Creato da falco58dgl il 26/09/2005

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Blog di narrativa, suggestioni di viaggio, percorsi interiori, sguardi sul mondo.

 

« Omaggio a uno scrittore ...A te »

Sentirsi straniero, estraneo, senza radici, fuori luogo, fuori tempo...

Post n°396 pubblicato il 19 Maggio 2010 da falco58dgl
 

Il cielo pone in capo
ai minareti
ghirlande di lumini

(Ungaretti)

ungaretti

Si chiamava
Moammed Sceab

Discendente
di emiri di nomadi
suicida
perché non aveva più
Patria
Amò la Francia
e mutò nome

Fu Marcel
ma non era Francese
e non sapeva più
vivere
nella tenda dei suoi
dove si ascolta la cantilena
del Corano
gustando un caffè

E non sapeva
sciogliere
il canto
del suo abbandono

L’ho accompagnato
insieme alla padrona dell’albergo
dove abitavamo
a Parigi
dal numero 5 della rue des Carmes
appassito vicolo in discesa.

Riposa
nel camposanto d’Ivry
sobborgo che pare
sempre
in una giornata
di una
decomposta fiera

E forse io solo
so ancora
che visse

(Ungaretti, 1916)

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Commenti al Post:
cateviola
cateviola il 19/05/10 alle 23:03 via WEB
senza patria, senza identità?
In punta di piedi, dopo una lunga sosta in questa oasi di poesia e amore (nel tuo titolo tutto il commento possibile), ti saluto e ti ringrazio per la scelta sapiente
 
 
Utente non iscritto alla Community di Libero
Writer il 21/05/10 alle 13:30 via WEB
Nuvola, il tuo commento mi fa molto piacere. Mi costa un po' tenermi lontano dalla cronaca, dall'infinita serie di miserie e di arbìtri che cingono il quotidiano, ma ritengo che nella poesia e nella narrativa si possano trovare risposte più pregnanti e immediate. Un abbraccio. W.
 
santinove
santinove il 19/05/10 alle 23:55 via WEB
chissà perchè ma questo contesto evoca in me questi altri versi di ungaretti: balaustrata di brezza per appoggiare stasera la mia malinconia
 
 
Utente non iscritto alla Community di Libero
Roberta il 20/05/10 alle 19:03 via WEB
Grazie, caro Claudio ... ma grazie anche a santino ... è proprio così che mi sento stasera "balaustrata di brezza per appoggiare stasera la mia malinconia" e non gioco con le parole ma le uso per nutrire la mia testa e il mio cuore
 
   
Utente non iscritto alla Community di Libero
Writer il 21/05/10 alle 13:38 via WEB
Benritrovata, Roberta. Certe parole nutrono più di qualunque alimento, ci permettono di dare nomi alle sensazioni, rendono visibile la nostra presenza. Un forte abbraccio. W.
 
Utente non iscritto alla Community di Libero
Writer il 21/05/10 alle 13:34 via WEB
Entrambe le poesie appartengono al primo periodo della produzione di Ungaretti (1910-1917). E, come dici, si evocano a vicenda, un sentimento affine di abbandono le percorre entrambe. ciao. W.
 
CherryM00N
CherryM00N il 21/05/10 alle 16:18 via WEB
Eppure essere zingari è l'unica appartenenza che stappa le radici dal suolo
 
 
falco58dgl
falco58dgl il 21/05/10 alle 18:48 via WEB
Vero, ma bisogna riconoscersi come tali. Altrimenti lo sradicamento è solo perdita dell'identità. Un bacino. W.
 
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(in seguito a uno spiacevole episodio
avvenuto su un blog della community)

 

LA RECENSIONE

usumacinta

DIECIMILA E CENTO GIORNI
Storie di uomini tra Italia e America Latina
di MARIA PIA ROMANO

Un tuffo che ha il colore del giallo ocra e del verde intenso, di mandorle amare, schizzi di sudore e deliri di lacrime. Di Italia ed America Latina, di viaggi e di fughe, di ritorni e di allontanamenti. Di esaltazione di popoli, di passioni e grida senza voce nella notte. Del blu e dell'azzurro di cielo e mare. Gli stessi che guardano fluire i giorni, i diecimila e cento giorni, mentre la brezza marina scuote il pino le cui radici restano annodate alla terra. All'amore, alla ricerca costante che dà un senso alle cose, alla vita che è fatta di scenari che cambiano, di sogni di libertà da
condividere con i compagni, di ansie e sconforti segreti, che si affondano nel dolore della bulimia, ingurgitando per rabbia e insoddisfazione cibi di cui non si riesce a percepire il sapore. Emersione, immersione, navigazione, approdo: in quattro sezioni si snoda avvincente la narrazione, che racchiude un arco di trentaquattro anni, dal 1970 al 2004.

E' uno di quei libri che si vorrebbe non finissero mai i "Diecimila e cento giorni" di Claudio Martini, edito da Besa. Ti capita tra le mani e lo leggi d'un fiato, perdendoti in quei nomi che diventano subito uomini e tu li ascolti e li vedi soffrire, gioire, respirare, far l'amore. Destini che s'incrociano e si salvano a vicenda, in un costrutto narrativo di suprema bellezza.

Ci sono immagini che s'imprimono nitide e vere nella mente, mentre insegui il tuo cuore rapito dalle storie. Storie di uomini. Storie che vengono fuori in una sorta di "stream of consciousness", in cui più che la cronologia conta il tempo interiore, che ti porta direttamente dentro le porte delle loro case e ti dischiude l'universo dell'anima. Fotogrammi sospesi tra un'Italia che si chiude dietro un perbenismo di facciata e cela solo irriguardose marginalità ed un'America Latina che grida la sua libertà con fierezza sconcertante, mentre è ancora oppressa da un macigno sul cuore che non la fa respirare.

Lo psicologo di origini tarantine, che ha una lunga esperienza di lavoro all'estero, proprio in America Latina, scrive di Perù, Nicaragua, Messico, Kosovo, Italia con la penna guizzante di una grande intelligenza che, come lama, squarcia la cortina dell'indifferenza dei tanti.

 

 

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