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VIAGGIO AD ATITLAN (prima parte)

Post n°56 pubblicato il 03 Dicembre 2006 da falco58dgl
 
Tag: luoghi

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Tapachula (Messico) dicembre 1985

Dopo ventidue ore di autobus, ho raggiunto lo stato dell’ascesi. I paesaggi scorrono indifferenti ed esausti, si mescolano gli uni con gli altri, rendono simili gli altopiani punteggiati di agavi e campi di mais, le zone calde, esuberanti di cafetales, banani, papaye e manghi, i tratti di costa, schiacciati dalla calura e densi di palme e le montagne incombenti, la sierra da cui siamo discesi o che ci apprestiamo a risalire.

Ci fermiamo in una stazione sporca e gremita, assediata dai venditori di tamales, bibite fredde racchiuse in sacchetti di plastica, dolci di cocco e di guayaba, quesadillas e tostadas. Tapachula, penultima tappa prima di varcare la frontiera col Guatemala. E’ il mio primo viaggio oltre frontiera, dopo quasi cinque anni di permanenza in Messico, il mio paese ormai.

Scendo a fatica, prendo il mio zaino dal bagagliaio, mi sposto verso l’esterno della stazione. Furgoni aperti, camion, pick up che sembrano stare lì per caso, ma che, all’improvviso si riempiono di moltitudini vocianti che caricano pacchi, ceste, contenitori, galline vive legate due a due, secchi di gamberi, valigie e borse. “Dove sarà il collettivo per Ciudad Cuauhtemoc?”, mi chiedo, mentre apro il secondo pacchetto di sigarette del giorno.

Non devo aspettare molto, arriva un autobus preistorico, con le persone appese alle porte e le valigie legate sul tetto. Cerco di salire, facendomi strada nel muro di corpi che ostruisce l’entrata. Un ragazzo mi fa un cenno, come a dire “vai su, vai su”. Salgo per la scaletta posta sul retro dell’autobus, mi sistemo tra due ceste di frutta, mi siedo sul mio zaino, aggrappandomi a dei mancorrenti posti a protezione dei bagagli.

Dopo un’attesa che mi sembra eterna, incominciamo a muoverci, caracollando su un terreno pieno di buche. Lasciamo la città e c’inoltriamo in una campagna fertile, piena di alberi che non so riconoscere. Salgono due giovanotti di circa diciotto anni e un signore con un cappello texano, camicia bianca e stivali rancheros. Iniziamo a parlare. Mi chiedono da dove vengo, da che parte degli Stati Uniti. Rimangono un po’ interdetti quando rispondo che sono italiano. “Sabe usted, Italia, Europa, el Papa, Roma”. Il signore non presta attenzione alle nostre chiacchiere.  Ogni tanto sputa verso il terreno, con cura, come se fosse un’incombenza importante.

I giovani vanno in Guatemala. Lavorano in Chiapas come braccianti stagionali e adesso ritornano a casa per qualche settimana. Chiedo loro come va in Guatemala e mi rispondono frettolosamente “va tutto bene”,come se avessero paura di essere ascoltati da qualcuno. Il più giovane aggiunge “c’è poco lavoro”, poi tace come se si fosse pentito di aver parlato troppo. Sono anch’io un po’ preoccupato. La dittatura militare è stata appena sostituita da un governo civile, ma il ricordo dei massacri, dei “villaggi modello” e della repressione militare è troppo recente per considerare il paese sicuro. Si mormora dell’esistenza di squadroni della morte, composti da poliziotti fuori servizio, specializzati nel fare sparire gli oppositori. Più giù, in Salvador, monsignor Romero, l’arcivescovo della capitale, è stato ammazzato in chiesa mentre diceva messa.

Guardo i paesaggi, le facce dei ragazzi, le mercanzie accatastate e, chissà perché, mi sento felice. Felice di muovermi su un territorio dove i riferimenti abituali dell’occidente sono sostituiti da segnali diversi, da volti differenti, da altre consuetudini.

Ecco, stiamo entrando a Ciudad Cuahutemoc. Quattro strade sterrate che s’incrociano, case basse, negozi e bancarelle ovunque. Gruppi di cambiavalute che esibiscono voluminosi fasci di biglietti, pesos e quetzales.

Cambio un po’ di soldi, mi presento al posto di frontiera. Attendo pazientemente il mio turno, il doganiere mi chiede quanto mi fermerò in Guatemala.  Rispondo “dos semanas”, mi stampiglia un visto valido un mese e mi chiede tre dollari come diritto d’entrata. Pago con sollievo, cammino trecento metri e salgo su un altro autobus che sembra risalire agli anni ’50. Ma almeno è semivuoto.
Mi accascio sul sedile, pensando che sto viaggiando senza interruzione dalle tre del pomeriggio del giorno prima. Mi addormento. Quando mi sveglio, l’autobus è stracolmo. Siamo seduti in tre su un sedile da due. Nel corridoio angusto, decine di passeggeri che formano un groviglio di braccia e gambe.


Donde estamos?”, chiedo al mio vicino, un signore robusto sui cinquant’anni.
Quasi a Mazatenango”, mi risponde. A Cocales devo scendere e passare la notte in qualche paese, prima di intraprendere l’ultimo balzo verso i vulcani di Atitlàn.


Quando scendo è buio fitto. Siamo in campagna. Un giovane s’avvicina e mi dice “vado anch’io a Patutul, vieni con me”. Chiede un passaggio ad un autotreno gigantesco. Il conducente si ferma, con uno stridore apocalittico di freni. Saliamo. Il ragazzo mi dice di essere militare di leva. Sta tornando a casa, anche lui. Il viaggio non dura molto, dopo mezz’ora arriviamo in paese.


Ci ritroviamo su uno stradone impolverato, ai cui margini sorgono case basse. C’è un solo hotel, una stamberga con stanze disposte in fila intorno ad un cortile rettangolare. Chiedo una stanza. Mi chiudo a chiave e mi spoglio. Prima di andare a letto, sento qualcuno che cerca di entrare nella stanza.
Urlo “quien es?“, ma è solo una signora che non trova la porta della sua camera. Mi addormento di schianto, alle nove di sera.


***


La mattina dopo, mi sveglio di buon ora e vado alla stazione degli autobus.
Ma forse il termine “stazione” è improprio. Nella strada principale, davanti a due botteghe di alimentari, s’accalcano una decina di mezzi.
Chiedo se vanno ad Atitlàn, ma ricevo in cambio solo espressioni dubitative e perplesse. Mi siedo impaziente e fumo, ho voglia di arrivare.
Si siede accanto a me un mendicante e mi chiede un quetzal, esibendo una gamba ridotta ad un osceno moncherino. Gli dico di no, che se ne vada. Insiste. Vuole mezzo quetzal. Salmodia una litania in cui ripete “guarda.. guarda la gamba.. che è per te mezzo quetzal?… sii buono… guarda la gamba”. Poi scende a 25 centesimi, si stringe il moncherino tra le mani. Gli dico di andare a rompere i coglioni a qualcun altro (“no me chingues”), ma lui mi guarda e mi dice “almeno la tua fretta, regalamela”. Estraggo una moneta dalla tasca, gliela do, lo guardo andar via con sollievo. Arriva l’autobus, alla fine. Prende una strada bianca e gibbosa, procede a 20 kilometri all’ora, attraversa una campagna verde che sembra non toccata dalla mano dell’uomo. Tre ore di viaggio, ma ormai siamo vicini, ormai stiamo per entrare nell’abitato di Santiago Atitlàn

(fine prima parte)

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Commenti al Post:
alina3
alina3 il 04/12/06 alle 01:09 via WEB
E' uno dei primi racconti che ho letto. Mi ha fatto piacere questo ritorno. Sai sempre coinvolgere e rendere vivide le immagini. Hai la capacità di prendere il lettore per mano e di condurlo nei tuoi viaggi. Riporto un frammento: è una fotografia. "..I paesaggi scorrono indifferenti ed esausti, si mescolano gli uni con gli altri, rendono simili gli altopiani punteggiati di agavi e campi di mais, le zone calde, esuberanti di cafetales, banani, papaye e manghi, i tratti di costa, schiacciati dalla calura e densi di palme e le montagne incombenti, la sierra da cui siamo discesi o che ci apprestiamo a risalire." Una descrizione splendida. Aspetto la seconda parte :-)
 
 
falco58dgl
falco58dgl il 04/12/06 alle 11:47 via WEB
Col Guatemala ho un vero e proprio rapporto d'amore, Alina. Mi sento più a contatto con i miei desideri, con la mia voglia di spazi. Mi fa piacere il tuo apprezzamento, lo vivo come un desiderio affine al mio. Writer.
 
DONNADISTRADA
DONNADISTRADA il 04/12/06 alle 10:49 via WEB
Bello questo racconto... sono entrata in guatemala da palenque, frontiera fluviale, e poi a tikal, anche lì attese, ore, avevo anche conosciuto un'amica, viennese, in viaggio per sei mesi, lasciava quel giorno un compagno di viaggio divenuto in quei mesi occasionale o a lungo compagno di vita, dipende dai punti di vista... continua mi piace che riemergano anche i miei di ricordi... ciao :))
 
 
falco58dgl
falco58dgl il 04/12/06 alle 11:52 via WEB
Conosco anch'io quella strada. Nel '99- a quasi 15 anni dal viaggio descritto nel racconto- sono arrivato in Guatemala via Palenque,Tenosique e il rio san Pedro. 4 ore di navigazione per arrivare a "El Naranjo",un villaggio guatemalteco disperso su un'ansa del fiume. La frontiera era a metà fiume,nel folto della selva. Uno dei personaggi del mio romanzo fa esattamente quel viaggio nel suo percorso di scoperta dell'America Latina. Ciao.Writer.
 
Utente non iscritto alla Community di Libero
Anonimo il 04/12/06 alle 15:29 via WEB
certo che ci vuol fegato per viaggiare in guatemala in autostop... ciao. Giò.
 
 
falco58dgl
falco58dgl il 04/12/06 alle 21:55 via WEB
Altri tempi. Allora ero abituato a muovermi con mezzi di fortuna. Ciao, giò. Writer.
 
amoildeserto
amoildeserto il 06/12/06 alle 18:45 via WEB
La prima volta che sono stata in Guatemala sono arrivata anch'io attraverso il rio Pedro, frontiera sul fiume, quindi "El Naranjo" ... sono passati tanti anni ... spero che nel frattempo la situazione della popolazione sia migliorata. Scusa se posso sembrarti invadente ... perchè trattare male quel mendicante?
 
falco58dgl
falco58dgl il 06/12/06 alle 22:39 via WEB
La risposta alla tua domanda è complessa. Te la dò in messaggeria, se non ti spiace. Writer. P.S. A "el naranjo" ci sono stato nel mio secondo viaggio - nel 1999-. Le condizioni della popolazione mi sono apparse precarie come nel 1985.
 
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(in seguito a uno spiacevole episodio
avvenuto su un blog della community)

 

LA RECENSIONE

usumacinta

DIECIMILA E CENTO GIORNI
Storie di uomini tra Italia e America Latina
di MARIA PIA ROMANO

Un tuffo che ha il colore del giallo ocra e del verde intenso, di mandorle amare, schizzi di sudore e deliri di lacrime. Di Italia ed America Latina, di viaggi e di fughe, di ritorni e di allontanamenti. Di esaltazione di popoli, di passioni e grida senza voce nella notte. Del blu e dell'azzurro di cielo e mare. Gli stessi che guardano fluire i giorni, i diecimila e cento giorni, mentre la brezza marina scuote il pino le cui radici restano annodate alla terra. All'amore, alla ricerca costante che dà un senso alle cose, alla vita che è fatta di scenari che cambiano, di sogni di libertà da
condividere con i compagni, di ansie e sconforti segreti, che si affondano nel dolore della bulimia, ingurgitando per rabbia e insoddisfazione cibi di cui non si riesce a percepire il sapore. Emersione, immersione, navigazione, approdo: in quattro sezioni si snoda avvincente la narrazione, che racchiude un arco di trentaquattro anni, dal 1970 al 2004.

E' uno di quei libri che si vorrebbe non finissero mai i "Diecimila e cento giorni" di Claudio Martini, edito da Besa. Ti capita tra le mani e lo leggi d'un fiato, perdendoti in quei nomi che diventano subito uomini e tu li ascolti e li vedi soffrire, gioire, respirare, far l'amore. Destini che s'incrociano e si salvano a vicenda, in un costrutto narrativo di suprema bellezza.

Ci sono immagini che s'imprimono nitide e vere nella mente, mentre insegui il tuo cuore rapito dalle storie. Storie di uomini. Storie che vengono fuori in una sorta di "stream of consciousness", in cui più che la cronologia conta il tempo interiore, che ti porta direttamente dentro le porte delle loro case e ti dischiude l'universo dell'anima. Fotogrammi sospesi tra un'Italia che si chiude dietro un perbenismo di facciata e cela solo irriguardose marginalità ed un'America Latina che grida la sua libertà con fierezza sconcertante, mentre è ancora oppressa da un macigno sul cuore che non la fa respirare.

Lo psicologo di origini tarantine, che ha una lunga esperienza di lavoro all'estero, proprio in America Latina, scrive di Perù, Nicaragua, Messico, Kosovo, Italia con la penna guizzante di una grande intelligenza che, come lama, squarcia la cortina dell'indifferenza dei tanti.

 

 

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