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Post n°404 pubblicato il 08 Agosto 2010 da falco58dgl
(vista dal balcone di Villa Evi)
L'isola di Halki è una sinfonia policroma di case e costruzioni a un piano disposte intorno a una baia semicircolare. Montagne brulle ne percorrono la lunghezza, rilievi montuosi ondulati e imponenti che strapiombano verso il Mediterraneo. Un mare le cui sfumature richiamano i colori delle case collocate ad anfiteatro lungo il contorno della baia; un mare fresco, trasparente, luminoso su cui la luna nascente proietta strisce di luce arancione o gialle che sembrano danzare in spirali marine. Halki, un'isola piena di grazia in cui anche le numerose case abbandonate o in rovina sembrano disegnare una coreografia di pace e di quiete. Dal balcone del living di Villa Evi, la splendida abitazione che abbiamo preso in affitto, una casetta a due piani colma di dettagli armonici e belli, si scorge un campanile -forse bizantino, forse romanico, chi lo sa- che svetta sulla città e che segna perpetuamente nel suo orologio antico le 4:20 -difficile sapere se si tratta della mattina o del pomeriggio-; un tratto del porto su cui si affacciano alcuni ristoranti, i rilievi frastagliati della costa, isolotti vicini che affiorano dal mare come grandi pesci di pietra, il profilo imponente della costa ovest dell'isola di Rodi, a dieci chilometri di distanza. Al calare della sera il paesaggio assume caratteristiche fiabesche: la luce declinante oscura i dettagli ed esalta le masse, i contorni delle forme, mentre un chiarore rosato avvolge il mare, le montagne, il profilo delle isole. Al mattino, invece, una luce crudele batte sulle facciate gialle, ocra, verdi, rosa, azzurre delle case e provoca bagliori che abbacinano la retina obbligando il passante a proteggersi all'ombra delle stradine che si inerpicano dal porto verso l'entroterra o sotto ombrelloni disposti fino a quasi lambire il mare. Halki, un luogo di suggestioni, di serenità, una meta finalmente raggiunta, un luogo da iscrivere nella memoria.
(visione parziale del porto di Halki) |
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LA RECENSIONE
DIECIMILA E CENTO GIORNI
Storie di uomini tra Italia e America Latina
di MARIA PIA ROMANO
Un tuffo che ha il colore del giallo ocra e del verde intenso, di mandorle amare, schizzi di sudore e deliri di lacrime. Di Italia ed America Latina, di viaggi e di fughe, di ritorni e di allontanamenti. Di esaltazione di popoli, di passioni e grida senza voce nella notte. Del blu e dell'azzurro di cielo e mare. Gli stessi che guardano fluire i giorni, i diecimila e cento giorni, mentre la brezza marina scuote il pino le cui radici restano annodate alla terra. All'amore, alla ricerca costante che dà un senso alle cose, alla vita che è fatta di scenari che cambiano, di sogni di libertà da
condividere con i compagni, di ansie e sconforti segreti, che si affondano nel dolore della bulimia, ingurgitando per rabbia e insoddisfazione cibi di cui non si riesce a percepire il sapore. Emersione, immersione, navigazione, approdo: in quattro sezioni si snoda avvincente la narrazione, che racchiude un arco di trentaquattro anni, dal 1970 al 2004.
E' uno di quei libri che si vorrebbe non finissero mai i "Diecimila e cento giorni" di Claudio Martini, edito da Besa. Ti capita tra le mani e lo leggi d'un fiato, perdendoti in quei nomi che diventano subito uomini e tu li ascolti e li vedi soffrire, gioire, respirare, far l'amore. Destini che s'incrociano e si salvano a vicenda, in un costrutto narrativo di suprema bellezza.
Ci sono immagini che s'imprimono nitide e vere nella mente, mentre insegui il tuo cuore rapito dalle storie. Storie di uomini. Storie che vengono fuori in una sorta di "stream of consciousness", in cui più che la cronologia conta il tempo interiore, che ti porta direttamente dentro le porte delle loro case e ti dischiude l'universo dell'anima. Fotogrammi sospesi tra un'Italia che si chiude dietro un perbenismo di facciata e cela solo irriguardose marginalità ed un'America Latina che grida la sua libertà con fierezza sconcertante, mentre è ancora oppressa da un macigno sul cuore che non la fa respirare.
Lo psicologo di origini tarantine, che ha una lunga esperienza di lavoro all'estero, proprio in America Latina, scrive di Perù, Nicaragua, Messico, Kosovo, Italia con la penna guizzante di una grande intelligenza che, come lama, squarcia la cortina dell'indifferenza dei tanti.
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Tornata dalla mia isola, tornerò a leggere appena sole e vento avranno lasciato gli occhi riabituarsi a computer e città
Un bacione
I porti, però, le città sul mare, sono speciali