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Blog di narrativa, suggestioni di viaggio, percorsi interiori, sguardi sul mondo.
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Da "Ipertempo", penultimo capitolo de "I racconti del ripostiglio".
Qualcosa torna, s’affaccia alla mente come una silhouette di donna intravista da una finestra, il profilo di una ragazza che fa capolino per un secondo sul balcone prima di spegnere le luci e consegnare l’edificio intero a un’oscurità completa. Immagini ancora frammentarie, ma che iniziano a disegnare scene dotate di senso.
Dalla prima casa, affittata in centro a un’altra, di proprietà, in una periferia nebbiosa e vuota, fatta di corsi ampi, cantieri di edifici in costruzione e alberi piantati di recente che lambivano aree industriali e terreni abbandonati.
Gli anni del liceo, l’autobus preso di corsa alle 7 e 55, per arrivare qualche minuto prima delle 8 e 30 a varcare i cancelli della moderna struttura di vetro e cemento affacciata su un corso frequentato da prostitute, ferme sul ciglio della strada, davanti a condomini residenziali.
Oscurità e silenzio, anni buttati via a misurare la distanza dagli altri, la differenza nei confronti di coloro che affermavano i loro desideri attraverso pullover sportivi e giacche eleganti, ragazze esibite, scopate raccontate e utilitarie guidate sul filo della maggiore età. La voglia feroce di scappare, di andar via, di bruciare la città nel proprio cuore, di dimenticarne le ceneri, di ricostruire altrove una sensazione di precaria appartenenza.
L’università, il gran casino di quel periodo “dalle molte parole”, come ha detto qualcuno, l’illusione di partecipare a un movimento collettivo che avrebbe trasformato le nostre vite, se non i rapporti di forza tra classi sociali di cui eravamo figli ed eredi, impegnati a distruggere una “borghesia” di cui facevamo parte e che ci avrebbe riassorbito, anni dopo, nei suoi interstizi marginali.
Le donne…il sesso così poco erotico di allora, discontinuo, occasionale, qualche passione consumata nello spazio di due mesi, il desiderio di debordare, mentre percorrevo la distanza tra la facoltà, la casa, il mercato e la radio. La voglia di esserci e contare e un disincanto precoce, forse la percezione della vanità, dell’effimero che s’insinuava nella ricerca di un lavoro, di una casa con riscaldamento e ascensore, di amicizie e affetti al di fuori del recinto del collettivo politico e degli esami studiati in gruppo.
Guardarsi intorno e non sapere se proseguire verso mete ignote, rimanere nel territorio incerto del tirocinio e del volontariato o tornare indietro verso il punto di partenza con l’espressione di chi ha giocato per cinque anni.
Eppure, anche adesso che i ricordi emergono, sprizzano con la stessa forza di un getto d’acqua che fuoriesce da un idrante, avverto un alone di oscurità, qualcosa che non può neanche essere detto, se non attraverso allusioni negative, qualcosa che non è neanche buio, ma resistente alla luce, refrattario ai significati e alle spiegazioni, materiale inerte che non riesco a trasformare in eventi, emozioni, connessioni di senso.
Mi rendo conto, all’improvviso, delle mie mani che stropicciano il biglietto con le istruzioni per continuare il gioco. Non saprei dire se le ho già lette e il flusso dei ricordi sia un prodotto di ciò che ho visto o se, al contrario, la rievocazione del passato sia un elemento indispensabile per recepirne il significato.
Volgo la sguardo verso il basso e rimango a bocca aperta mentre leggo una frase brevissima che non contiene indicazioni di luoghi o di orari,
“ora tocca a te”.
IL MIO ROMANZO
CLAUDIO MARTINI
"DIECIMILA E CENTO GIORNI"
BESA EDITRICE
INCIPIT
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LA RECENSIONE
DIECIMILA E CENTO GIORNI
Storie di uomini tra Italia e America Latina
di MARIA PIA ROMANO
Un tuffo che ha il colore del giallo ocra e del verde intenso, di mandorle amare, schizzi di sudore e deliri di lacrime. Di Italia ed America Latina, di viaggi e di fughe, di ritorni e di allontanamenti. Di esaltazione di popoli, di passioni e grida senza voce nella notte. Del blu e dell'azzurro di cielo e mare. Gli stessi che guardano fluire i giorni, i diecimila e cento giorni, mentre la brezza marina scuote il pino le cui radici restano annodate alla terra. All'amore, alla ricerca costante che dà un senso alle cose, alla vita che è fatta di scenari che cambiano, di sogni di libertà da
condividere con i compagni, di ansie e sconforti segreti, che si affondano nel dolore della bulimia, ingurgitando per rabbia e insoddisfazione cibi di cui non si riesce a percepire il sapore. Emersione, immersione, navigazione, approdo: in quattro sezioni si snoda avvincente la narrazione, che racchiude un arco di trentaquattro anni, dal 1970 al 2004.
E' uno di quei libri che si vorrebbe non finissero mai i "Diecimila e cento giorni" di Claudio Martini, edito da Besa. Ti capita tra le mani e lo leggi d'un fiato, perdendoti in quei nomi che diventano subito uomini e tu li ascolti e li vedi soffrire, gioire, respirare, far l'amore. Destini che s'incrociano e si salvano a vicenda, in un costrutto narrativo di suprema bellezza.
Ci sono immagini che s'imprimono nitide e vere nella mente, mentre insegui il tuo cuore rapito dalle storie. Storie di uomini. Storie che vengono fuori in una sorta di "stream of consciousness", in cui più che la cronologia conta il tempo interiore, che ti porta direttamente dentro le porte delle loro case e ti dischiude l'universo dell'anima. Fotogrammi sospesi tra un'Italia che si chiude dietro un perbenismo di facciata e cela solo irriguardose marginalità ed un'America Latina che grida la sua libertà con fierezza sconcertante, mentre è ancora oppressa da un macigno sul cuore che non la fa respirare.
Lo psicologo di origini tarantine, che ha una lunga esperienza di lavoro all'estero, proprio in America Latina, scrive di Perù, Nicaragua, Messico, Kosovo, Italia con la penna guizzante di una grande intelligenza che, come lama, squarcia la cortina dell'indifferenza dei tanti.
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