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Post n°321 pubblicato il 16 Ottobre 2008 da falco58dgl
Tratto da "Diecimila e cento giorni". Il protagonista arriva a Taquile, un'isola nel centro del lago Titicaca, tra Perù e Bolivia, e inizia il suo lavoro di alfabetizzazione della comunità locale, composta in massima parte di indigeni... Il lavoro non è affatto male. Anche se la mia vita assomiglia sempre più a quella di un monaco o di un eremita, inizio ad amare questi luoghi solitari e impervi, l’estensione sconfinata dell’orizzonte, la Bolivia che s’intuisce sull’altra riva. Mi alzo prima delle sei e mi reco in riva al lago. Non sono mai stato troppo incline alla spiritualità e al misticismo, ma giuro che vedere l’alba che colora il Titicaca e la terra rossa dell’isola che avvampa mentre il cielo si colora di rosa e arancio dà i brividi. Torno in paese per un caffè bollente e acquoso, mi lavo con acqua gelida e, alle otto, ho il mio primo turno di “lezioni”. Tre ore con ragazzi giovani, che hanno frequentato la scuola elementare in modo così frammentario da essere diventati analfabeti di ritorno. Con loro non applico rigidamente il metodo delle parole generatrici. Parliamo di argomenti che appartengono alla loro quotidianità. La confezione di vestiti, la pesca, gli alimenti e, quando hanno scelto alcune parole per loro significanti, vado alla lavagna, le scrivo con caratteri grandi e le sillabo. Poi cerchiamo insieme altre parole che contengono la stessa sillaba Il “ma” di mais è lo stesso di “madre”, e questo lo intuiscono perfettamente, anche se il termine “madre” ha suscitato risolini e battute da caserma, mormorate sottovoce. Qui la madre, nel linguaggio ordinario, è un paradigma di elementi negativi e positivi che convivono. La madre dà la vita, ma la vita è un insieme di fatiche e umiliazioni tali da rendere ambivalente la sua origine e la sua matrice. Ho fatto sganasciare la classe sillabando “coňo”- figa- e mettendolo in relazione con “como”. Temo che Freire mi giudicherebbe con severità, ma questa fesseria ha fatto aumentare il mio livello di popolarità tra gli studenti di parecchio. Alle tredici, dopo un rapido pranzo, ho un gruppo di donne che ripetono le mie parole quasi con una cadenza ipnotica. Con loro ci vado piano, niente battute salaci, la comunità locale è molto sensibile sotto questo aspetto e non vorrei finire affettato a colpi di machete da qualche marito geloso che ha mal interpretato una battuta del “profesor”. Gli uomini adulti che lavorano tutto il giorno nei campi o pescando arrivano verso le cinque del pomeriggio, alcuni si addormentano durante la lezione come se fossimo in un libro di De Amicis, però la maggioranza di loro s’impegna con tenacia e, nel giro di qualche settimana, ha imparato a vergare su fogli di carta screpolati il proprio nome e cognome. Ceno e rientro nel mio eremo verso le otto di sera. Alle nove mi addormento come un sasso. Di domenica non si lavora e ne approfitto per prendere una barca e girare i paesi vicini. Mi piace sfiorare l’acqua con la mano mentre il battello s’inoltra per quelle distese quasi senza confini, che mescolano paesaggi aspri e dolci, così vicini al cielo da risultarne quasi levigati. Ho scorto una barca di turisti che s’avvicinava lenta, mi sono augurato che non fossero americani in pantaloncini corti o sconvolti approdati qui dalla dissoluzione del movimento. Mi sono voltato per guardare il profilo delle montagne e, quando ho dato un’occhiata distratta al gruppo che scendeva dalla barca e si apprestava a inerpicarsi sbuffando sul sentiero, ho visto lei, Consuelo, vestita con due maglioni di lana multicolori sovrapposti e la sua collana al collo che correva verso di me. |
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(in seguito a uno spiacevole episodio
avvenuto su un blog della community)
LA RECENSIONE
DIECIMILA E CENTO GIORNI
Storie di uomini tra Italia e America Latina
di MARIA PIA ROMANO
Un tuffo che ha il colore del giallo ocra e del verde intenso, di mandorle amare, schizzi di sudore e deliri di lacrime. Di Italia ed America Latina, di viaggi e di fughe, di ritorni e di allontanamenti. Di esaltazione di popoli, di passioni e grida senza voce nella notte. Del blu e dell'azzurro di cielo e mare. Gli stessi che guardano fluire i giorni, i diecimila e cento giorni, mentre la brezza marina scuote il pino le cui radici restano annodate alla terra. All'amore, alla ricerca costante che dà un senso alle cose, alla vita che è fatta di scenari che cambiano, di sogni di libertà da
condividere con i compagni, di ansie e sconforti segreti, che si affondano nel dolore della bulimia, ingurgitando per rabbia e insoddisfazione cibi di cui non si riesce a percepire il sapore. Emersione, immersione, navigazione, approdo: in quattro sezioni si snoda avvincente la narrazione, che racchiude un arco di trentaquattro anni, dal 1970 al 2004.
E' uno di quei libri che si vorrebbe non finissero mai i "Diecimila e cento giorni" di Claudio Martini, edito da Besa. Ti capita tra le mani e lo leggi d'un fiato, perdendoti in quei nomi che diventano subito uomini e tu li ascolti e li vedi soffrire, gioire, respirare, far l'amore. Destini che s'incrociano e si salvano a vicenda, in un costrutto narrativo di suprema bellezza.
Ci sono immagini che s'imprimono nitide e vere nella mente, mentre insegui il tuo cuore rapito dalle storie. Storie di uomini. Storie che vengono fuori in una sorta di "stream of consciousness", in cui più che la cronologia conta il tempo interiore, che ti porta direttamente dentro le porte delle loro case e ti dischiude l'universo dell'anima. Fotogrammi sospesi tra un'Italia che si chiude dietro un perbenismo di facciata e cela solo irriguardose marginalità ed un'America Latina che grida la sua libertà con fierezza sconcertante, mentre è ancora oppressa da un macigno sul cuore che non la fa respirare.
Lo psicologo di origini tarantine, che ha una lunga esperienza di lavoro all'estero, proprio in America Latina, scrive di Perù, Nicaragua, Messico, Kosovo, Italia con la penna guizzante di una grande intelligenza che, come lama, squarcia la cortina dell'indifferenza dei tanti.
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