per qualche altro motivo, ma così è. Poi, potranno stare sulle balle tutti e due, Socrate e anche Diotima, non c’è problema: ognuno riconosce le autorictas che più gli aggradano.
Ma stare a sentire Diotima, almeno una volta, non sarebbe male: io metterei il Simposio come lettura obbligatoria nelle scuole, che almeno uno cresce senza balzane idee in testa. Sull’Amore, ovvio. Perché è un fatto: Eros non è morbido e bello, come si vuol far credere; al contrario è sempre povero, ruvido e irsuto e scalzo e senza asilo… Se la gente ne fosse una buona volta consapevole, magari eviterebbe di cacciarsi in situazioni senza uscita e senza speranza, e di sicuro vivrebbe un po’ meno peggio. E tutti noi avremmo meno blog da leggere che parlano di pene d’amor perduto (o anche soltanto spasimato, e non so cosa sia peggio).
Non che uno eviterebbe di innamorarsi, questo no: non si può, e non è neanche il fine di Diotima se è per quello. Ma evitare di farsi illusioni sulla bellezza dell’amare, sulla sua dolcezza (ma quale?), ecco questo sarebbe una buona cosa. E tutto sommato si potrebbe poi finalmente osservare a chi sbatte il naso sul brutto carattere di Eros, ‘hai voluto la bicicletta? ora pedala’.
E neanche a dire che le pene riguardino solo gli innamorati delusi o sofferenti (ma ne esistono d’altre specie?), perché Eros fa così con tutti. È la sua natura.

Alla fine, aveva ragione Alvy Singer (citazione colta), con la morale sulla barzellettina del tizio che parla allo psichiatra del fratello convinto d’essere una gallina, ma non glielo porta perché ha bisogno della uova: “Ecco, io direi che è più o meno quello che penso dei rapporti umani. Sono totalmente irrazionali e pazzi e assurdi, ma… eh, io credo che continuiamo a cercarli perché abbiamo bisogno delle uova”.
Ok, allora: a che gioco giochiamo oggi?

 
 
 

David Bowie, "Heroes"

Post n°49 pubblicato il 26 Marzo 2009 da fattodiniente

(eccola qua)

Io sarò un re, e tu… tu sarai la mia regina. Una melodia più che memorabile, con una chitarra (Adrian Belew) a tirare le note nel modo più struggente che c’è. Ed ecco qua, il gioco è fatto. Canzone antemica per definizione, inno dei grandi sognatori disincantati, e un po’maledetti. Una storia da gran cazzaro, insomma. E parecchio paraculo. Sempre detto nel senso più positivo che c’è, beninteso. E come fai a resistere?
Perché le storie bisogna saperle raccontare, altro che. Non ha ovviamente nessuna importanza che siano vere, e tutto sommato neanche che siano credibili. Basta che siano raccontate bene; il che significa più o meno che sia bello pensarle. E che sia più bello ascoltare la voce che le racconta piuttosto che la verità che dicono di narrare. Da qui, a rendere reale un’immagine, un sogno, il passo è breve. Perché noi viviamo di immagini, di suggestioni; e chi le sa creare, ci mostra il mondo – o anche la sola nostra povera esistenza – come potrebbe essere, o come sarebbe bello che fosse. Credere alle storie è insomma un po’ come vivere un futuro: forse solo possibile, sicuro; ma che nel renderci felici, sia pure per il breve volgere del racconto, una sua realtà ontologica la acquista. E siano benedetti i cazzari, veri poeti del nostro vivere quotidiano.
Poi, i poeti mentono troppo, come diceva Nietzsche; uno che la sapeva lunga, se non altro perché a star dietro ad un’artista si ritrovò con le chiappe per terra. Il problema è che i poeti – gente che inventa futuri che non si realizzeranno mai – son belli, ed affascinano. Ma se non sai come funziona la faccenda, a seguir il loro incantamento prima o poi ti fai male. Presente il pifferaio di Hamelin? Ecco, uguale. I sogni, si sa, muoiono all’alba.
I poeti son dei gran cazzari. E noi possiamo essere eroi solo per un giorno.

 
 
 
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